Il fallimento di Hollande e il Partito Socialista francese inizia nel 1983 con la resa allo SME

La svolta europeista del PS francese nel 1983 ha aperto la strada alla crisi attuale.

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Il fallimento di Hollande e il Partito Socialista francese inizia nel 1983 con la resa allo SME

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di Rafael Poch, corrispondente di “La Vanguardia” a Parigi
 
da www.lavanguardia.com
 
 
Il mandato del presidente François Hollande, che secondo l'ultimo sondaggio pubblicato è gradito al 14% dei francesi, sta battendo il record del discredito nella V Repubblica, fondata dal generale De Gaulle nel 1958, ma il naufragio del Partito Socialista Francese va ben oltre la personalità e la politica della sua prima figura.
 
La socialdemocrazia non è in crisi solo in Francia, ma il declino dei socialdemocratici francesi ha una propria storia che dura da una generazione e che è cominciata nel marzo 1983 sotto la presidenza di  François Mitterand. Fu allora che il Partito Socialista smise di essere una socialdemocrazia per trasformarsi in una forza social-liberale. L'Europa, il processo della costruzione europea, fu determinante perché il PS smettesse di essere socialdemocratico.
 
La svolta iniziale si produsse tra il 13 e il 23 marzo 1983. I socialisti avevano vinto le elezioni con il cosiddetto Programma Comune, una ricetta socialdemocratica che oggi passerebbe come di sinistra radicale: nazionalizzazione di trenta banche e di cinque grandi gruppi industriali strategici, aumento degli assegni familiari e del salario minimo.
 
Quella politica di cambiamento sociale circoscritto alla nazione francese si concluse nel marzo 1983, quando il primo ministro dell'epoca Pierre Mauroy, il ministro delle Finanze, Jacques Delors, ed altre personalità socialiste come il ministro di Stato e Pianificazione, Michel Rocard, il consigliere Jacques Attali e il direttore del Tesoro, Michel Camdessus, convinsero il presidente Mitterand a cambiarla con un'altra, orientata all'approfondimento del solco aperto nel 1979 dal Sistema Monetario Europeo (SME) e alla prospettiva dell'interdipendenza e dell'integrazione economica europea.
 
Se le chiavi della strategia del Programma Comune erano nazionali e sovrane, quelle della nuova linea erano determinate dalla globalizzazione, un mero pseudonimo del sistema transnazionale di mercato, trainato sia dall'Amministrazione degli Stati Uniti che dal Governo tedesco.
 
Mitterand riassunse il dilemma con una dolorosa dichiarazione del febbraio 1983, confessando: “Devo far collimare due obiettivi, quello della costruzione europea e quello della giustizia sociale. Il sistema monetario europeo è necessario per raggiungere il primo e limita la mia libertà per quanto riguarda il secondo”.
 
Attali e Camdessus formulavano allora ipotesi apocalittiche nel caso che la Francia uscisse dallo SME, e continuando a esercitare pressione su Mitterand, convinsero il ministro del Bilancio, Laurent Fabius, di cui Mitterand aveva molta considerazione. Il 16 marzo Mitterand decise a favore della strategia europea e il 23 rese pubblico il cambiamento di linea: “Non vogliamo isolare la Francia dall'Europa di cui facciamo parte”, dichiarò.
 
Con quel cambiamento la Francia rinunciava alla sovranità monetaria e commerciale e al protezionismo, confermò il presidente in un'intervista trasmessa alla televisione del 15 settembre. Lo statalismo repubblicano (libertà, uguaglianza, fraternità) iniziava così a erodersi in nome della razionalità economica neoliberale (privatizzazione, deregolazione, rigore fiscale) contenuta nel processo di costruzione europea e nei suoi trattati.
 
E' da una generazione che la Francia vive inserita in questo universo, una delle fonti del suo malessere e dell'ascesa del Fronte Nazionale che ora, otto anni dopo la scoppio della crisi neoliberista, sta sfruttando in una miscela di proteste sociali e spettacolari avanzate elettorali dell'ultradestra.
 
François Hollande, il secondo socialista arrivato al potere dopo Mitterand, conquistò la presidenza nel maggio 2012. Già non c'era più nel partito, i cui dirigenti della nuova generazione avevano abbracciato senza complessi il social-liberalismo, traccia alcuna delle esitazioni del loro predecessore, la cui scelta del 1983 era presentata come una “parentesi momentanea”.
 
Nel dicembre 2011, François Hollande prometteva ai suoi elettori: “Esigerò che sia aggiunto ai trattati europei ciò che manca; vale a dire, l'intervento della Banca Centrale Europea, gli eurobond e il fondo di aiuto finanziario”. La Francia avrebbe così dato impulso a un cambiamento nella politica europea? Due mesi prima della vittoria di Hollande nelle urne, nel marzo 2012, un rapporto di nove pagine della reputata impresa di servizi finanziari Chevreux già aveva risposto a questa domanda negativamente.
 
“La richiesta di rinegoziazione dei trattati europei sarà utilizzata per ingannare il pubblico francese, facendogli accettare riforme, come quella del mercato del lavoro”, pronosticava il rapporto di Chevreux, il cui lavoro consiste nel dare consulenza ai fondi di investimento.
 
“Gli alleati europei faranno bene a presentare le cose come se François Hollande gli abbia strappato qualcosa, sebbene in realtà ciò sia falso”, si augurava il rapporto. In presenza dell'attuale riforma del lavoro, che è stata imposta seguendo un copione chiaramente europeo (“il minimo necessario per la Francia”, ha detto il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker), quel pronostico è risultato essere “un'autentica profezia”, afferma François Ruffin, il Michael Moore francese, autore di diversi documentari sulla crisi francese.
 
Nel giugno 2012, Hollande annunciava l' “impegno” nei confronti di ciò che aveva riportato dalla  sua prima partecipazione al Consiglio Europeo che era presentata come una vittoria personale. “Merkel voleva il rispetto della disciplina di bilancio, ma io ho fatto prevalere la crescita: un patto per la crescita di 120.000 milioni”, dichiarava il presidente francese.
 
“E' stata una messa in scena, una operazione di facciata”, dice Nicolas Doisy, autore del rapporto di Chevreux, intervistato da Ruffin. Il “patto per la crescita” è risultato completamente insignificante, mentre la sua contropartita, la riforma del lavoro, sta lì e, in mancanza di una maggioranza,la si impone per decreto.
 
“François Hollande deluderà o i mercati finanziari o i suoi elettori, perché è evidente che non riuscirà a conciliare entrambi”, scriveva Doisy nel marzo 2012. Hollande ha scelto i primi e oggi paga un prezzo politico: il suo paese è in sciopero, il Fronte Nazionale campa a sue spese e i suoi elettori coprono le sedi del suo partito di scritte “ex socialdemocrazia francese”.

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