Non ingenua, non impreparata. Perché la nostra classe politica è proprio stupida?

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Non ingenua, non impreparata. Perché la nostra classe politica è proprio stupida?

 

di Oscar Monaco


Riprendo il dibattito lanciato da Clara Statello sul canale YT Polivox e provo a dire la mia.


La classe politica italiana è stupida. Non ingenua, non impreparata: proprio stupida. Non è un giudizio morale e la stupidità non è un incidente, è una funzione. Alcune società hanno bisogno di dirigenti intelligenti; altre, non avendone più alcun bisogno, finiscono per selezionare dirigenti stupidi in modo del tutto naturale.

Capisco benissimo, e condivido, la tesi secondo cui una parte cruciale della mediocrità della nostra classe dirigente deriva dalla perdita di sovranità nazionale e dall’inserimento dell’Italia come periferia obbediente dell’impero americano. È vero: un Paese che non decide nulla non ha bisogno di decisori. Ma questo, da solo, non spiega tutto. Se fosse solo un problema di subordinazione, allora tutti i Paesi che vivono nella stessa condizione, o peggiore, avrebbero classi dirigenti altrettanto grottesche. E invece no.

Il caso della Germania è illuminante: in politica estera Berlino è probabilmente vincolata almeno quanto Roma, se non di più. Eppure negli ultimi decenni ha espresso dirigenti tutt’altro che stupidi, da Merkel in giù, indipendentemente dal colore politico. Questo perché ha mantenuto una struttura produttiva complessa, che costringe la politica a pensare, capire, negoziare, pianificare. Quando hai intere filiere industriali da difendere, la politica non può essere un dopolavoro per influencer. Naturalmente, anche la Germania è ormai ben avviata sulla strada dell’italianizzazione, con la deindustrializzazione accelerata, l’erosione delle sue certezze economiche, la crescente dipendenza energetica e militare. Ma per decenni è stata la dimostrazione vivente del fatto che la subordinazione internazionale, da sola, non genera stupidità; è la perdita della base materiale che lo fa.

Ed è qui che entra in gioco il cuore del problema italiano: lo smantellamento contemporaneo dello Stato e dei corpi intermedi. I partiti di massa e i sindacati di massa erano di massa perché lo era la struttura produttiva che li teneva in vita. E quegli apparati non servivano solo a fare politica, servivano a formare e selezionare la classe dirigente. Creavano anticorpi, mettevano alla prova, costringevano a studiare, a capire il mondo del lavoro, a formarsi dentro un conflitto reale. Non era romanticismo: era un meccanismo di riproduzione della competenza politica. Quando la fabbrica crolla, il partito muore; quando il partito muore, la selezione si degrada; quando la selezione si degrada, la stupidità dilaga.

Con la scomparsa di questi meccanismi non è solo sparita la formazione politica: è sparita la possibilità stessa che qualcuno proveniente dalle classi subalterne potesse fare un percorso di ascesa. Oggi in politica non si sale “dal basso”: si entra dall’alto, attraverso scorciatoie familiari, disponibilità economiche, reti personali. L’attuale classe politica è infatti un prodotto perfettamente coerente del proprio tempo: è composta in larga parte dai rami cadetti di una borghesia parassitaria che si è resa conto che investire nella carriera politica dei propri figli è più redditizio che investirli nell’impresa. Paghi la campagna, paghi i consulenti, paghi due anni di “visibilità”, e ti costruisci un erede con ruolo istituzionale, stipendio pubblico e immunità mediatica. Il renzismo è stato il laboratorio estetico di questa degenerazione, Calenda la sua caricatura manageriale.

In un sistema così, la politica non rappresenta più un conflitto sociale, non articola più visioni, non governa più processi. È diventata un settore secondario dell’economia dei servizi, un luogo dove si gestisce il consenso e la sua riproduzione, non il potere. E quando la politica non governa più nulla, non deve più capire nulla. Da qui la stupidità: non è un difetto, è la conseguenza logica di un mondo in cui non c’è più niente da decidere , solo da litigare su X.

La perdita di sovranità, dunque, spiega il perché la politica italiana non deve più pensare globalmente. Ma è la distruzione della struttura produttiva e dei suoi corpi intermedi a spiegare perché non sa più pensare nemmeno localmente. Ed è la chiusura del canale di ascesa sociale che rende la classe dirigente una casta autoreferenziale, un cerchio magico di eredi, amicizie, pacche sulle spalle, investimenti privati e totale disconnessione dalla realtà materiale del Paese.

Mentre noi ci aggiriamo in un sistema politico che non sa più decidere né capire, una parte del mondo sta costruendo l’esatto contrario: classi dirigenti che, nel bene e nel male, devono pensare. E pensano.

Russia, Cina, India, potenze diversissime tra loro per ideologia, assetto istituzionale e cultura politica, hanno però un punto in comune: esprimono dirigenti che sanno leggere il mondo perché sono messi nelle condizioni storiche di doverlo leggere. Non è questione di simpatia o antipatia verso i loro governi; è un dato sociologico. Sono Stati che fanno ancora i conti con la propria struttura produttiva, con l’energia, con l’espansione tecnologica, con il peso demografico, con la competizione globale. Dirigono imperi continentali, economie gigantesche, società attraversate da tensioni reali. Non possono permettersi la stupidità: sarebbero spazzati via.

Il fatto che sistemi politici così diversi, la meritocrazia tecnocratica cinese, il nazionalismo statal-corporativo russo, il capitalismo caotico e religioso dell’India, producano élite che, ciascuna a suo modo, ragiona strategicamente, dimostra che la qualità della classe dirigente non dipende dal modello politico in astratto. Dipende dalla profondità del compito storico che hai davanti. Se devi governare un impero energetico, un colosso industriale o un subcontinente umano, devi necessariamente sviluppare una classe dirigente capace. Se devi amministrare un Paese ridotto a showroom turistico, call center europeizzato e appendice militare di qualcun altro, la stupidità diventa non solo possibile, ma addirittura probabile.

Il paradosso è tutto qui: mentre una parte del mondo vive una fase di riorganizzazione storica che obbliga i dirigenti a pensare in grande, l’Italia vive una fase in cui pensare in grande non serve più a nulla. E quando non serve più a nulla, non succede più.

Finché non si ricostruirà una base materiale reale, lavoro, industria, complessità, e con essa corpi intermedi capaci di selezionare classe dirigente dal conflitto sociale, nulla cambierà. Possiamo sostituire mille volti, mille partiti, mille leader: la stupidità resterà lì, identica a sé stessa, perché non appartiene alla psicologia dei politici, ma alla funzione che il sistema affida loro.

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