Le origini del piano Marshall e lo sviluppo dell’imperialismo statunitense
di Alessandra Ciattini - Futura Società
Il libro di Annie Lacroix Riz ci aiuta a comprendere a fondo le varie tappe dell’imperialismo statunitense, un momento rilevante del quale è stato certamente il mitico piano Marshall, ma occorre prendere in considerazione anche come descrive la sua espansione a tenaglia verso l’Atlantico e verso il Pacifico, che prende di mira da due lati il grande spazio euroasiatico.
Les origines du Plan Marshall. Le mythe de l’aide americaine (Colin 2023) è il titolo di un libro della storica francese Annie Lacroix-Riz, la cui pubblicazione risale al 2023 e che, credo, come i suoi precedenti non sarà pubblicato in italiano. La signora Lacroix-Riz appartiene al Polo della Rinascita comunista e molte sue opere, fondate sempre su meticolose ricerche di archivio, hanno suscitato infinite polemiche, tanto da farle meritare il titolo offensivo di complottista nel clima contemporaneo di forte limitazione della libertà di espressione. Giustamente, l’emerita studiosa ha osservato che uno strumento della censura è rappresentato dalla non pubblicazione di libri che smentiscono la narrazione ufficiale, e che introducono una nuova lettura della nostra storia, distruttiva dei miti tradizionali. Del resto, ciò è confermato dalla scoperta che addirittura la Cia ha sostenuto importanti intellettuali chiaramente antimarxisti in un’estenuante battaglia ideologica, oltre al fatto che il maccartismo è stato una costante del clima culturale e politico degli Usa, oggi addirittura inasprito.
Dobbiamo ringraziare la rivista «Marxismo oggi» per aver già pubblicato una recensione del libro intitolata, Americanizzare la Francia. Il Piano Marshall riconsiderato, di Jacques Pauwels, ripresa da Counterpounch, nella quale si delinea il quadro in cui si colloca il piano Marshall, non interpretandolo “come un evento specifico e singolare associato al secondo dopoguerra”, secondo la vulgata tradizionale. L’autore lo inserisce piuttosto in una prospettiva di longue durée “come parte di uno sviluppo storico di lungo termine”, mirante all’espansione mondiale dell’industria e della finanza americana”. In poche parole, nella storia dell’emergere e dell’estendersi dell’imperialismo dello zio Sam, che sconfigge quello britannico dominante sino agli anni 1880-1890.
Nella ricostruzione proposta di questi processi la recensione sottolinea che essi hanno preso le mosse dalla fine del diciannovesimo secolo ed esattamente quando gli Usa si appropriarono delle Hawaii nel 1893 e, successivamente, di alcune colonie spagnole, tra cui Cuba, senza interpellare gli indipendentisti cubani che avevano combattuto per la libertà contro l’impero iberico. In questo modo cominciò a costruirsi e fortificarsi l’imperialismo Usa, divenuto, a partire del 1890, il maggiore produttore industriale mondiale, garantendosi la penetrazione in Paesi e mercati in tutte le regioni del mondo.
Grazie a queste mosse, grazie al loro enorme mercato interno e grazie allo sviluppo tecnologico del loro apparato industriale, gli Usa si trovarono a competere con le grandi potenze europee che, però, avevano il vantaggio di possedere ampi imperi coloniali da cui, fino a un certo momento, erano stati esclusi. Se nella prima fase dell’industrializzazione gli Usa avevano optato per il protezionismo, dalla fine dell’800 la loro preferenza andò alla politica delle “porte aperte”, annunciata nel 1899 dall’allora segretario di Stato, John Hay, che rompeva i legami privilegiati tra le grandi potenze e le loro colonie e costringeva le prime a commerciare non più tra loro, ma con il colosso al di là dell’Atlantico. Politica contraddetta dalla dottrina Monroe del 1823 che riservava tutto il continente americano agli Usa ma, si sa, tutti i mezzi sono buoni per raggiungere il fine che si prefigge e le contraddizioni le individuano solo i logici di mestiere.
La recensione su menzionata è dedicata soprattutto al processo mediante il quale, dopo la Seconda Guerra mondiale, la Francia venne “americanizzata”, nel senso di subordinata economicamente, politicamente e culturalmente agli Usa (si pensi alla diffusione del cinema di Hollywood che offuscava la bella produzione francese), i quali puntarono strategicamente sulla Germania, che fu praticamente esentata dal pagare le riparazioni soprattutto all’Urss, in quanto pilastro della loro egemonia nel vecchio continente sin dalla fine della Prima Guerra mondiale.
L’altro aspetto importante trattato dal libro della Lacroix-Riz, e già accennato, è rappresentato dallo sviluppo dell’imperialismo Usa il quale, oltre che all’Atlantico, guardava anche al Pacifico, dove finisce per incontrare l’impero zarista il quale si era esteso nell’Asia centrale e nord-orientale, fino a fondare colonie sulla costa occidentale del continente americano (Alaska e Fort Ross). La storia di questo storico incontro mostra che le origini del conflitto tra gli Stati Uniti e i due Stati, che hanno occupato gran parte dello spazio euro-asiatico, sono certo legate alla diversità delle organizzazioni politico-economiche, ossia al contrasto tra l’economia pianificata sovietica e il liberalismo economico-politico, ma anche alla contesa per l’egemonia in quella regione.
Come ci spiega la storica francese, questa è la tesi, dimostrata dalle ricerche d’archivio, dello studioso statunitense William Appleman Williams, American-Russian Relations, 1781-1947 (1952), per il quale i governi Usa hanno cominciato a essere ostili verso la Russia non a causa dei pogrom contro gli ebrei, ma perché questa osò sconfinare nella Cina nord-orientale (Manciuria) a partire dal 1890. Non gradirono nemmeno la costruzione della Transiberiana avvenuta nello stesso periodo e la concessione di un porto non ghiacciato tutto l’anno da parte della Cina (Port Arthur, oggi Lüshunkou).
Eventi che, come è noto, generarono la guerra russo-giapponese (1904-1905), che si concluse con un trattato siglato sotto gli auspici del presidente Theodor Roosevelt, allarmato anche dall’espansionismo dell’impero nipponico. Ovviamente, la vittoria del bolscevismo fornì nuove giustificazioni alla russofobia e, durante il mandato di W. Wilson, condusse al sostegno dei Bianchi durante la Guerra civile tramite due spedizioni, una diretta verso l’Artico, l’altra verso la Siberia, a dimostrazione di quali fossero i veri interessi Usa. D’altra parte, sin dalla vittoria della Rivoluzione cominciarono a prendere corpo le numerosissime predizioni della dissoluzione dell’Urss, passando da L. von Mises a Z. Brzezinski, basate sulla data per scontata irrazionalità del collettivismo e sull’auspicio mal celato che ciò avvenisse.
Per queste ragioni il riconoscimento dell’Urss avvenne solo nel 1933 e, sino al dicembre del 1941 (battaglia di Mosca), il governo Usa e quello britannico erano convinti che i sovietici sarebbero stati sconfitti dai nazisti. Esistono documenti ufficiali al riguardo. Nel 1934 l’Urss fu ammessa nella Lega delle Nazioni, da cui fu espulsa nel 1939 per l’invasione della Finlandia fatta a scopo difensivo, mentre la trasformazione della Groenlandia in un protettorato Usa, nell’aprile del 1941, non suscitò nessuna opposizione.
Come tutti i sistemi industriali nascenti, nella seconda metà dell’800 gli Usa si sono difesi con il protezionismo, ma avevano bisogno di controllare le materie prime, che tuttavia – come si è detto – a causa del colonialismo stavano nelle mani delle altre potenze, cui intendevano strapparle, affermando la loro supremazia. I britannici controllavano allora un terzo del commercio mondiale. Dal 1899 (“le porte aperte”) al 1914, gli Usa avanzarono le loro pretese sulla Cina, che era stata costretta ad aprirsi agli interventi stranieri, mettendo in discussione le zone d’influenza stabilite dalle altre potenze. Questa politica è già evidente nei famosi “democratici” 14 punti del presidente Wilson (gennaio 1918), nei quali si esige la libertà di commercio, di navigazione, la soppressione di tutte le barriere coloniali, il rispetto degli interessi dei popoli sottomessi al dominio coloniale, il principio dell’autodeterminazione, etc. Politica che getta le basi di un mercato mondiale, cui dovevano essere distribuite anche le merci Usa per ovviare alla sovrapproduzione.
Secondo A. Lacroix Riz, la classe dirigente statunitense rivolge il suo interesse alla Germania perché gli imperialismi di questi due Paesi si assomigliano per la grande concentrazione del capitale e perché stabiliscono strette relazioni in tutti i settori industriali, relazioni continuate anche durante la Seconda Guerra mondiale. Ciò spiega anche l’incertezza degli Usa nel partecipare alla Guerra dei 30 anni europea e non solo perché sono dotati di scarse forze militari, fino ad allora necessarie solo alla repressione interna e agli interventi in America Latina. Tuttavia, ben presto, con Guglielmo II la Germania si trasforma e punta a consolidarsi come potenza dominante, mettendo in pericolo l’agognato espansionismo degli Usa; nello stesso tempo, per sostenere la loro forza politica, la Francia e il Regno Unito chiedono e ottengono grandiosi prestiti dalle banche oltre atlantico e la paura, che perdessero la Prima Guerra mondiale e non fossero in grado di ripagarli, spinge i primi, su impulso dei banchieri, a scendere in campo.
Nonostante l’eclatante aggressività germanica, i capitali finanziari britannici e francesi hanno cercato fino all’ultimo di essere accomodanti con il nazismo e di evitare la Seconda Guerra mondiale, giacché consideravano l’Urss un pericolo maggiore. D’altra parte, l’atteggiamento ambiguo deli Alleati, espressione di un’arrogante classe ormai transnazionale, verso l’Urss traspare da numerosi documenti, anche se non entra a far parte della vulgata. Per esempio, chi sa che nel 1944 Allen Dulles, capo dei servizi segreti Usa in Svizzera (Oss), intraprese negoziati segreti con il generale delle SS Karl Wolff per stipulare una pace separata, ai danni dell’Urss, con l’esercito nazista presente nell’Italia del Nord? Si tratta dell’Operazione Sunrise e ne parla persino Wikipedia. Chi conosce, poi, l’implicazione dei due fratelli Dulles, notissimi avvocati di New York, nell’ipotizzato trasferimento delle immense ricchezze rubate dai nazisti ai Paesi occupati all’estero, contrattato da Heinrich Himmler, capo della Gestapo e delle SS, quando ormai la guerra era agli sgoccioli?
I fratelli Dulles – sostiene Lacroix Riz – sono stati i pilastri della politica statunitense appoggiata sia dal partito repubblicano che da quello democratico: hanno partecipato alla Conferenza di Parigi nel 1919, hanno esonerato la Germania dal pagamento delle riparazioni, destinate soprattutto all’Urss, perché sarebbe stata meta di massicci investimenti e loro stessi erano cointeressati al buon andamento di questi affari.
Questa rapida ricostruzione storica ha lo scopo di ricordare un documento della celebre Rand Corporation del 2019, reso noto in Italia dal censurato e filoputiniano Manlio Dinucci, che ci fa comprendere la continuità della politica imperialistica statunitense prima verso l’Urss e poi verso la Russia, ossia la loro politica attuale, ora incerta e traballante date la conflittualità interna e l’incompetenza grottesca del governo Trump. Non mi dilungherò molto su questo documento, largamente descritto in un articolo dell’«Indipendente», cui rimando. Quivi si definisce questa corporazione un pensatoio che ha collaborato con il governo statunitense per individuare misure atte favorire il crollo dello Stato sovietico.
Il documento prodotto dalla Rand Corporation nel 2019, Overextending and Unbalancing Russia, mostra chiaramente quale fosse il piano da attuare nei confronti della Russia per portarla al disfacimento. Ne elenco alcuni punti che si sono puntualmente realizzati, benché non abbiano avuto sempre gli esiti desiderati. Il primo è l’aumento della produzione dell’energia statunitense, che ha alti costi per l’uso del fracking; le sanzioni che, però, non sono state rispettate da tutti i Paesi, lo sganciamento dell’Europa dalle relazioni di scambio, soprattutto energetico, con la Russia, che ha generato l’attuale crisi del nostro continente; si è anche previsto di sollecitare immigrazione di personale qualificato russo senza successo.
Dal punto di vista geopolitico si riteneva indispensabile armare l’Ucraina, dare sostegno ai ribelli siriani, incitare cambiamenti in Bielorussia, intervenire in Transnistria. Come sappiamo, ora Trump sembrerebbe sganciarsi dalla guerra contro la Russia ma gli apparati Usa non sembrano condividere la stessa opinione.
Sulle armi di distruzione di massa, oltre al riferimento al posizionamento dei bombardieri a corto raggio ai confini della Russia, il documento recita: “Il dispiegamento di ulteriori armi nucleari tattiche in località europee e asiatiche potrebbe accrescere l’ansia della Russia al punto da aumentare significativamente gli investimenti nelle sue difese aeree”. Tuttavia, non si nega che ciò sarebbe altamente pericoloso.
Come se tutto ciò non bastasse, gli esperti della Rand suggeriscono l’aumento della presenza delle forze navali Usa nelle regioni prospicienti alla Russia, al contempo si propone l’aumento delle forze di terra Usa e Nato in Europa, lo sviluppo di radar, droni, satelliti, missili, guerra elettronica etc.
Tutto ciò – scrive M. Manfrin, autore dell’articolo – deve essere ed è stato accompagnato da una feroce campagna antirussa volta anche minare la fiducia del popolo nei loro governanti, incoraggiando possibili rivolte. A distanza di tre anni (2019-2022), possiamo vedere quante delle cose suggerite dallo studio del think tank statunitense si sono effettivamente realizzate.
L’Ucraina è stata rifornita di armi a partire dal 2014 ma, successivamente, le forniture si sono incrementate di miliardi di dollari. L’auspicata pace non si è raggiunta e, probabilmente, alcuni settori delle élite Usa intendono mantenere una guerra di bassa intensità, che crea problemi a Mosca. Quanto alla Bielorussia, vi è stato effettivamente un intervento per rovesciare il governo “non democratico” di quel Paese, alleato della Russia, nel 2020-2021. L’articolo citato aggiunge, poi, l’aumento delle attività militari della Nato in Europa a tutti i livelli: terra, aria, mare, cibernetico. Esercitazioni importanti hanno coinvolto soprattutto i Paesi del Nord e dell’Est d’Europa e sono ripetute ogni anno come Trident Juncture e Cold Response.
Infine, in Russia si è cercato di costruire una finta opposizione del tutto inconsistente e non radicata nel Paese montando la figura “martire” di Navanly, senza mai citare l’esistenza di un forte partito comunista, che sostiene l’operazione militare speciale, pur non identificandosi con tutta la politica di Putin.
A questo punto sorge spontanea una domanda: vuole la Russia invadere l’Europa o gli euroatlantici desiderano spasmodicamente distruggere il grande Paese euroasiatico, sperando così di risorgere dal loro evidente declino?