Il "welfare surrogato" del turismo di massa
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di Antonio Di Siena
Oggi La Gazzetta del Mezzogiorno propone due articoli sulla prima pagina cittadina che raccontano la stessa storia osservandola da due angolazioni diverse ma convergenti.


Da una parte Bari Vecchia, che esplode di turisti e strutture ricettive ma è priva di servizi pubblici adeguati; dall’altra la denuncia di un residente e memoria storica, che evidenzia la perdita - di fatto irreversibile - delle tradizioni del quartiere.
Ciò che emerge è un processo strutturale, che investe l’intera città di Bari così come (a velocità variabili) la quasi totalità delle altre città euromediterranee.
Partiamo da un presupposto: che la proliferazione incontrollata di B&B faccia tabula rasa di residenti, comunità e tradizioni locali non è un’opinione, è un fatto. E non saranno di certo la focaccia e i San Nicola di terracotta elevati a brand internazionale a salvarli.
Quando si sceglie di trasformare un quartiere in una vetrina, infatti, si trasforma un luogo in un prodotto e i suoi residenti in figuranti. Si allestisce uno spettacolo, fatto di luoghi e persone, funzionale a rievocare un passato esotico che non esiste più. Una sorta di “musealizzazione del passato” non molto diversa da un presepe vivente.
Non è un effetto collaterale, ma una conseguenza concreta e diretta del modello stesso che si è scelto di implementare. Che se ne parli, che si prenda posizione e si denunci questa evidente stortura, è certamente un bene. Ma non basta. È necessario fare un passetto oltre, per provare a capire perché un simile modello continui a imporsi nonostante gli effetti distruttivi.
Il turismo ha avuto un’innegabile ricaduta positiva sull’economia cittadina. Quantomeno nel breve periodo. Ed è questo che l’ha reso prima desiderabile e adesso sopportabile nonostante le storture.
In molti infatti hanno investito in attività di accoglienza, commercio e servizi, riuscendo a migliorare la propria condizione economica. Illudendosi di aver trovato la gallina dalle uova d’oro. Ma vi svelo un segreto: altrove ci sono già passati. E col tempo hanno scoperto che quel rendimento è temporaneo e regressivo. Che non esiste la gallina. E nemmeno le uova.
Quando il turismo si impone come fonte economica primaria, siamo infatti di fronte a un sistema economicamente fragile e non diversificato, un modello tipico di paesi privi di capacità ad elevato valore aggiunto (industria, ricerca e sviluppo ecc). Il segnale di una specializzazione al ribasso, fondata sulla rendita e non sulla produzione di valore. Non a caso, di turismo, campa la Thailandia non di certo la Germania, dove il turismo resta un settore complementare e non sostitutivo di una struttura produttiva complessa.
In un contesto economicamente depresso e privo di opportunità e alternative, il turismo diventa una sorta di salvagente. Ed è qui che assume i connotati di ciò che ho definito “welfare surrogato”.
In assenza di pianificazione e politiche pubbliche strutturali diventa la scialuppa di salvataggio su cui si accalcano amministratori pubblici e ceto medio impoverito: i primi lo usano come fonte di gettito immediato e alternativo; i secondi come fonte di reddito ausiliario attraverso gli affitti brevi e i servizi collegati.
A cascata, poi, trovano occupazione (instabile e mal retribuita) il resto dei cittadini che vengono impiegati nella filiera (negozietti di souvenir, ristorazione, deposito bagagli, accoglienza, pulizie, trasporti ecc). Il che genera due effetti immediati: l’illusione del miglioramento delle proprie condizioni (la casa mi rende di più, ero disoccupato oggi ho un lavoro precario) e il consenso politico derivante da una transitoria pacificazione sociale.
Ma il punto è che questo meccanismo non risolve nulla, sposta semplicemente il problema sotto il tappeto. A meno che la massima aspirazione per un figlio laureando ingegnere non sia un impiego stagionale nella ristorazione.
Il turismo infatti non produce lavoro stabile e servizi al cittadino e non garantisce diritti. Al contrario, alimenta un modello che promuove lo sradicamento (non puoi permetterti la casa in centro e finisci a vivere a Loseto), l’instabilità lavorativa (dipendi o vieni impiegato stagionalmente e quindi il tuo reddito dipende dai flussi), la disintegrazione del tessuto sociale e quindi della stessa comunità politica (quella che qualcuno ama chiamare “cittadinanza attiva”). Un modello che - volente o nolente - orienta le stesse politiche pubbliche degli enti locali. In una zona ad altra attrattività turistica, infatti, non si costruirà un presidio medico o un asilo nido, ma un intervento mirato alla valorizzazione immobiliare.
Con risorse pubbliche limitate, si pianificherà prioritariamente la spesa per rendere quelle zone ancora più attrattive. E così le zone turistiche saranno costantemente manutenute e implementate (viabilità, trasporti, arredo urbano) mentre il resto della città (le periferie dove vivono i residenti) viene abbandonata al proprio destino. Alimentando uno squilibrio intra urbano che, alla lunga, fa nascere di fatto due città diverse all’interno della stessa. Una bella e centrale ma pensata per chi arriva e l’altra, degradata, destinata a chi non ha voglia o possibilità di andare a vivere altrove.
La vera domanda, quindi, non è se il turismo “porti ricchezza” oppure no. Ma a chi.
Se affitti e prezzi degli immobili salgono alle stelle, chi può permettersi di vivere in centro o - addirittura- acquistare intere palazzine da convertire in B&B? Non di certo il cittadino medio. Ed è in questo punto che la narrazione ottimistica crolla definitivamente. Il modello che agli albori appariva come una ghiotta opportunità, si rivela essere uno spietato meccanismo di espulsione, in primis delle fasce popolari (l’anima autentica dei rioni), e di redistribuzione e concentrazione di ricchezza verso l’alto: nelle mani di grandi investitori e speculatori (fondi, grandi catene internazionali ecc). Un modello che non costruisce diritti collettivi, ma offre salvezza temporanea e individuale.
Un’illusione a termine che garantisce di tenere insieme austerità, impoverimento diffuso e gestione del conflitto sociale, consentendo di rinviare sine die il problema strutturale: quale città immaginiamo per il futuro dei nostri figli?
Benché non sembrino tali, quindi, le distorsioni della turistificazione non sono effetti collaterali “gestibili”: sono un punto di equilibrio del sistema. Ed è questo che rende così complicato mettere in discussione la questione sistemicamente.
A Bari, si dice da sempre che San Nicola è amante dei forestieri. Vale ricordarsi però che a portarlo in spalla in processione sono i cittadini.
È da questa dicotomia apparentemente insanabile che inizia Turisti a casa nostra, da una domanda semplice quanto apparentemente insolubile: se una città è pensata e governata in funzione di chi la consuma e non di chi la vive, a chi appartiene per davvero? E alla lunga, chi sarà costretto a pagarne il prezzo?



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