La Costituzione non c'è più. Prossimo passo: il sindaco d'Italia?

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La Costituzione non c'è più. Prossimo passo: il sindaco d'Italia?


di Giorgio Cremaschi


La netta vittoria del SI al referendum sul taglio dei parlamentari sanziona la fine della Costituzione del 1948, quella nata dalla Resistenza e votata dall’Assemblea Costituente.

In realtà quella Costituzione è stata davvero in vigore per un breve periodo, poco più che un decennio, nella storia della Repubblica. Partecipazione democratica, diritti sociali e del lavoro, controllo pubblico sull’economia, eguaglianza e libertà, questi sono i principi di un testo costituzionale che, come scrisse nel 2013 la Banca Morgan, “è fortemente segnato da contenuti socialisti, perché frutto del ruolo determinante delle sinistre, comunisti compresi, nella sconfitta del fascismo”.

Per tutti gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso la Costituzione era rimasta inapplicata, nelle istituzioni come nella società. Il mondo del lavoro lottava affinché la Costituzione entrasse nelle fabbriche, scacciandone il fascismo padronale, ma essa vi era giunta solo nel 1970 con lo Statuto dei Lavoratori, conquistato dalle grandi lotte operaie dell’anno precedente.

Il 1970 fu anche l’anno di istituzione delle Regioni. I sostenitori del SI in malafede hanno poi affermato che per questo oggi bisogna ridurre il numero dei parlamentari, perché ci sono le Regioni. In realtà i padri costituenti avevano progettato un sistema democratico complesso, in cui stavano assieme un Parlamento ampio e rappresentativo del paese, le Regioni le Province i Comuni, le grandi organizzazioni sociali e civili, uno stato democratico aperto in ogni sua istituzione e funzione.

Per un lungo periodo solo il Parlamento fu in sintonia con la Costituzione del 1948, poi essa cominciò ad essere applicata nella società e nelle istituzioni. Ma negli anni 80, con la svolta liberista e reazionaria mondiale, le nostre conquiste costituzionali cominciarono ad essere messe in discussione, in alto ed in basso. In alto con l’accentramento autoritario del potere nel governo a danno del Parlamento e di ogni partecipazione democratica. E in basso, con lo smantellamento progressivo delle conquiste sociali del lavoro e dei più poveri. Ci sono voluti quarant’anni, ma ora quelle conquiste non ci sono più e la nostra società è tornata più indietro dei decenni nei quali si lottava per applicare la Costituzione. Che poi è stata intaccata anche formalmente, con la riforma del? 2001 che spacchettava lo stato sociale in venti sistemi regionali; e con quella del 2012 che imponeva il pareggio di bilancio e le politiche di austerità europee.

Il Parlamento aveva ancora i numeri con cui era stato concepito nella Costituzione, ma non la rappresentatività e le funzioni. Le leggi elettorali truffaldine maggioritarie avevano solo lo scopo di assegnare la maggioranza alla migliore minoranza, nel nome della governabilità. Con il venti per cento degli elettori si conquistava il potere di governare per tutti. E i parlamentari erano nominati dai capi partito e ne diventavano galoppini.

Il taglio dei parlamentari ha così spazzato via l’ultimo, più importante, pilastro di una Costituzione già compromessa dal Jobsact, dalle privatizzazioni, dal trasformismo politico e dall’autoritarismo istituzionale. Ora il Parlamento della Repubblica è stato adeguato al degrado della Repubblica.

E ovviamente non finirà qui, perché subito dopo avremo lo sfascio dell’autonomia differenziata e conseguentemente il presidenzialismo. Perché ci spiegheranno che il Parlamento è piccolo e debole e le Regioni troppo forti, pertanto bisognerà eleggere un capo, magari chiamandolo il sindaco d’Italia.

Non solo senza il Parlamento della Costituzione la vecchia Costituzione non c’è più, ma sulle sue macerie si sta già edificando quella nuova, che fa venire i brividi, soprattutto perché somiglia sempre di più a quella delineata da Licio Gelli.

Noi che ci siamo battuti per difendere la Costituzione nata dalla Resistenza, ora siamo fuori dal nuovo sistema che si sta imponendo, quello che ha sostituito con impresa la parola lavoro dell’articolo 1.

Ne prendiamo atto, ma non per questo ci arrenderemo. 

 

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