Ottant’anni dopo: guerra di resistenza in Cina e vittoria sul fascismo
Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, che vide la Cina impegnata, fin dal 1931, in una sanguinosa guerra di resistenza contro l’invasione giapponese. Per la Cina, quella che in Occidente è nota come “Seconda guerra mondiale” è ricordata innanzitutto come la Guerra di Resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese, parte integrante, ma spesso sottovalutata in occidente, del conflitto mondiale contro il fascismo. La Cina ha infatti rappresentato il principale campo di battaglia in Oriente della guerra antifascista mondiale, contribuendo in modo decisivo alla vittoria finale con oltre 35 milioni di vittime e feriti, tra militari e civili. Nel periodo 1937-1941, prima dello scoppio della guerra del Pacifico, la Cina rappresentò dunque l’unico fronte attivo contro il fascismo giapponese (con le sue truppe dispiegate quasi totalmente in Cina), creando le condizioni per la controffensiva alleata nel Pacifico e consentì all’URSS di non dover combattere contemporaneamente su due fronti.
Questa guerra fu una prova esistenziale per il popolo cinese, poiché l’invasione nipponica causò decine di milioni di morti e feriti, distruzioni immani, stupri ed uccisioni di massa, ma anche una profonda trasformazione della coscienza nazionale. Si pensi solo ai massacri di Nanchino in Jiangsu (1937-38), di Panjiayu in Hebei (1941) e di Changjiao (1943) in Hunan.
Dal punto di vista della storia cinese, la guerra contro l’invasore giapponese rappresenta una svolta. La Cina, allora ancora semi-colonizzata e dilaniata da guerre civili, riuscì a resistere a una delle più potenti macchine belliche dell’epoca. Questa resistenza, alimentata dalla popolazione rurale e dalle forze guerrigliere, trasformò la Cina da vittima passiva dell’imperialismo a protagonista della vittoria antifascista: una memoria che è oggi parte integrante, e fondante, della narrazione storica nazionale. Essa viene celebrata non solo per ricordare le sofferenze subite, ma per riaffermare un principio chiave della politica cinese contemporanea: la sovranità e l’indipendenza nazionale come beni supremi, conquistati a caro prezzo e da non dare mai per scontati. Se l’Europa ricorda Auschwitz e Stalingrado, la Cina ricorda Nanchino e Chongqing. Luoghi diversi, ma uniti da una comune lotta contro l’oppressione. In questo senso, la guerra di resistenza cinese non fu solo una lotta nazionale, ma parte essenziale di un movimento mondiale per la liberazione dei popoli dall’imperialismo, dal razzismo e dalla tirannide. Una lotta che, con grande successo, la Cina continua a combattere anche nel presente, benché con la forza del suo sviluppo e l’esempio di un Paese capace di contribuire enormemente alla cooperazione internazionale rifiutando militarismo ed egemonismo.
In un mondo ancora attraversato da tensioni geopolitiche e da revisionismi storici, la memoria di quella resistenza acquisisce un nuovo significato, tanto come ricordo quanto come monito per il futuro: la pace va difesa, la verità storica va preservata, e il contributo della Cina alla vittoria contro il fascismo merita pieno riconoscimento nel racconto globale della storia del XX secolo.
Su queste pagine della storia dei popoli, dunque, non è possibile permettere alcuna forma di revisionismo sui risultati della guerra, che sono fissati nella Carta delle Nazioni Unite e in altri documenti internazionali. Alle recenti celebrazioni del 9 maggio a Mosca hanno partecipato 29 capi di stato e delegazioni ufficiali di altri numerosi paesi. Tuttavia, a causa delle posizioni ideologiche e delle ambiguità strategiche occidentali, le autorità di Bruxelles avevano addirittura esortato al boicottaggio di una celebrazione che, al contrario, dovrebbe creare unità nella memoria storica e nelle azioni per il futuro dell’umanità. Tutto ciò esprime una forma grave di irresponsabilità dell’occidente, che possiamo interpretare come un sintomo di grande debolezza delle élite europee e statunitensi e di decadenza culturale dei paesi che rappresentano.
L'autore Fabio Massimo Parenti è professore associato di studi internazionali e Ph.D. in Geopolitica e Geoeconomia