L'ambiguità dell'intervento francese in Siria contro lo Stato Islamico

L'ambiguità dell'intervento francese in Siria contro lo Stato Islamico

La coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha bombardato quasi 7.000 volte (4444 raid in Iraq e 2558 in Siria)

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di Mara Carro

Domenica 27 settembre la Francia ha compiuto i primi attacchi aerei contro lo Stato Islamico in Siria. Gli attacchi sono stati compiuti sulla base delle informazioni raccolte da alcuni voli di ricognizione sul paese, annunciati il 7 settembre dal presidente francese e dopo un dibattito, senza voto, tenuto al Parlamento francese il 15 settembre. Uno degli obiettivi è stato un campo di addestramento dell’ISIS a Deir ez-Zor, nell’est della Siria.  
 
Le operazioni in Siria sono state annunciate all’arrivo di Hollande a New York per partecipare ai lavori dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove la guerra siriana è ancora uno dei temi principali dopo quattro anni, oltre 300mila vittime, sette milioni di sfollati e migliaia di rifugiati che partono per l’Europa alla ricerca di un futuro migliore
 
Il primo ministro francese, Manuel Valls, ha precisato che la Francia ha colpito “i santuari dell’Isis là dove si sono formati coloro che attaccano la Francia e che l’azione di Parigi proseguirà “finché sarà necessario. Colpiamo Daesh (ISIS) poiché questa organizzazione terroristica prepara gli attentati contro la Francia da questi santuari. Operiamo per legittima difesa”.  
 
Il maggiore coinvolgimento francese nella regione sembra essere motivato da preoccupazioni di sicurezza nazionale e dalla rivelazione che Ayoub El Khazzani, il sospettato principale dell’attacco fallito contro i passeggeri del treno Thalys fra Parigi ed Amsterdam del 21 agosto, fosse probabilmente legato all’ISIS.
 
In realtà l’azione francese – che ha ben poche possibilità di incidere in modo significativo sull'equilibrio militare e altro non è che il tentativo di rivendicare un ruolo nella soluzione politica che è in fase di elaborazione - non fa altro che rinnovare gli interrogativi sulla legittimità di un’azione militare in Siria non autorizzata da nessuno e ripropone la discussione sul controverso concetto di “difesa preventiva”, fondamento della “dottrina Bush” che ha portato all’intervento anglo-americano contro l’Iraq del 2003. A differenza della legittima difesa, per la difesa preventiva la possibilità di ricorrere alla forza non è affatto subordinata al verificarsi di un attacco.
 
Non c'è un quadro internazionale per l'intervento in Siria. Nessuna risoluzione delle Nazioni Unite consente di intervenire con la forza (in base al capitolo VII). E fino a nuovo avviso, a differenza dell'Iraq, il governo "legale" non ha richiesto un intervento internazionale. L’azione francese in Siria dovrebbe assolutamente essere parte di un quadro giuridico incontestabile se la Francia vuole mantenere legittimità in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E presentarsi con un obiettivo chiaro, senza le ambiguità attuali. 
 
La Francia, ex potenza coloniale della regione, è stata una delle potenze occidentali più fortemente schierata sul dossier Siria sin dall'inizio della crisi. Due anni fa, Parigi era pronta ad un'azione militare contro Assad, incolpando Damasco per l’uso di armi chimiche contro il popolo siriano.
 
La Francia è il secondo paese europeo a bombardare l’ISIS in Siria dopo il Regno Unito. Finora né la Francia né la Gran Bretagna avevano accettato di compiere azioni militari in Siria contro i terroristi islamici per non aiutare, anche solo indirettamente, l’esercito di Assad  
 
Dal lancio dell'operazione "Chammal", il 19 settembre 2014, i dodici aerei del dispositivo francese di stanza ad Abu Dhabi e in Giordania hanno condotto 10.000 ore di volo, 1150 missioni aeree e più di 200 attacchi contro obiettivi dello Stato Islamico in Iraq. Tuttavia nel paese, dalla perdita di Tikrit nel mese di marzo, l’ISIS non ha subito alcuna sconfitta importante. Ha invece ha preso il controllo di Ramadi, mantenendo Falluja e Mosul, e ha continuato a lottare per il controllo della raffineria Baiji. 
 
Nel complesso, la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha bombardato quasi 7.000 volte (4444 raid in Iraq e 2558 in Siria), secondo i dati del comando americano. Circa l'80% di questi attacchi sono stati effettuati da aerei USA.
 
Finora, la campagna aerea della coalizione si è rivelata inadeguata. In Iraq, nessuna grande città è stata rilevata dalle forze filo-governative. In Siria, i jihadisti hanno conquistato Palmyra a maggio e hanno recentemente compiuto progressi nella regione di Aleppo.
 
A ciò si aggiunga l’insuccesso del programma americano di addestramento dei ribelli siriani iniziato lo scorso febbraio in alcune basi in Turchia. Il generale Allen ammesso che i siriani addestrati dagli Stati Uniti che stavano combattendo in Siria erano appena quattro o cinque. Il CENTCOM ha, invece, confermato che un gruppo di ribelli siriani addestrati dagli Stati Uniti e appartenenti alle Nuove Forze Siriane (NSF) hanno consegnato ad al Qaida circa il 25 per cento del loro equipaggiamento – soprattutto pick-up e munizioni – in cambio di un passaggio sicuro attraverso un’area controllata dai miliziani di al Nusra. 
 
L’azione militare contro lo Stato islamico è solo un aspetto della lotta contro questa organizzazione. Senza un intervento sulle sue finanze (compresa la rivendita di petrolio in Turchia), sul sostegno che riceve (finanziario, militare, ...) dal Golfo, senza la creazione di uno stato iracheno forte e pluralista, l’azione militare appare sterile. A questo si aggiunga il gioco ambiguo degli Stati della regione. Arabia Saudita, Qatar, Turchia e Iran, impegnati in Siria e Iraq per ragioni di prestigio, influenza regionale e politica interna, come nel caso di Ankara più interessata a combattere il movimento curdo che l’ISIS. 
 
Infine, la stabilizzazione della Siria non passa dalla sola sconfitta dell’ISIS. Ma richiede negoziati che coinvolgono tutti i paesi, in particolare l'Iran e la Russia, ma anche l'Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia. E la conservazione in una certa misura del regime di Bashar al-Assad (Bashar Assad in sé non è necessario). 

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