Stefano Fassina (LEU), Mes: "In sintesi, siamo in trappola"

"Siamo ad un tornante storico. Il primo compito delle classi dirigenti è guardare in faccia la realtà. La sofferenza economica e sociale dell’Italia non ci consente più le colpose favole sui “passi avanti” verso gli Stati Uniti d’Europa."

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Stefano Fassina (LEU), Mes: "In sintesi, siamo in trappola"


di Stefano Fassina - Huffington Post


Il pacchetto condiviso dall’Eurogruppo ieri sera per rispondere alle conseguenze del Covid-19 è, per l’Italia, una trappola: la trappola del Mes. Implica un lento soffocamento della nostra economia e dell’universo del lavoro legato alla domanda interna. Va bloccato dal Parlamento e dal presidente del Consiglio al vertice europeo dopo Pasqua.
 

Il senso politico delle misure di contorno, ricomprese nel testo lungamente negoziato, è coprire la trappola e distrarre l’opinione pubblica attraverso una campagna propagandistica insopportabile su trilioni di euro, inesistenti, e su una solidarietà fiscale, assente in quanto inibita dai Trattati Ue.


Entriamo nel merito del “Rapporto” inviato per la finalizzazione al Consiglio europeo di settimana prossima. Valutiamo prima i tre punti elaborati e definiti: 1. il “Sure”, il fondo “fino a” 100 miliardi di euro annunciato dalla Commissione europea per il sostegno al reddito di lavoratrici e lavoratori disoccupati; 2. il programma di garanzie alle imprese alimentato dalla Banca europea per gli investimenti (Bei); 3. l’adattamento del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Infine, analizziamo il work in progress per il “Recovery Fund”, la formula lessicale per richiamare surrettiziamente i famosi Eurobonds o a qualsivoglia denominazione di uno strumento comune di debito.


1. Il Sure è un grande bluff. Perché? Perché è ad adesione volontaria e viene avviato soltanto dopo che tutti gli Stati dell’Unione europea hanno aderito. È un prestito, quindi debito pubblico aggiuntivo, da ripagare. Per farlo decollare, ciascuno Stato dell’UE deve apportare garanzie irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili affinché la Commissione possa emettere sul mercato i titoli necessari a raccogliere le risorse da prestare agli Stati in difficoltà. L’astuta terminologia “fino a 100” miliardi copre la possibilità di arrivare a un ammontare di risorse disponibili decisamente inferiore, poiché dipendente dalle garanzie volontariamente messe a disposizione da ciascuno degli Stati UE e dai limiti annui di impegno contenuti nelle norme istitutive: per avere a disposizione 100 miliardi da distribuire, sono necessarie garanzie per 25 miliardi, ma il massimo utilizzo complessivo annuo, per tutti gli Stati richiedenti può essere soltanto il 10% delle risorse mobilizzabili dal Fondo. In sintesi, per la fase più acuta della recessione, potremo avere a disposizione, nello scenario ottimale ma altamente improbabile, qualche centinaio di milioni in prestito, sui quali risparmiare qualche milione di spesa per interessi, ma dopo aver impegnato 2 o 3 miliardi in garanzie ‘irrevocabili, liquide e immediatamente esigibili’. Un affarone.


2. Le garanzie messe a disposizione dalla Bei rientrano nella funzione ordinaria della banca dell’Ue, nata nel 1958 per svolgere la missione di sostegno, principalmente, al settore privato. Grazie al capitale già versato anche da noi, punta a generare per l’intera Ue, attraverso 25 miliardi di garanzie, crediti bancari per 200 miliardi. Da notare che, secondo il nostro governo, il “Decreto imprese” appena approvato, “produce” soltanto per l’Italia, 400 miliardi di crediti. Presentare il programma della Bei come una conquista strappata agli egoismi nordici è davvero irritante. Si sarebbe attivato anche senza l’accordo per ricorrere al Mes.


3. L’adattamento della “Linea di Credito a condizioni rafforzate” (Enhanced conditions credit line) del Mes per offrire il prestito “Pandemic crisis support” è la trappola. Il Mes senza condizioni non esiste in natura, almeno fino a quando: si riscrive radicalmente il testo di tale Trattato internazionale; si elimina il riferimento, contenuto all’art 136 del Trattato di Funzionamento dell’Ue, alle “strict conditionality” per i meccanismi di stabilità; si abroga larga parte del Regolamento europeo 472/2013 attuativo della normativa “Two Pack”. È vero, come viene strombazzato, che nel Rapporto dell’Eurogruppo si prevede “come unico requisito di accesso alla linea di credito… l’utilizzo delle risorse per finanziare i costi  direttamente o indirettamente relativi alla Sanità, alle cure e alla prevenzione dovuti al Covid-19”. Ma è scritto anche che: “Le norme del Trattato Mes devono essere seguite.” e “Dopo [la fine dell’emergenza Covid-19], lo Stato membro [coinvolto nel programma] rimane impegnato a rafforzare i suoi fondamentali economici e finanziari, in coerenza con il quadro di coordinamento e di sorveglianza economica e di finanza pubblica dell’Ue.” In chiaro, vuol dire che la Troika arriva appena termina la crisi sanitaria.


Infine, il Recovery Fund. Al punto 19 del Rapporto dell’Eurogruppo, viene indicato soltanto l’accordo raggiunto per ”lavorare a un fondo per preparare e sostenere la ripresa, da finanziare attraverso il bilancio europeo”. Negli obiettivi dell’Italia e degli altri 8 Governi dell’Eurozona firmatari della lettera del 25 Marzo scorso a Charles Michel, Presidente del Consiglio europeo, qui avremmo dovuto trovare, sufficientemente dettagliato, il piano per gli Eurobonds o Coronabonds scambiato con la resa politica al Mes per legittimare gli interventi della Bce.


È arrivata, invece, una formula senza impegni. Per avere idea dell’ordine di grandezza finanziaria in gioco per il prospettato Fondo, ricordiamo che il bilancio europeo vale circa l’1% del Pil dell’Unione e che l’approvazione della versione 2021-2026 è bloccata da oltre un anno a causa di conflitti asperrimi per qualche centesimo di punto percentuale. Ricordiamo anche che è una partita di giro, irrilevante in termini di impatto sull’economia reale della Ue, ma negativa per noi contributori netti.


In sintesi, siamo in trappola. Il nostro debito pubblico arriva su un sentiero insostenibile e il Mes con il connesso programma di aggiustamento macroeconomico e strutturale è il capestro politico per arrivare all’Outright Monetary Transaction, lo strumento predisposto dalla Bce nel 2012 per dare credibilità al “what ever it takes” di Mario Draghi. Il Governo dovrebbe parlare chiaro agli italiani: abbiamo dovuto piegarci perché non vediamo alternative migliori. Imbarazzante, invece, sentir ripetere che è “un ottimo compromesso” e che “noi il Mes non lo usiamo”, neanche nella presunta versione light. Se fosse davvero così, non si comprenderebbe perché abbiamo dedicato tutto il nostro scarso capitale politico a negoziarlo. Purtroppo, la realtà è diversa: cadiamo in trappola.


Il Parlamento deve pronunciarsi. Il presidente Conte, al Consiglio europeo del 16 aprile prossimo, deve bloccare il Rapporto condiviso dall’Eurogruppo e portare al centro del confronto politico l’unico intervento sensato e decisivo per rendere sostenibile un debito pubblico superiore al 150% del Pil, nel contesto strutturalmente deflattivo dell’eurozona: gli acquisti della Bce per finanziare i maggior deficit necessari a combattere il Covid-19, alimentare la ricostruzione “post-bellica” e, contestualmente, sterilizzare i Titoli di Stato acquistati da ciascuna banca centrale nazionale nell’ambito del Quantitative easing.


È la strada percorsa da tutte le banche centrali degli Stati democratici. La Bank of England è andata persino oltre con la monetizzazione diretta dei deficit di bilancio del Regno Unito. Certo, è anche essa una strada in salita e impervia, ma di minore resistenza politica per salvare l’Italia e l’eurozona.


È comunque impraticabile? Allora, si prenda atto che è necessario recuperare, attraverso un “divorzio amichevole” (proposto da tempo da Joseph Stiglitz), l’autonomia monetaria sciaguratamente ceduta. Almeno possiamo tentare di evitare l’avvitamento economico dell’Italia, fratture territoriali e sociali sempre più profonde e una torsione autoritaria della nostra democrazia. Si aprirebbe uno scenario doloroso e rischioso, ma vi sarebbe la speranza di sottrarsi ad una lenta agonia.


Come ho sottolineato più volte, l’obiettivo non è uscire dall’Ue per approdare a un regime autarchico, isolazionista e nazionalista, ma rideterminare le basi dell’Unione europea: dal sempre più pericoloso miraggio federale, ad una confederazione di democrazie nazionali. Siamo ad un tornante storico. Il primo compito delle classi dirigenti è guardare in faccia la realtà. La sofferenza economica e sociale dell’Italia non ci consente più le colpose favole sui “passi avanti” verso gli Stati Uniti d’Europa.

 

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