Fausto Sorini - la vicenda del Quirinale e l’Italia che verrà

Fausto Sorini - la vicenda del Quirinale e l’Italia che verrà

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di Fausto Sorini - Marx21

Vale la pena ritornare sulla vicenda del Quirinale, a cui Marx21.it ha dedicato il suo editoriale del 30 gennaio (1). Essa si sta rivelando assai disvelatrice di tendenze e contraddizioni di fondo della società italiana, di processi e progetti politici differenziati che la attraversano e spaccano coalizioni e partiti anche al loro interno. E allungano lo sguardo sul futuro politico del Paese, dato che l’attuale configurazione del quadro politico italiano appare tutt’altro che stabilizzata. 

L’Italia è un Paese rilevante nell’equilibrio geo-politico euro-atlantico (imperniato su Stati Uniti, Ue e Nato) ed euro-mediterraneo (Israele, Medioriente, Nord Africa); tanto più in un contesto di nuova guerra fredda, in alcune aree già calda. Anche sul piano della stabilità economica, scioccata dalla pandemia, l’Italia è paese tutt’altro che secondario negli equilibri e nella tenuta dell’euro e dell’Unione europa.

Che cosa vogliono quindi i “poteri forti”, italiani ed esteri, dall’Italia? 

-Rigidà fedeltà euro-atlantica nello scontro globale con Russia e Cina (altro che Via della Seta e cooperazione pacifica euro-asiatica o euro-mediterranea);

-che il Paese non crolli economicamente e riduca il debito pubblico, senza sostanziali redistribuzioni della ricchezza nazionale a danno dei gruppi dominanti e dei ceti sociali medio-alti;

-che riduca e contenga la spesa sociale (pensioni, scuola e sanità pubblica);

-che resti fedele ai parametri liberisti della Ue, sia in fase di austerità che in fase di politica più espansiva. E quindi NO ad un ruolo preminente del pubblico nella vita economica, piena libertà d’azione al capitale finanziario e alle banche, nessuna nazionalizzazione o primato del pubblico in tale settore;

-sostegno alla grande impresa privata, quella più esposta nella competizione internazionale, senza vincoli di programmazione. 

Ebbene: i due governi Conte – pur nelle loro diversità, luci e ombre (e qui non mi addentro) – sono stati valutati dai “poteri forti” come del tutto inadeguati – a partire dal premier – a fornire le opportune garanzie di cui si è detto, per cui si è sorta l’esigenza di una piena “normalizzazione”. 

Da qui: prima l’intervento e le pressioni su Salvini perchè facesse saltare il Conte 1 (una prova di fedeltà atlantica dopo i suoi flirt con Mosca e l’eccessiva tolleranza verso la Via della Seta); poi le pressioni sul PD (sulle sue componenti più atlantiste) per liberarsi di Zingaretti, liquidato malamente, improvvisamente e con modalità abbastanza oscure, perchè troppo remissivo nei confronti di Conte e dei 5 Stelle e ancora troppo “socialdemocratico”, per riportare alla guida del PD il più affidabile Enrico Letta; e infine il puntuale colpo di grazia commissionato a Renzi volto a far cadere il Conte 1 e a impedirne qualsivoglia riedizione (2). 

Giuseppe Conte in verità è tutt’ora amato e apprezzato da grande parte del popolo italiano (così dicono tutti i sondaggi sui gradimenti personali): collaborativo col sindacato e con una forte sponda nella CGIL di Landini, tutt’altro che inefficiente nella gestione dell’emergenza pandemica (non è che poi con Draghi Superman si sia fatto granchè meglio); uomo di pace e di cooperazione internazionale a 360°. Ma evidentemente colpevole di altri “peccati” morotei di cui già si è detto. 

A quel punto, e con il concorso del Presidente Mattarella, si è consumato l’ennesimo colpo di mano di tipo presidenzialista (inaugurato anni prima da Napolitano) che ha portato Draghi a Palazzo Chigi col compito di normalizzare la situazione e di fatto “commissariare” i partiti, il Parlamento e la Costituzione. 

Nel suo editoriale del 30 gennaio (il giorno dopo la rielezione di Mattarella) il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, scrive con apprezzabile franchezza che – per la seconda volta – sopra l’Italia si erge “l’ombrello protettivo di Mattarella al Quirinale e di Draghi a Palazzo Chigi”; con grande compiacimento dei media che quasi tutti esprimono i desiderata della grande finanza internazionale e dei vertici euro-atlantici, ed una minor soddisfazione dei due interessati di cui erano ben note le diverse aspirazioni. Ma evidentemente anche il sistema ha i suoi cavalli di razza, i suoi statisti devoti.

E’ vero: Draghi non riesce ancora a raggiungere il Quirinale (sua principale aspirazione), come strategicamente continuano a desiderare i poteri forti che lo vorrebbero per 7 anni (e non solo 7 mesi) nuovo Re d’Italia. Ma allo stato, col rischio che una sua immediata elezione precipitasse il Paese in una crisi ingovernabile e in una balcanizzazione del governo e del Parlamento, hanno suggerito il rinvio dell’operazione. Si rifarà il punto dopo le elezioni politiche del 2023: se l’Italia avrà un governo stabile e “disciplinato” ai desiderata dei poteri forti, Draghi potrà salire al Quirinale e Mattarella potrà dimettersi (magari per ragioni di salute…) e godersi il suo meritato riposo. Se viceversa l’Italia non avrà ancora un governo “adeguato” e si rivelassero necessarie ulteriori soluzioni emergenziali, vorrà dire che la coppia Mattarella-Draghi prolungherà per qualche tempo ancora la sua funzione di “ombrello protettivo”. 

* Se questo è il quadro strategico generale in cui inquadrare il contesto italiano, dobbiamo però esaminare più nel dettaglio alcuni passaggi che si sono palesati nei giorni scorsi perchè essi rendono più chiaro il futuro politico che prevedibilmente ci aspetta nel prossimo futuro. E ciò anche al fine di capire come agire su tali contraddizioni (per chi può farlo) e come contrastare e possibilmente evitare i guai peggiori. 

Draghi puntava evidentemente al Quirinale. Scrive bene Pasquale Napolitano (Il Giornale, 30 gennaio), che egli “ schierava un tridente d’oro per conquistare il Colle: Giancarlo Giorgetti, Lorenzo Guerini e Luigi di Maio. Tre ministri del suo governo, con una forte presa nei rispettivi partiti: Lega, Pd e M5s”. Tra i non ministri, anche Letta e una parte del PD lavorava per Draghi (cercando di risolvere contestualmente il problema della sua sostituzione a Palazzo Chigi), e così pure Giorgia Meloni, con l’obbiettivo opposto di provocare crisi di governo ed elezioni anticipate, in cui tutti i sondaggi le attribuiscono un credibile exploit oltre il 20%, quindi un potente rafforzamento dei suoi gruppi parlamentari ed una ascesa della sua leadership a destra. 

Quando diciamo Giorgetti diciamo: la Lega del Nord, i suoi governatori regionali (Zaia in primis), la piccola e media industria, che ne è la base sociale fondamentale, sia pure con una buona quota di consenso elettorale tra operai, artigiani e pensionati. E’ lo zoccolo duro strategico della Lega, quello che conta nell’economia del Paese, e che sempre meno si sente attratto dalla demagogia salviniana. Giorgetti è anche l’uomo che non nutre simpatie o velleità nei rapporti con Mosca e con linearità nutre buoni rapporti con Washington e Tel Aviv. Il leader ideale per una Lega di governo, che stringa al centro e guardi al Partito Popolare Europeo, dove già siede Berlusconi.

Quando diciamo Guerini (ministro PD, alla Difesa) parliamo di un solido atlantista di estrazione democristiana, già vice-segretario PD e coordinatore della segreteria, una sorta di renziano rimasto nel PD. Una figura discreta, ma influente. E non si diventa ministri della Difesa in un Paese della Nato senza il cosiddetto nulla osta Cosmic. Quando diciamo Di Maio parliamo di un uomo che in nome della propria carriera personale ha rinunciato a tutto ciò che vi era di progressivo nel M5S delle origini, oltrepassando indegnamente il limite di quella che fino a poco tempo fa poteva essere interpretata come una cinica, ma lucida real-politik. Non a caso La Repubblica (30 gennaio) lo omaggia con un titolo che non ha bisogno di commenti: Di Maio – tempismo e nervi saldi – ha imparato la vera politica. Ed oggi viene persino corteggiato dai costruttori del terzo polo centrista. Si tratta comunque di un personaggio che tutt’ora gode di larga influenza nei 5S, sicuramente nei gruppi parlamentari, dove il calcolo meramente carrieristico è esposto a maggiori tentazioni.  Di Maio si è messo ormai in guerra aperta contro Conte (intralciandolo apertamente anche nelle trattative per il Quirinale), in una competizione di cui vanno colte le differenze politiche.  Conte non è sicuramente un bolscevico, ma un cattolico democratico e progressista, di sinistra riformista, di ispirazione socialisteggiante, amante della Costituzione e della sua venatura sociale, non liberista, aperto al dialogo e alla cooperazione internazionale multipolare (non alla guerra, fredda o calda che sia) e proprio per questo è detestato in certi ambienti. Anche perchè, diversamente da altri, è un uomo che ha una sua coerenza, non si vende al miglior offerente, non è un politicante da strapazzo, di quelli che tanto hanno contribuito a gettare un crescente discredito popolare verso “la politica” e i partiti. Il gradimento personale e popolare di cui ancora gode lo conferma. 

L’eventualità che Draghi potesse essere bocciato nel segreto dell’urna o che la sua elezione al Quirinale mandasse in pezzi il governo con annesse elezioni anticipate e salto nel buio, ha indotto i poteri forti a sollecitare il ritorno di Mattarella (è stato Draghi in persona a chiederglielo per primo), a mantenere Draghi alla premiership ancora per un anno o forse più: dipenderà dall’esito delle elezioni del 2023 e dalle conseguenze che i poteri forti, insieme a Draghi e Matterella ne trarranno.

Se fosse stato eletto al posto di Draghi un Presidente della Repubblica diverso da Mattarella, per Draghi la salita al Colle sarebbe svanita per sempre; e questa è anche una delle ragioni per cui tutti gli altri candidati diversi dalla coppia Draghi-Mattarella sono stati in vario modo liquidati (e non mi addentro qui nell’oscura vicenda Belloni, su cui c’è ancora quacosa da capire…). 

Riassume bene il direttore del Foglio (2 febbraio): “La corsa verso il Quirinale si è conclusa con un draghicidio sventato”. Tra i vari candidati esclusi in partenza,“ lo sbarramento più duro, forse, è stato quello alzato immediatamente contro Franco Frattini, l’ex ministro degli Esteri berlusconiano appena diventato presidente del Consiglio di Stato. Citiamo dal Corriere della Sera (30 gennaio): «La scelta del Presidente della Repubblica non ha solo ricadute interne. I venti di guerra che soffiano dall’Ucraina ci ricordano che all’Italia serve un presidente della Repubblica chiaramente europeista, atlantista, senza ombre di ambiguità nel rapporto con la Russia» ha detto il Pd. Con Matteo Renzi che aggiungeva: «Chi ha orecchie per intendere intenda, su questo punto faremo le barricate”. Si è persino vociferato di un intervento a gamba tesa dell’Ambasciata americana contro l’ipotesi Frattini , accusato di non essere abbastanza ostile alla Russia, avendo egli auspicato anche recentemente una linea di “dialogo costruttivo” , in puro stile moroteo o andreottiano… (con Letta e Renzi in prima fila nel dire subito NO). Siamo a questo punto (a proposito di “sovranità limitata”) ed è apparso chiaro che in materia di “fermezza atlantica”, i dirigenti del PD più prossimi a Letta e il gruppo di Matteo Renzi siano considerati tra i più affidabili. 

* Ma un’altra insidia incombe sulla democrazia italiana e sull’impianto costituzionale: una spinta crescente verso il presidenzialismo, con un ulteriore svuotamento del ruolo del Parlamento e dello stesso governo inteso come espressione della volontà parlamentare; uno stravolgimento anche formale della Costituzione del 1948, già più volte stracciata sul piano sostanziale. 

Il pericolo è reale ed esso ha ripreso quota all’indomani della recente vicenda Quirinalizia, in cui i partiti – già così screditati nel Paese – hanno offerto l’ennesimo spettacolo poco edificante.

Ricordiamo che per decenni i vari Presidenti della Repubblica che si sono susseguiti svolsero un ruolo non particolarmente invasivo nella vita politica del Paese, più o meno coerente coi poteri che la Costituzione affida loro (e che comunque così pochi non sono…). Poi comincio’ la P2 di Licio Gelli a spingere in quella direzione. E da quando i poteri forti interni e internazionali hanno cominciato a porre il problema secondo cui alcune Costituzioni europee (quella portoghese e quella italiana innanzitutto) contengono vincoli eccessivi per il pieno dispiegarsi del capitalismo sovranazionale, dell’imperialismo e delle guerre, hanno cominciato ad emergere anche nel nostro Paese alcuni protagonismi presidenziali volti a rafforzare di fatto il ruolo del Quirinale. Prima Cossiga, poi Napolitano, in taluni passaggi lo stesso Mattarella. 

I sondaggi dicono da tempo che circa i due terzi degli italiani sarebbero favorevoli alla elezione diretta del Presidente della Repubblica. 

La destra italiana, ma anche settori centristi e lo stesso Renzi, si pronunciano ormai apertamente per il presidenzialismo. E lo spettacolo indecente offerto dai partiti anche nell’ultima vicenda del Quirinale alimentera’ ancor più questo senso comune popolare anti-partiti. Lo dimostra ormai da tempo il crescente tasso di astensione alle elezioni, dove ormai circa un italiano su due non va a votare. E se i partiti, o alcuni di essi, non riusciranno a ridare prestigio e credibilità alla Politica (ma chi? come?) il consenso popolare, manipolato e inconsapevole, si sentirà sempre più attratto da ipotesi presidenzialiste.

All’indomani della rielezione di Mattarella i pronunciamenti in tal senso hanno cominciato a moltiplicarsi. Il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, (30 gennaio) ha scritto che “nulla sarà più come prima, in questa Italia che scivola verso un regime presidenziale-preterintenzionale”. 

Il neo-Presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, sotto un titolo a tutta pagina de La Stampa (30 gennaio) dichiara: “Elezione diretta? La proposi io nel ’78. Un esempio è il modello francese”.

Il quotidiano Libero (direttore Alessandro Sallusti) titola a tutta pagina il 30 gennaio: Basta giochini di palazzo: presidenzialismo – Il futuro capo dello Stato fatelo eleggere a noi . E affida alla penna di Arnaldo Ferrari Nasi l’illustrazione dei dati. 

“Lo vuole l’87% del popolo di centrodestra – Il presidenzialismo piace a tre italiani su quattro”. “Proprio su Libero – scrive Nasi – portando come esempio “la legge dei Sindaci”, ho di recente ricordato come circa due italiani su tre vorrebbero poter eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, il capo dell’Esecutivo, chi fa le cose. Allo stesso modo, in pratica tre italiani su quattro, il 73%, vorrebbe che il Presidente della Repubblica venisse «eletto direttamente dai cittadini e non dal Parlamento, come avviene ora». Dato che non cambia nel tempo: lo stesso risultato veniva rilevato nel 2019, con un parlamento appena eletto ed un governo assolutamente nuovo, inedito, peraltro composto da due partiti, 5 Stelle e Lega, nemici in campagna elettorale. Un sistema presidenzialista sarebbe molto amato tra gli elettorati dai partiti di area centrodestra, mediamente l’87%, ma anche dai 5 Stelle (76%) e dal 60% di chi vota Pd… È da Fratelli d’Italia che proviene l’ultima proposta di legge per una riforma presidenziale dello Stato”.  Così anche Massimo Cacciari, intervistato su Repubblica (30 gennaio):  “Lei è favorevole all’elezione diretta,al sistema presidenziale? «Si figuri se non sono favorevole. Lo ero già trent’anni fa quando il presidenzialismo lo sosteneva il mio maestro Gianfranco Miglio. Ma il presidenzialismo da solo non basta. Se scegliamo la strada presidenzialista, dobbiamo equilibrarla con un federalismo più spinto di quello di oggi”.  Rilevante anche il commento di Stefano Folli, già editorialista politico del Sole 24 ore, organo di Confindustria (La Repubblica, 30 gennaio):  “Il nostro sistema politico ha necessità di essere riformato nel profondo: anche attraverso l’elezione diretta del capo dello Stato, nella convinzione che occorre riassestare tutto l’equilibrio dei poteri…Se volesse, Draghi potrebbe caricarsi sulle spalle questa responsabilità, al di là quindi del Next Generation. Vorrebbe dire guardare anche oltre il 2023 e avviare il rinnovamento del Paese”. (La Repubblica, 30 gennaio). E si potrebbe continuare.

Il dramma è che i cittadini non comprendono che in una competizione presidenzialista essi non conterebbero nulla nella scelta dei candidati in corsa (ancor meno che nelle elezioni politiche) bensì – come dimostra l’esperienza USA, ma anche quella francese – essi verrebbero decisi dietro le quinte dai poteri forti, interni e internazionali e poi affidati ad un sistema mediatico sempre più controllato da essi. Lo conferma anche la recente elezione del Quirinale, dove quasi tutti i mass media che contano sostenevano Draghi, ancor più dei partiti o delle correnti di partito favorevoli all’operazione. 

* Il pericolo dunque è reale; e non sarà facile mettere in campo uno schieramento politico e sociale in grado di fronteggiare questa minaccia. E ciò è ancora più grave se si considerano i venti di guerra che aleggiano sul mondo, come ripetutamente ammonisce il Papa.

Credo che la priorità nell’attuale contesto italiano sia dunque la costruzione di un fronte politico e sociale costituzionale, che – sul terreno istituzionale – cerchi di sbarrare la strada al pericolo che incombe. E questa dovrebbe essere una delle priorità anche per i comunisti. Come? 

Tra le poche cose positive che sono emerse durante le votazioni dei grandi elettori al Quirinale, vi è sicuramente la convergenza di 62 voti sulla candidatura di Paolo Maddalena, un grande magistrato garante dei valori della Costituzione. Tale candidatura è stata un intelligente tentativo promosso dal gruppo parlamentare “L’alternativa c’è” (ex 5 stelle usciti dal movimento in opposizione a Draghi) che, partito da una base di 32 sostenitori, ha raggiunto quota 62 (il 6% dei grandi elettori). Ciò probabilmente grazie alla convergenza di altri grandi elettori di sinistra (5 stelle e non); e che all’esterno del Parlamento ha ottenuto da subito l’apprezzamento dei comunisti (variamenti collocati), di alcune componenti di sinistra, di settori dell’Anpi, di cattolici progressisti o semplicemente di coerenti difensori della Costituzione.

E’ stato un segnale importante e sarebbe bene se le forze che hanno promosso tale iniziativa, dentro e fuori il Parlamento, si facessero promotrici – ognuna con la propria identità e senza velleitari fusionismi – della formazione degli embrioni di un Fronte costituzionale, su un programma minimo condiviso (pace, democrazia, stato sociale, antiliberismo) capace, sia in Parlamento che nel Paese, di allargarsi alle più larghe adesioni. Coinvolgendo il mondo del lavoro, i giovani, i migliori esponenti del mondo della cultura, dell’arte, dello sport (con un approccio popolare, non elitario), del sindacalismo, e tutti i centri di aggregazione che variamente si riconoscano nel programma della Costituzione.

Il dramma dell’Italia, sul piano politico, è che manca una proposta politica al Paese – sufficientemente forte e credibile, e non meramente testimoniale – capace di promuovere una iniziativa politica capace di incidere sui rapporti di forza reali e di ottenere risultati, anche parziali; facendo leva, con grande duttilità tattica, sulle contraddizione del campo avverso; bandendo ogni settarismo autoreferenziale o meramente rituale. Che cominci a trasformare il malessere sociale diffuso nel Paese in proposta politica, con una sponda nelle istituzioni e nel Parlamento, per farne tribuna che parli al Paese. 

Faccio un solo esempio (ipotetico), che guardi oltre i 62 dell’operazione Maddalena (tra i quali esiste, vivaddio, anche qualche comunista). 

Nel M5S si va ad uno scontro tra Conte e Di Maio. Di Maio dichiara al Corriere della Sera (30 gennaio): «Chiederò la verifica nel Movimento. Perché quello (Conte-ndr) è pericoloso e se ne deve andare». Se Conte tiene duro, si potrebbe produrre una frattura profonda. 

Scrive Repubblica (30 gen):  “Nel rapporto con Di Maio, Conte è determinato ad andare fino in fondo, anche a costo di una rottura definitiva. «Ricordiamo che fuori dai 5 Stelle c’è Alessandro Di Battista — sottolinea una fonte interna al partito — e con lui il presidente ha un buon rapporto: a quel punto, senza Di Maio e con “Dibba” in campo, ci sarebbe una svolta: un Movimento più radicale che non si fa stritolare dai riti di palazzo». E che, aggiungo io, potrebbe recuperare una parte dell’elettorato perduto dai 5S o astensionista.

Non so dire, ad oggi, se tale scenario, o sue varianti, sia credibile. Molto dipenderà dall’esito dello scontro interno ai 5S e dal ruolo di Conte e Di Battista. E dalla capacità dei 62 sostenitori di Maddalena, e in particolare del gruppo parlamentare de L’altentativa c’è. Ma vale la pena di provarci e non farsi trovare impreparati, avendo come progetto quello di una convergenza di varie forze in un Fronte politico costituzionale. Esso potrebbe occupare uno spazio elettorale al riparo da un eventuale sbarramento del 5%, sicuramente orientato a sinistra nel senso nobile del termine e che in prospettiva possa ampliare la sua capacità di attrazione. Ed anche rappresentare in Parlamento l’unica sponda politica ove le componenti migliori del movimento sindacale potrebbero trovare un sostegno alle loro rivendicazioni. Quindi un Fronte connesso al conflitto sociale, scevro da logiche meramente elettoralistiche. 

E’ verosimile che ci si avvii verso una legge elettorale proporzionale alla tedesca. Quale sarà lo sbarramento? In ogni caso ciò produrrà dinamiche aggregative tra gruppi affini, ma non più grandi coalizioni come quelle passate. Ed è bene così. Sarebbe comunque un passo avanti.  Se questo sarò lo scenario, Fratelli d’Italia diventerà probabilmente una forte opposizione di destra, che può puntare in prospettiva a raccogliere anche una parte dell’elettorato più radicale e disilluso della Lega, e superare agevolmente il 20-25%. 

Una Lega depurata dai tratti più demagoci, parolai e confusionari di un Salvini in evidente crisi di leadership; una Lega in versione Giorgetti-Zaia, capace di assorbire una parte dell’elettorato moderato di Forza Italia (una formazione che non ha futuro), una Lega legittimata dall’ingresso nel PP europeo, può credibilmente presentarsi come il perno di una maggioranza di centro- destra, con o senza la Meloni, a seconda di quale sarà il futuro, se ne avrà uno, il tentativo evidente di creare un polo centrista. Una Lega cioè che pratichi una politica dei due o tre forni: al governo con Fratelli d’Italia, o coi centristi, o con entrambi, o in versione bipartisan con un PD ormai centrista. Una Lega comunque perno “rigenerato” dello schieramento di centro-destra e legittimata dal suo ingresso nel PPE (come da tempo chiede Giorgetti).  Scrive acutamente in proposito il direttore del Foglio (31 gennaio): “Salvini, probabilmente, non è la persona migliore per superare la stagione del salvinismo, ma il sì che la Lega ha scelto di regalare a Sergio Mattarella è un sì che volontariamente o involontariamente non solo evita il draghicidio, ma evita di condannare automaticamente la Lega a un futuro populista. Salvini esce indebolito, la Lega no. Il futuro del centrodestra, forse, passa anche da qui”.

Si formerà un polo centrista che assorba forze da entrambi le ex coalizioni in via disfacimento? Sulla carta le forze ci sono: il gruppo di Renzi, quello di Calenda, Forza Italia, i settori più moderati dell’ex centro-destra (Toti e compagnia). Vedo certamente un problema di leadership, ma lo spazio politico esiste per costituire al centro un ago della bilancia non marginale (sul 10%?) a prova di sbarramento, che possa trattare il suo sostegno a questo o quel governo, guardando ora verso destra, ora nell’altro senso, secondo il classico schema. 

Il PD, con Letta o altri come lui, tornerà ad essere – con un bottino elettorale oltre il 20% – il partito perno del sistema e dei poteri forti euro-atlantici. E, in assenza di interlocutori forti di centro-sinistra, potrà tranquillamente governare insieme ad una Lega desalvinizzata ed un polo di centro. E con quella parte dei 5S che seguirà la via di Di Maio della piena integrazione/normalizzazione. 

Sarebbe quindi auspicabile (e possibile) che, a sinistra di tutto ciò, si formasse un Fronte, un campo di forze capace di fare da progressisti quello che la Meloni fa da destra. Un Fronte popolare (come tanti ne sono stati sperimentati in America latina e altrove) dove una forza comunista anche piccola, ma credibile e matura (tutta da ricostruire) possa svolgere – senza nulla togliere alla propria autonomia politica e organizzativa – una funzione unitaria, costruttiva, realistica, in sintonia col Paese reale. E che al tempo stesso tenga viva tra i più, nella società italiana, nei conflitti sociali e nelle istituzioni, una visione mondiale e non propagandistica della prospettiva storica del socialismo, dentro un mondo multipolare che contrasti ogni logica imperialistica e di guerra.  Tutto ciò, a partire dai valori e dalle indicazioni programmatiche della Costituzione repubblicana, che resta a tutt’oggi la bandiera al tempo stesso più unitaria e più avanzata su cui costruire l’avvenire. 

NOTE (1)Rilevo con soddisfazione che nel giro di pochi giorni questo è il secondo editoriale pubblicato dal sito, dopo che per molti anni questa buona abitudine era stata un po’ abbandonata. Non sembri questa una questione marginale o meramente giornalistica: come già ricordato dal direttore del sito in premessa “l’editoriale vuole rappresentare la posizione politica del sito marx21”. Un editoriale cioè significa che una pubblicazione, un collettivo redazionale, ha una linea generale da proporre; non solo una biblioteca di testi e approfondimenti anche pregevoli di singoli autori su singole questioni (per lo più internazionali), che di per sé non delineano una visione e un progetto politico generale.

Il fatto che Marx21 (di cui mi sento parte a pieno titolo e con orgoglio) abbia deciso di dedicare i suoi primi due editoriali alla questione comunista in Italia e all’attualità politica nazionale promette bene e ci costringe ad un salto di qualità nell’analisi e nella proposta politica.

(2) La brusca defenestrazione di Conte da Palazzo Chigi (una congiura di palazzo, come ha ampiamente documentato Marco Travaglio) mi ricorda la vicenda della caduta di Prodi alla vigilia della guerra della Nato contro la Jugoslavia. Gli americani non si fidavano della insufficiente determinazione guerrafondaia di quel cattolico democratico di ispirazione morotea, e quindi affidarono a Cossiga l’attuazione di quel patto D’Alema – Cossutta – Cossiga che aveva il compito di spaccare Rifondazione, ottenere dai parlamentare di Cossutta i voti sufficienti per far cadere Prodi e dare vita ad un governo D’Alema che includesse il PdCI, affidando a quest’ultimo persino un vice-ministro alla Difesa (quel Paolo Guerrini da sempre uomo di fiducia di Cossutta, regista della liquidazione del progetto di Costituente comunista promosso da Marx21, e king maker della nomina di Alboresi alla guida del PdCI-PCI). Cossiga si fece garante presso gli americani e la Nato che nel frangente della guerra alla Jugoslavia i cossuttiani si sarebbero “comportati bene” e che il premier D’Alema, in ansia di legittimazione atlantica, “avrebbe fatto il suo dovere”… come effettivamente fu.

 

 

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