Il previsto vertice di Budapest e le lacrime del Corriere della Sera

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Il previsto vertice di Budapest e le lacrime del Corriere della Sera

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

Archiviato l'ennesima gita a Washington di Vladimir Zelenskij, sui cui esiti, sin dalla vigilia, si avevano pochi dubbi, è previsto tra due settimane il nuovo vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin. Pare che, anche su questo, ci siano pochi dubbi. Più incerto il luogo dell'incontro, che tutti danno per assodato sia Budapest. Il collaboratore presidenziale russo per la politica estera, Jurij Ušakov è però stato più vago, lasciando intendere che l'incontro si terrà sicuramente, ma che potrebbe non svolgersi a Budapest. A quanto pare, a Mosca la questione è ancora in fase di elaborazione. Secondo quanto riportato dalla TASS, Ušakov avrebbe detto ai giornalisti che, nel lungo colloquio telefonico di tre giorni fa, «i presidenti hanno discusso la possibilità di un altro incontro. È stato concordato che i rappresentanti dei due paesi inizieranno immediatamente a preparare il vertice, che potrebbe tenersi, ad esempio, a Budapest».

Da parte ungherese non si sono risparmiate parole entusiastiche. L'Ungheria è pronta a ospitare l'incontro tra i presidenti Vladimir Putin e Donald Trump, ha annunciato immediatamente su X il Primo ministro ungherese Viktor Orban; «L'incontro previsto tra i presidenti statunitense e russo è un'ottima notizia per i popoli amanti della pace in tutto il mondo. Siamo pronti!», ha scritto il leader ungherese. Gli ha fatto eco il suo Ministro degli esteri Péter Szijjarto: «È una notizia fantastica che Donald Trump e Vladimir Putin si siano parlati di nuovo, e una notizia ancora più fantastica che si incontreranno presto a Budapest».

Ammesso dunque che la scelta definitiva ricada sulla capitale ungherese, ovviamente questa “non è l'ideale” per un vertice USA-Russia sull'Ucraina: non costituisce un “terreno neutrale”, assicurano gli allucinati filobanderisti di Repubblica; tanto più che è proprio per le posizioni di Viktor Orban, dicono, che l'Europa ha mostrato il “proprio immobilismo”. Già, un vero peccato, lazzaroni di Repubblica, che si sia dovuto tener conto anche delle posizioni di chi non manifesta brame guerrafondaie come le vostre e quelle dei capintesta del pazzesco riarmo europeo, di cui voi vi fate portavoce. Come può essere “neutrale”, nelle vostre infernali farneticazioni, un Primo ministro che parla di «popoli amanti della pace». Vade retro.

Inoltre, giura il signor Paolo Valentino sul Corriere della Sera del 18 ottobre, la scelta di Budapest rappresenta un «duplice schiaffo» e «una simbolica ferita all’Ucraina». Come mai? Ovvio, affermano a via Solferino: «Fu proprio nella città danubiana, nel 1994, che fu firmato il Memorandum di Budapest, con cui Kiev, tornata tre anni prima indipendente, rinunciò alle sue bombe atomiche (1.900 testate, un terzo dell’intero arsenale nucleare sovietico) in cambio delle garanzie di sovranità russe. Il leader del Cremlino, che ha tradito quella promessa solenne lanciando l’invasione del 2022, torna ora sul luogo dello spergiuro».

Vediamo di affrontare la questione in senso meno lacrimevole per “i poveri ucraini” che, ci raccontano, erano «tornati» indipendenti. Indipendenti da chi, da cosa e perché “tornati”? Dal punto di vista dei nazionalisti e degli eredi dei banderisti filonazisti, la cosiddetta “indipendenza” dall'URSS (ma, nel 1991, alla spicciolata tutte le ex Repubbliche sovietiche si proclamavano “indipendenti”, nella corsa verso la restaurazione capitalista) significava un ritorno agli “ideali”, ad esempio, di quel Dmitro Dontsov che ancora nel periodo a cavallo tra XIX e XX secolo, invocava l’eliminazione fisica dei russi, quale elemento imprescindibile della “ucrainicità”, contro una cosiddetta “russificazione forzata” cui gli ucraini, si diceva, sarebbero stati sottoposti per secoli dagli odiati “moskaly”. Era questo, il “ritorno” alla “indipendenza”, per i banderisti e, a quanto pare, anche per il signor Valentino.

Ma questa è solo una parte e non la principale, della faccenda. L'interpretazione più dozzinale, riprodotta in questo caso anche dal Corriere, è che il Memorandum avrebbe fornito all'Ucraina garanzie di sicurezza giuridica in cambio del disarmo nucleare e dell'adesione al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Da parte di Kiev, da un lato e di USA e Gran Bretagna (cosiddetti garanti), arrivano solitamente accuse alla Russia, secondo cui nel 2014 Mosca avrebbe violato gli impegni sanciti dal Memorandum, sostenendo l'autodeterminazione della Crimea. Ma il Memorandum non è un trattato internazionale giuridicamente vincolante; non prevede alcuna garanzia di sicurezza per l'Ucraina, nemmeno nella versione inglese, che parla di “assurances” (assicurazioni di sostegno) e non di “guarantees”. Ma, soprattutto, per quanto riguarda l'integrità territoriale del paese in relazione al cambiamento di status della Crimea nel 2014, il Memorandum si limitava a ribadire le assicurazioni dei firmatari, di non utilizzare armi nucleari contro Stati non nucleari. Per il resto, il documento replica le disposizioni dell'Atto finale di Helsinki dell'OSCE e, negli strumenti giuridici dell'OSCE, non si trovano disposizioni che sanciscano cambiamenti di potere incostituzionali, attacchi alle minoranze nazionali o oppressione linguistica, come invece verificatosi in Ucraina a partire dal febbraio 2014. Dunque, con il golpe bandero-nazista del gennaio-febbraio 2014, Kiev, Washington e Londra furono le prime a violare quelle assicurazioni, proprio nel 2014.

Dal momento che il Memorandum non è un trattato internazionale tra Stati, gli obblighi politici che ne derivano erano vincolanti solo per il governo ucraino dell'epoca. Con il golpe di majdan, quale cambio di potere incostituzionale, è andato al potere un nuovo governo, col che si sono anche violati i principi base del diritto internazionale. In sintesi, organizzando il golpe del 2014, sono stati proprio i paesi che hanno sostenuto e sostengono quanto scaturito da majdan, a demolire il Memorandum di Budapest.

E, però, ora, il previsto summit nella capitale magiara è anche «uno schiaffo in faccia all’Europa, che in questi anni ha sostenuto la battaglia esistenziale del popolo ucraino»: versiamo una lacrima su quella «battaglia esistenziale», ricordando però qualche numero che solitamente i media europeisti preferiscono tacere; le vittime della guerra non sono solamente quelle enfatizzate a fini propagandistici dai fogli di regime: solo dal 1 luglio al 30 settembre 2025, sono rimasti vittime degli attacchi ucraini poco meno di 1.800 cvili russi abitanti nelle regioni di confine. Di essi, 1.532 persone, anche minori, hanno riportato ferite di varia gravità, mentre 217, tra cui 6 minori, sono rimasti uccisi.

Ma, nella scelta di Budapest, quel è “peggio” nella visione del Corriere, è che un «paese autoritario e isolato nel concerto d’Europa viene riportato al centro della scena da Trump... Offrendo a Orban il palco di un summit di pace, egli ne premia la fedeltà e soprattutto tradisce l’intenzione di usare i sovranisti come grimaldello per squassare il progetto comune».

Un “progetto”, vien da dire, che, parlando di quasi 7.000 miliardi di euro di armi da qui al 2035, indica di per sé le mire guerrafondaie delle cancellerie europee le quali, stando alle premesse del signor Valentino su un «paese autoritario», dovrebbero rappresentare la “democrazia pura” di fronte a cui genuflettersi estasiati. La democrazia delle armi!

Comunque, da Mosca ci sono voci che invitano a non correre nel dare come annullate le consegne di Tomahawk a Kiev, prima e in ragione dell'incontro di Budapest: «in primo luogo, abbiamo a che fare con “partner” ingannevoli e cinici, per i quali i negoziati sono uno strumento di guerra. In secondo luogo, Trump è instabile e incoerente, o almeno vuole apparire tale. Nell'ultimo anno, abbiamo imparato il valore della sua parola», dice il politologo Aleksej Jarošenko.

Secondo il politologo e conduttore televisivo Aleksej Pil'ko, non è escluso che Trump voglia l'incontro di Budapest per cercare ancora una volta di spezzare la posizione della Russia sui territori e di ottenere un congelamento della linea del fronte. Anche lui ritiene prematuro ipotizzare che la questione dei Tomahawk sia stata completamente abbandonata. Si assiste, afferma il politologo, a una specie di “pendolo” diplomatico tra una nuova escalation e una “soluzione di compromesso”; ed è tutt'altro che certo che a novembre non «assisteremo alla consegna dei famigerati Tomahawk all'Ucraina e a un irrigidimento delle posizioni delle due parti». Pil'ko ritiene anche che Budapest sia stata scelta per tentare di trasformare l'incontro da bilaterale in trilaterale: «l'Ucraina è vicina e Trump potrebbe sperare di convincere Putin a un incontro a tre con Zelenskij. L'unica domanda è: la parte russa accetterà?».

In ogni caso, non resta che aspettare.

 

 

https://politnavigator.news/genialno-ili-riskovanno-reakciya-ehkspertov-na-vstrechu-v-budapeshte-putina-i-trampa.html

 

 

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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