Valerij Gergiev alla prova delle volontà di guerra del capitale euroatlantico
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
A dirla tutta, si sorvolerebbe volentieri su questioni pirotecniche come la polemica in corso da settimane sulla discesa dei barbari in Italia e sugli appelli accorati a ergersi a coorte contro lo straniero invasore. Ed è anzi probabile che lo stesso diretto interessato, a questo punto, possa essere incline a – non ricorriamo a francesismi – lasciar perdere tutto, disfare le valige e starsene a casa a guardare divertito le smorfie compiaciute di prefiche e omuncoli miseroeuropeisti che, in tal caso, si vanterebbero di aver arginato le mire ibrido-belliche dell'autocrate conquistatore, pronto a far bere l'innocente «sangue d'Italia» al suo dissimulato messaggero «Cosacco» - in questo caso, osseto. E dunque «stringiamoci a coorte»: facciano muro, i sanfedisti genuflessi al banderismo neonazista di Kiev, che su La Stampa inorridiscono a cosiddette «scelte colonialiste e brutali della Russia»; balbettino quei fantomatici “russi liberi in Italia», atterriti da uno che sfrutta «nome e prestigio per legittimare l'aggressione e la dittatura»; si elevino le alture di una “politica” che, da conventicole sindacal-padronali, urla alla «ferita inaccettabile per la regione Campania e per l'Italia»; svettino “premi Nobel ad Memorial” (ci si perdoni il bisticcio linguistico per una chiesuola sacra a Bruxelles) mischiati a picchi d'alcol di inconsolabili vedove di “martiri della fede” liberale.
Ma sì, è chiaro: si sta parlando della levata di scudi euroliberale per la prevista presenza di Valerij Gergiev alla reggia di Caserta. E se ci è consentito utilizzare il Corriere della Sera per riferire le parole di qualcuno che, qualche volta, centra il bersaglio, ecco che «Il governo nazionale è rimasto turbato dal concerto dopo che ha accompagnato in Libia un criminale di guerra con un aereo di Stato. La prossima volta dirò al direttore artistico di farsi dare l’autorizzazione da Almasri» (De Luca).
Si sorvolerebbe volentieri, si diceva, su tutti i piagnistei anti-autocratici, sulle lacrime dei “Memoriali”, rosi dal panico per la possibile calata in Italia di uno «dei massimi protagonisti della musica del nostro tempo» che, ahinoi, risulta purtroppo «legato allo zar dagli anni '90», tanto per citare il foglio nero di via Solferino. Se ne farebbe volentieri a meno; e non tanto perché non si debbano «confondere politica e arte», secondo le parole dello stesso Vincenzo De Luca; no, non per quello. Allevati alla vecchia scuola, ci atteniamo al concetto secondo cui «Nel mondo contemporaneo tutta la cultura, tutta la letteratura e l’arte appartengono a determinate classi e si rifanno a determinate linee politiche. L'arte per l’arte, l’arte al di sopra delle classi, l’arte al di fuori della politica o indipendente da essa, nella realtà non esiste… Tutta la nostra letteratura e la nostra arte sono al servizio delle masse popolari e in primo luogo degli operai, dei contadini e dei soldati» (Mao). Non entriamo qui nell'esame su quale classe serva l'arte del maestro Gergiev. Probabilmente, non la classe operaia. Qui non si tratta di questo.
Il “caso Gergiev”, che questa volta riguarda direttamente l'Italia, rientra nel quadro di quella che ormai solo i farabutti della politica euro-reazionaria e della “informazione” di regime negano essere propaganda di guerra, preparazione psicologica delle masse alla guerra. I fogliacci padronali di regime ne sono pieni ogni giorno. Il “caso Gergiev” arriva giusto a puntino per alimentare quella propaganda e serve da ouverture per le sinfonie dei tromboni euro-bellicisti.
Prendiamo, per l'appunto, La Stampa del 19 luglio, con un intervento dell'ex direttore di The Economist, Bill Emmot e un'intervista all'ex presidente francese Francois Hollande.
Tanto per non urtare gli accordi del coro, l'ex “dittatore” dell'Eliseo (proviamo, per una volta, a usare i termini di cui si serve la stampa “anti-autocratica” per definire il presidente russo Vladimir Putin), chiede più armi a Kiev e sanzioni per strangolare la Russia e pontifica che il destino dell'Europa «dipende da chi vincerà la guerra in Ucraina». Dunque, alla domanda “innocente” se “il presidente russo capisce solo i rapporti di forza», Hollande certifica che, se si vuole che «il dialogo riparta, Putin deve aver perso o deve quantomeno essere consapevole del fatto che, continuando la sua operazione, avrebbe ancora molto più da perdere».
E, da questo punto di vista, di fronte agli “ondeggiamenti” di Donald Trump, “le roi” è sicuro che «Putin ha capito che, nel quadro della Nato, l’Europa sarà d’ora in poi molto più minacciosa per gli interessi russi». Ma, per l'intervistatore è ancora poco e allora incalza più diretto. «Putin può perdere la guerra?», al che “l'autocrate dell'Eliseo” ammette: «Potrebbe perderla, sì. Abbiamo spesso sottovalutato l’impatto delle sanzioni pensando che Putin potesse aggirarle con la Cina e l’Iran, cosa che ha effettivamente fatto. Oggi però sappiamo che l’economia russa va deteriorandosi» e che c'è «malessere nel paese» (fonte BBC: indubitabile per assunto!) per le perdite al fronte. Dunque, proclama il “sovrano”, si deve «alzare ulteriormente il livello delle sanzioni e fornire ancora più assistenza bellica all’Ucraina». Più che un'intervista, quella della signora Francesca Paci sembra un quiz a risposte chiuse: «La Russia rappresenta una vera minaccia militare per le democrazie europee?», al che ci si aspetta che l'allievo risponda ««Direi di sì, nel senso che Mosca usa tutti i mezzi a sua disposizione – tecnologia, social media e influencer – per sconvolgere la vita politica dei Paesi europei. La Russia continua ad avere relazioni privilegiate con l’Iran, un’alleanza con la Cina e rapporti con autocrazie come la Corea del Nord, che le fornisce persino soldati: è quindi una minaccia perché è alleata di tutte le dittature del mondo e agisce continuamente per indebolire le democrazie. Lo è anche sul piano militare? Al momento non credo, ma tutto dipende da come finirà la guerra in Ucraina. Se dovesse vincere, Putin sarebbe tentato di andare a cercare altri successi». Proprio come va ammonendo da tempo Merlino-Kubilius, con la differenza che Merlino lo dà per scontato «indipendentemente da come finirà il conflitto in Ucraina»: questione di nuance.
Vade retro satana, avrebbe dovuto completare a questo punto la sondaggista: una Russia «alleata di tutte le dittature del mondo» e il cui unico motivo di esistenza è quello di agire «continuamente per indebolire le democrazie». Ca va sans dire, che né intervistatrice né intervistato si preoccupano di illustrare al lettore quali siano le loro concezioni di “democrazia” e “dittatura”. Pazienza, non è difficile da immaginare: lasciando nel vuoto ogni specificazione di classe, l'immagine liberal-borghese di quelle categorie storiche non può che essere quella volgare di “democrazia” quale cornice istituzionale dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, dell'estorsione del plusvalore dal lavoro salariato, per i profitti del capitale. Punto.
Ma la parte più inverosimile del “test” è quella del «Perché sono naufragati gli accordi di Minsk, che lei negoziò insieme alla cancelliera Angela Merkel nel 2015, dopo l’invasione russa del Donbass». Tralasciamo la risposta del “dittatore francese” e ricordiamo solo di come, nemmeno tanto tempo fa, sia la signora Merkel, che il signor Hollande, avessero candidamente ammesso di come loro unico obiettivo a Minsk, nel febbraio 2015, fosse stato quello di consentire a Kiev, messa a terra dalle sonore batoste di Debaltsevo e Ilovajsk, riprendersi e rimettere in sesto esercito e armamenti. Nient'altro. Minsk naufragò immediatamente, egregi signori Paci-Hollande, perché nessuna delle condizioni previste dagli accordi – a partire dallo status speciale per il Donbass, all'arretramento delle armi pesanti dalla linea del fronte, ecc. - venne rispettata da Kiev, con l'aperto consenso di UE-USA-NATO.
Sulla scia del “dittatore” gallico, l'ex direttore di The Economist, Bill Emmot, esorta l'Europa a «ritrovare il coraggio» nei rapporti con la Russia, anche perché «Tutto quello che dice il presidente Donald Trump è inattendibile», mentre le uniche voci da ascoltare «sono gli ucraini stessi e i loro nemici, i russi» e, per continuare la guerra (perché è di questo che si tratta, al di là dei proclami di “pace”: l'Ucraina deve continuare a mandare i propri uomini al macello ancora qualche anno, finché l'Europa non sarà pronta per attaccare in prima persona) «le uniche armi che contano davvero sono quelle che arrivano effettivamente nelle mani dei tuoi soldati» e non quelle promesse da Washington, Londra, Berlino, Parigi.
E i “50 giorni” concessi da Trump a Mosca prima di nuove sanzioni potrebbero addirittura fungere per Putin da «incentivo per cercare di ottenere quanto più possibile sul campo di battaglia da adesso a metà settembre... proprio la situazione ideale in cui Putin poteva riporre le sue speranze». Dunque, che l'Europa si sbrighi a rifornire ben bene Kiev, inviando «immediatamente armi e sistemi missilistici difensivi» (ha detto proprio così: “difensivi”; tanto “difensivi” da poter colpire Mosca e Piter), altrimenti l'esercito ucraino «rimarrà in una posizione di svantaggio, benché sia senza dubbio valoroso e all’avanguardia».
Sul piano operativo, sprona il britanno, gli europei devono sbrigarsi: la decisione di Trump «di ripristinare la consegna di armi si basa sul presupposto che a pagare quelle armi siano i Paesi europei. Pertanto, se le armi devono arrivare al più presto in Ucraina, sarà meglio che i relativi pagamenti siano concordati ed effettuati anch’essi al più presto». Avete udito, lavoratori, pensionati, operai dei pesi UE? Dovete pagare e fatelo in fretta. Ma, soprattutto «i quattro Paesi europei che guidano gli sforzi per la Difesa europea – Germania, Francia, Regno Unito e Polonia – devono mantenere rigorosamente l’attenzione sulle necessità concrete dell’Ucraina», mantenendo al contempo «rigorosamente l’attenzione» sull'acquisto di «attrezzature e materiali per la Difesa soprattutto dai produttori europei, piuttosto che da quelli statunitensi».
E che diamine: armiamo l'Ucraina, ma i profitti sono profitti e avanti a tutti vanno quelli del capitale europeo, per quel tanto che possa oggi parlarsi di “capitali nazionali”, o anche “plurinazionali”, di fronte all'intreccio di capitali mondiali. Capitali “plurinazionali” in cui includere anche quelli della «industria bellica ucraina» - su cui interviene in prima persona il capitale europeo – che «promette di diventare in futuro un asset di rilievo in Europa, rendendo di conseguenza ancora più importante proteggerla dagli attacchi russi». In soldoni: proteggiamo i capitali che il complesso militare-industriale britannico, tedesco, italiano, francese sta investendo nell'industria di guerra ucraina. Sono soldi che vanno difesi, allevati con cura, svezzati e fatti germogliare per i nostri (i loro) profitti.
Insomma, Gergiev non è che l'ennesimo pretesto per muover guerra a alla Russia e rimpinguare le casse del complesso militare-industriale mondiale. Per parafrasare – in maniera quasi offensiva: ci si perdoni – il grande Mao: «il profitto in tutto, il profitto avanti tutto».