Jane Jacobs, come il buonsenso delle persone comune prevale sugli "esperti"

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Jane Jacobs, come il buonsenso delle persone comune prevale sugli "esperti"



di Salvatore D'Acunto*

L'idea che la società debba essere modellata in maniera coerente con la traiettoria tecnologica ha sempre fatto grande presa sul ceto cognitivo. Purtroppo in genere è accaduto che, affascinati dalle possibilità applicative della tecnologia all'interno del loro specifico campo di attività, i cosiddetti "esperti" non siano stati in grado di valutarne correttamente le implicazioni "sistemiche" e abbiano finito per scoprire, qualche decina di anni dopo, di aver creato autentiche mostruosità.

Ad esempio, a partire dagli anni 30 del secolo scorso, sulla scorta dell'infantile entusiasmo scatenato dall'invenzione dell'automobile, gli urbanisti elaborarono un'idea di città interamente costruita intorno alle prospettive di mobilità offerte dalle quattro ruote. A loro parere, le diverse funzioni necessarie alla riproduzione sociale (abitare, produrre, commerciare) potevano essere rigorosamente separate nello spazio, con l'automobile a fare da "collante" tra i diversi momenti della vita urbana. Da questa idea nacquero i sobborghi residenziali, i centri commerciali e le grandi reti stradali urbane che popolano i film americani.

Per quanto possa sembrare strano, all'interno della schiera degli "esperti", nessuno osò mettere in discussione questo "modello" di città. Le ragioni sono facilmente comprensibili: l'autorità intellettuale dei capiscuola, gli interessi e la capacità di lobbying delle industrie automobilistiche e dei costruttori di infrastrutture viarie, l'interesse della politica per piani di ristrutturazione urbanistica ad elevato grado di "visibilità", ecc. Nessun "esperto" percepì quelli che ai nostri occhi appaiono gli evidenti inconvenienti di quel modello: la "desertificazione" delle strade pedonali, la conseguente perdita di redditività (e successiva rarefazione) dei piccoli e medi esercizi commerciali, la scomparsa delle fruttuose reti di interazioni tra diverse tipologie di attività, la perdita del controllo della comunità sullo spazio pubblico e la conseguente insicurezza del territorio urbano, la dimensione sproporzionata dei consumi energetici, l'eccessivo consumo di suolo.

Ci volle una persona che non apparteneva alla cerchia degli "esperti" per far rilevare gli inconvenienti di quel modello di città. Jane Jacobs, che non era un'urbanista, né un'architetta, e che addirittura non era laureata, ebbe con i suoi scritti un impatto straordinario sul dibattito in tema di pianificazione urbana, contribuendo in maniera significativa ad allontanare l'urbanistica da quella deriva ipermodernista. Se fosse vissuta oggi, l'avrebbero invitata ad un paio di talk show televisivi e l'avrebbero brutalmente ridicolizzata facendo malevola ironia sull'università in cui si era laureata o sul suo h-index su Scopus.
Trovo interessante questa storia perchè mi sembra che oggi ci troviamo davanti ad uno snodo simile a quello degli anni 30 del secolo scorso. Una nuova grande innovazione tecnologica (il digitale), di nuovo un infantile entusiasmo di fronte alle sue possibilità applicative, di nuovo un consenso unanime tra gli esperti circa la necessità che l'organizzazione sociale assecondi passivamente la rivoluzione digitale (piuttosto che la rivoluzione digitale assecondi le esigenze dell'organizzazione sociale).

Sono abbastanza certo che, al pari degli urbanisti ipermodernisti che progettarono la città a misura di automobile, anche i moderni pianificatori che progettano l'organizzazione sociale a misura di smartphone abbiamo scarsissima (se non nulla) consapevolezza dell'effetto sistemico delle innovazioni sociali che si sforzano di propinarci. E sono anche convinto che, come all'epoca le notazioni critiche sulla città ipermodernista non arrivarono dagli "esperti", anche stavolta è impensabile che i tecnici, troppo concentrati sul come arrivare all'obiettivo e per nulla interessati a valutare la "razionalità" dell'obiettivo, possano metterci in guardia dagli "effetti collaterali" di una società che convoglia sulla rete le interazioni tra gli esseri umani e spoglia di "gestualità" la gran parte del flusso comunicativo tra noi e i nostri simili.

Ancora una volta, la lettura più oggettiva della realtà che il digitale va modellando verrà dall'intelligenza collettiva diffusa fuori dalle cerchie degli "esperti", dagli utilizzatori della "società digitale" piuttosto che dai suoi pianificatori. Quindi non fatevi troppe pippe sulla "competenza" dei vostri interlocutori, su dove si sono laureati e qual è il loro h-index di Scopus. Ascoltate la gente comune, perchè vive le città, vive i servizi, vive l'organizzazione sociale, e sa molto meglio degli esperti se funzionano bene o no.


*Post Facebook del 12 settembre 2023

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