La grande contraddizione del libro “Noi però gli abbiamo fatto le strade”
La recensione a cura dello studioso eritreo Daniel Wedi Korbaria
di Daniel Wedi Korbaria*
Asmara. Oggi quando si parla di Africa e dei problemi che attanagliano il Continente molti intellettuali italiani, così come, oltre un secolo fa, i loro predecessori che pretendevano di “civilizzare quelle popolazioni”, si ergono su un piedistallo paternalistico, giudicando e sentenziando l’operato africano, per dimostrare ancora una volta che loro sono più progrediti, più colti, più buoni e più misericordiosi. E ciò esula da un discorso ideologico, sia quelli di sinistra che quelli di destra si comportano tutti allo stesso modo, ossia si sentono decisamente superiori agli africani. Questo neocolonialismo intellettuale è oramai un dato di fatto.
Francesco Filippi, autore del libro Noi però gli abbiamo fatto le strade[1], un titolo apparentemente ironico, scrive: “Ancora oggi sui mezzi di informazione, al di là di singoli episodi, si tende a parlare in maniera molto generica di notizie, problemi e migranti provenienti dall'“Africa”, accorpando in un'unica parola un continente di 30 milioni di km quadrati, che conta oggi un miliardo e duecento milioni di abitanti e 54 stati indipendenti.”
Concordo con la sua definizione “in maniera molto generica”, ma poi penso, sì, ma da quale pulpito?!
In un testo storico sul Colonialismo italiano, che dovrebbe trattare degli “indigeni” vittime del colonialismo, quali eritrei, somali, libici ed etiopi che siano, lui getta con molta nonchalance una frase sull’attualità fuori contesto, impercettibile ed innocua per un lettore distratto ma che non poteva certo sfuggire ad un eritreo come il sottoscritto. Ciò mi ha fatto dubitare che l’Opera fosse una specie di cavallo di Troia e la frase incriminata una marchetta da pagare per farsi pubblicare, perché oramai da diversi lustri si sa che demonizzare l’Eritrea ed il suo legittimo Governo è molto redditizio, e comunque fa parte della propaganda occidentale. Noi eritrei ci siamo quasi abituati, e sottolineo il “quasi”, perché poi quando disgraziatamente ci ritroviamo a leggere certe provocazioni scagliate come pietre, che feriscono la nostra sensibilità e dignità di esseri umani, finiamo per reagire legittimamente.
E ora veniamo al dunque.
A pagina 125 lo “storico della mentalità” scrive: “Si deve notare però che attualmente (2021) delle tre maggiori entità coloniali costruite dagli italiani ben due, Somalia e Libia, vedono il proprio tessuto territoriale fratturato secondo le antiche suddivisioni – Tripolitania contro Cirenaica e Somaliland contro Somalia – e si trovano in uno stato di guerra civile semipermanente. L’Eritrea è invece vittima di una dittatura feroce.”
Per quanto riguarda l’Eritrea, seguendo proprio il suo filo logico associato ad un pizzico di onestà intellettuale, avrebbe potuto azzardare che almeno nella ex Colonia primigenia non ci sono clan o tribù in guerra fra loro, le sue nove etnie convivono pacificamente in una Nazione edificata su valori di unità e coesione il cui motto recita “nove etnie un solo popolo”. Oppure avrebbe potuto dire che, nonostante la popolazione sia composta al 50% da cristiani e musulmani, il Paese non soffre di alcun problema religioso, tutti i credenti vivono in armonia tutelati da uno Stato laico che non tollera estremismi o integralismi. E tutto ciò grazie alla lungimirante scelta politica proprio di quella “dittatura feroce”, mentre vediamo la vicinissima e “democraticissima” Etiopia, che ha scelto invece una federazione su base etnica, vivere oggi una situazione conflittuale tra le sue etnie più importanti, col rischio di una totale disgregazione nazionale.
Capisco che, se nel mondo occidentale la democrazia si misura con le elezioni ogni 4 anni, sempre che il voto popolare non venga poi cancellato da un bel colpo di stato, nella “dittatura feroce” fatti contingenti hanno impedito sin dalla sua Liberazione (con la guerra del 1998-2000 e del 2022-2024) di votare per le elezioni politiche anche se, nonostante lo stato di emergenza, lo stesso si vota ogni 2 anni alle amministrative in tutto il Paese. Quando l’Eritrea sarà un paese normale e non perennemente minacciato di invasione, come sta succedendo anche oggi, avrà tutto il tempo per “democratizzarsi”. Per ora io mi accontento della mia “dittatura feroce” anche perché ho esperienza diretta di un Paese così tanto democratico dove si vota ogni anno e mezzo. Nei miei trent’anni di soggiorno in Italia, infatti, ho visto l’alternanza di una ventina di governi e da immigrato ho vissuto sulla mia pelle tutte le angherie possibili e immaginabili dove sono stati violati i miei diritti personali, sociali e lavorativi. Un Paese che non tollera che io critichi con cognizione di causa le sue politiche sull’immigrazione e l’accoglienza, un Paese dove sono stato boicottato dai suoi Ministeri[2], bandito dai suoi mass media, minacciato dalle sue Ong, censurato persino da quel sindacato[3] che si batte per i diritti di noi immigrati, ma solo quando restiamo muti.
Ma perché Filippi ha scelto proprio l’aggettivo “feroce” per definire il mio Paese? È forse mai stato in Eritrea per constatarlo de visu? Ha visto in giro fucilazioni o donne abusate agli angoli delle strade o sgozzate e trasportate dentro valigie e poi buttate in una scarpata? Ha saputo di bambini rapiti come prede per pedofili? Ha riscontrato l’esistenza di organizzazioni criminali, tipo la mafia o la camorra, che gestiscono gli affari dello Stato? Ha visto poliziotti che massacrano e sparano ai loro cittadini, magari scegliendo quelli più scuri di carnagione? Ha visto giri di mazzette o di tangenti tra chi comanda il Paese o magari sa di loro conti correnti nei paradisi fiscali? Certo che no. Allora perché lo ha scritto? Immagino sarà incappato in qualche report di Amnesty International o HRW, due organizzazioni strumenti dell’imperialismo occidentale che distribuiscono i dritti umani come i missionari del passato distribuivano le parole del Vangelo, e che oltretutto sono state protagoniste di un tentato colpo di Stato in Eritrea[4].
Oppure avrà letto online o sui giornali mainstream italiani notizie sulla “dittatura feroce”, perché negli ultimi 2 decenni si è scritto e si è detto di tutto sull’Eritrea: “la Corea del Nord africana”, “una prigione a cielo aperto”, “un inferno sulla terra” e chi più ne ha più ne metta. Giornali di destra, di sinistra e del Vaticano hanno sfornato centinaia di questi titoloni quasi quotidianamente. Perché dunque l’Autore, dopo avere così bene esposto gli stereotipi e i pregiudizi della propaganda coloniale di certi giornali italiani, oggi crede totalmente alla loro narrativa? Eppure il loro modus operandi, sebbene oggi vivano in una democrazia, è sempre lo stesso, divisi per tifoserie ideologiche, cianciano menzogne e ripetono la Storia urlando ancora contro i leader africani disobbedienti ai diktat di Washington, così come fecero contro il Negus durante una sessione alla Società delle Nazioni. Odiano proprio quei leader che fanno gli interessi del proprio popolo e glorificano invece quelle marionette corrotte che vendono le proprie Nazioni.
La contraddizione dell’Autore sta proprio nel voler smontare gli stereotipi usati contro i colonizzati del secolo scorso e finire per accettarne altri sugli “eritrei” di oggi, senza però presentare nessuna evidenza, cosa inaccettabile per uno studioso serio che si reputi tale. L’Istituto Luce è ancora fra noi, ha solo cambiato nome e colore, oggi suona più democratico e umanitario ma è pur sempre neocolonialista.
A pagina 102 l’Autore spiega il sottotesto del film Finché c'è guerra c'è speranza, scrivendo: “Senza porre troppo l'accento sul perché determinati fenomeni politici sfocino in violenza, l’immaginario collettivo italiano disegna un quadro desolante di africani che non riescono a costruire strutture statali stabili e sono in uno stato di perenne guerra civile. Il sottotesto, nemmeno troppo velato, è che gli abitanti del continente non abbiano le capacità di costruire dei regimi democratici o minimamente efficienti. L'immagine del passato coloniale ne esce rafforzata, perché dimostra, ex post, che i colonizzati avevano "bisogno" dell'uomo bianco.”
Questa lettura sulla decolonizzazione è ovviamente falsata, e per citare il titolo di un suo capitolo direi che anche lui usa “lo stereotipo per rafforzare il pregiudizio”.
In questi anni difficili, l’Eritrea ha dimostrato invece tutto il contrario, non solo non ha “bisogno dell’uomo bianco” per costruire le sue strutture statali stabili senza indebitarsi con gli usurai della Banca Mondiale o del Fondo Monetario, ma non chiede elemosina nemmeno all’Italia. Sopravvive da anni senza gli aiuti occidentali e senza le loro Ong umanitarie. E, udite udite, la “dittatura feroce” è l’unico Paese africano che ha cacciato via persino USAID, dimostrando ancora una volta che non si inchina nemmeno davanti ai padroni del mondo che, in cambio di un chilo di farina, la vorrebbero trasformare in una loro base militare, come hanno fatto con il vicino Gibuti o con l’Italia stessa dove un centinaio di basi ospitano armi nucleari e decine di migliaia di truppe.
A questo punto ci sarebbe da chiedersi con il cuore in mano: Chi è una Colonia oggi, l’Italia o l’Eritrea?
“Sui giornali e nei cinegiornali si sottolineano al contempo la mancanza di un sistema di valori moderno - grande spazio viene dato a forme di servaggio che vengono sistematicamente definite "schiavitù" - e la corruzione.”
Anche se in questo passaggio l’Autore si riferiva all’Etiopia del Negus, l’equazione è oggi ancora valida con qualsiasi Paese africano. Per esempio quando l’Occidente venne a sapere che l’Eritrea per raggiungere la sicurezza alimentare, uno degli Obiettivi del Millennio stabiliti dalle Nazioni Unite, stava costruendo centinaia di dighe con le proprie risorse - e non con i soldi italiani, né europei o americani - tutte le Ong cacciate via dal Paese, assieme ai mainstream media occidentali, l’accusarono di utilizzare i “lavori forzati”, sinonimo di “schiavitù”, di studenti, militari, donne, uomini e persino anziani. Una cosa è certa, in quasi 60 anni gli italiani hanno lasciato una diga di 1,21 milioni di metri cubi mentre la “dittatura feroce”, in appena 30 anni ha costruito quasi 950 – tra micro e macro dighe – che raccoglieranno dai 2 ai 3 miliardi di mc di acqua potabile.
“L'Etiopia e l'Eritrea costituiscono una federazione, sul modello imposto dal viceregno italiano, fino a quando le spinte accentratrici di Addis Abeba non tolgono l'autonomia ad Asmara, scatenando una guerra civile pluridecennale.”
Doppiamente falso. L’Eritrea, senza volerlo, faceva parte di coloro che hanno perso quella guerra mentre l’Etiopia, essendo alleata degli anglo-americani, faceva parte di quelle nazioni che la guerra la vinsero. Perciò fu federata per volere unilaterale degli angloamericani, un’azione che nel 1961 porterà alla lotta armata per la Liberazione che durerà trent’anni.
E ovviamente non si trattava nemmeno di una “guerra civile”, Eritrea ed Etiopia non sono mai state unite prima di allora. E nel 1981, mentre l’Autore del libro succhiava ancora il latte materno, nella Colonia primigenia da vent’anni si combatteva una devastante guerra in cui gli USA (prima) e l’Unione Sovietica (dopo) con l’aiuto di Israele, Cuba, Germania dell’Est, Yemen, Libia e Italia, aiutavano l’Etiopia militarmente e finanziariamente. I figli di quegli ascari che servirono fedelmente la bandiera italiana e che per essa morirono in Libia, Somalia ed Etiopia e che sicuramente si rivoltarono nelle tombe per questo osceno, anzi direi “feroce” tradimento, a migliaia compirono l’estremo sacrificio per l’Indipendenza del loro Paese. Quella trentennale guerra costò oltre 100.000 vittime eritree.
Perché dunque l’Autore non si felicita del fatto che almeno una delle tre ex Colonie italiane non sia diventata una Nazione fallita? Tra l’altro la Somalia prima e la Libia dopo sono state fatte fallire dagli occidentali anche con la complicità italiana. Perché non vuole dare atto agli “indigeni di oggi” di essere finalmente diventati eritrei? Un traguardo che hanno raggiunto senza l’aiuto di nessuno ma con molto sacrificio, dignità e orgoglio e continuano a resistere alle ostilità difendendo il proprio Paese da ogni genere di aggressione.
Nel libro viene citata la filastrocca del 1936 di Ferdinando Crivelli intitolata C’era una volta il Negus, purtroppo ancora così attuale poiché, l’ultimo erede del Negus, dietro suggerimento di Washington, sta nuovamente battendo il tamburo del Chitet[5] al grido: “Noi vogliamo uno sbocco sul mare, per poterci ogni tanto lavare…”, l’accesso a quel mare che appartiene legittimamente all’Eritrea ma che l’Etiopia pretende a tutti i costi forte dei suoi 120 milioni di abitanti contro i cinque milioni eritrei.
A questo punto ce lo dica l’Autore: cosa deve fare la “dittatura feroce”, ingoiare il rospo e lasciare che si prendano il mare e dedicarsi finalmente alle sue elezioni per annoverarsi tra i Paesi “democratici?
Una cosa è certa, con la sua uscita infelice Filippi si è annoverato, per dirla proprio con un sottotitolo del suo primo libro, tra i contributori de: “le idiozie che continuano a circolare sul…” l’Eritrea.
*Daniel Wedi Korbaria, scrittore eritreo e panafricanista, è nato ad Asmara nel 1970 e vive e lavora in Italia dal 1995. Con i suoi libri, articoli e saggi pubblicati online e tradotti in inglese, francese, tedesco e norvegese si è battuto per offrire una voce alternativa ai racconti dei media mainstream italiani ed europei sull'immigrazione e il neo colonialismo. Nel 2019 ha pubblicato il suo primo romanzo "Mother Eritrea" e nel 2022 il saggio d'inchiesta "Inferno Immigrazione". Di prossima pubblicazione (2026) il suo romanzo sul colonialismo italiano in Eritrea.
[1] Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie - Bollati Boringhieri 2021
[2] Da immigrato j'accuse il Ministro dell'Interno https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-da_immigrato_jaccuse_il_ministro_dellinterno/39602_57819/
[3] L’immigrato più censurato d’Italia https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-limmigrato_pi_censurato_ditalia/39602_54047/
[4] 2011 – LA PRIMAVERA ARABA DI AMNESTY INTERNATIONAL & HUMAN RIGHT WATCH
https://www.facebook.com/daniel.wedikorbaria/posts/1211129852235859
[5] Chitet, mobilitazione