Il nostro Ottobre

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di Andrea Catone - Marx XXI


Commemorare l’Ottobre sovietico da tempo non è più di moda né politically correct per la “sinistra”. Si preferisce piuttosto tributare onori ad altri “ottobre”: la “caduta del muro di Berlino” nel 1989 o l’insurrezione anticomunista di Budapest nel 1956, salutata dal presidente della repubblica Napolitano e dal presidente della camera Bertinotti – l’uno ex comunista, l’altro leader di un partito che si richiama alla rifondazione comunista - come la vera rivoluzione anticipatrice delle “rivoluzioni” del 1989-91 che segnarono la fine delle democrazie popolari e dell’URSS, di quel lungo ciclo storico che percorre il “secolo breve”, inaugurato appunto dalla rivoluzione d’ottobre. Il cerchio sembra chiudersi. Il giudizio della storia – si dice – è stato indiscutibilmente pronunciato: quella rivoluzione (ma qualcuno tra i pentiti del comunismo ha sposato persino la tesi del putsch, del colpo di stato) ha prodotto indicibili orrori ed è finita in un cumulo di macerie. Da qui una condanna senza appello, la rimozione di quella storia, la sua cancellazione dal calendario degli anniversari che occorre ricordare alle nuove generazioni per la loro formazione comunista. E chi pretende di richiamarsi alla storia delle rivoluzioni comuniste del ‘900 aperta dall’Ottobre sovietico viene etichettato di nostalgico, irrimediabilmente incapace di leggere le sfide del tempo presente.


Questa è al momento la tendenza prevalente – salvo meritorie eccezioni – nella cultura politica della “sinistra”, degli eredi di quel che fu il partito comunista italiano e della “nuova sinistra” sessantottina e post-sessantottina, in Italia e in molti paesi del mondo. Questa situazione è ben presente ai comunisti che resistono, che non accettano la cancellazione di una storia, di un progetto di società, di un’identità che ha segnato profondamente la storia del XX secolo e che ora si vuole condannare al silenzio e all’oblio.


Di contro a questa tendenza maggioritaria e devastante, che tutto sembra travolgere nella sua furia iconoclasta, da cui non si salvano non solo i bolscevichi – va da sé – ma neppure Marx, anzi, neppure Rousseau e i giacobini francesi e chiunque abbia odore di rivoluzionario (l’unica “rivoluzione” oggi ben accetta è la controrivoluzione!), la prima reazione immediata e appassionata è quella di sollevare alta al vento la propria rossa bandiera e gridare con quanta voce si ha in corpo:  viva Lenin! Viva la rivoluzione d’Ottobre, che ha aperto la strada alla liberazione dei popoli dal giogo coloniale e imperialistico! Viva il partito bolscevico che ha saputo – unico tra i partiti socialisti della II Internazionale – dire guerra alla guerra e rovesciare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria! Viva l’Internazionale comunista, che ha formato una generazione di comunisti capaci di lottare nella clandestinità contro il fascismo e di guidare le resistenze in Europa! Viva l’Unione sovietica, che con l’armata rossa e la resistenza dei suoi popoli è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo! viva l’URSS che nel secondo dopoguerra ha saputo fronteggiare l’imperialismo americano e ha favorito, con la sua sola esistenza la resistenza vietnamita, la liberazione di Angola e Mozambico, le lotte anticoloniali, la rivoluzione cubana e le lotte popolari in America Latina! Viva la rivoluzione che, prima nella storia, ha provato a costruire una società senza privilegi di casta, senza proprietà capitalistica, fondata sull’idea di uno sviluppo razionale ed equilibrato dell’economia attraverso il piano! 


E questo diciamo e ricordiamo a chi vuole cancellare dalla storia il comunismo del ‘900. Ma non basta, e anzi, se rimane soltanto un grido esacerbato nel deserto contro l’infamia e la calunnia, può essere anche una reazione impotente, l’indice di una debolezza strategica. La commemorazione fine a se stessa non ha mai interessato i comunisti. Il giovane Gramsci in uno dei suoi articoli appassionati accusava il partito socialista di aver ridotto Marx ad un’icona, un santo al capezzale, da rispolverare per le occasioni, le commemorazioni, le ricorrenze, per poi lasciarlo marcire in soffitta per tutto il resto dell’anno, evitando scrupolosamente di trasformare in azione politica vivente il suo pensiero critico. 


Ricordare, difendere, approfondire la memoria storica è utile e necessario nella misura in cui riusciamo a tradurre questa memoria in azione culturale e politica, in consolidamento e accumulazione delle forze comuniste, in formazione comunista per le nuove generazioni. Non siamo qui per agitare bandiere o icone, non siamo i nostalgici (anche se questa “nostalgia” comunista è sentimento che merita rispetto) di un paradiso perduto, di illusioni non realizzate, di un nobile sogno, di un’utopia irrealizzabile. Se il 7 novembre 1917 è ancora una data che riteniamo di dover ricordare e onorare non è solo per un doveroso omaggio agli eroici furori di un tempo che fu, non intendiamo essere gli avvocati d’ufficio della rivoluzione. L’Ottobre sovietico non ne ha bisogno né di questo hanno bisogno i comunisti oggi. 


Di altro c’è urgente bisogno. In primo luogo di riappropriarsi della propria storia comunista, contro ogni demonizzazione, ma liberi anche da ogni mitizzazione. Il comunismo nasce come critica – critica teorica dell’economia politica borghese nel “Capitale” di Marx e critica come prassi (e anche l’agire teorico è un’azione pratica nella misura in cui influisce sulla trasformazione dei rapporti sociali), pratica politica per l’abolizione dello stato di cose presente, per il rovesciamento dei rapporti di proprietà borghese nella proprietà comunista. Occorre sapersi riappropriare criticamente della propria storia comunista del ‘900. Sono gli altri, la parte borghese e anticomunista a scrivere oggi questa storia – in parte molto rozzamente, in parte con mezzi più raffinati che fanno leva anche sulle centinaia di migliaia e milioni di documenti di storia sovietica e dei paesi che furono democrazie popolari resi oggi accessibili agli studiosi. Su questo terreno noi oggi siamo rimasti indietro. Chiunque abbia provato a scrivere di storia sa che è attraverso la selezione che lo studioso opera della documentazione d’archivio che si può delineare un quadro in un modo o nell’altro. I documenti – verificatane filologicamente l’autenticità – riportano i fatti, ma all’interno di una massa che come nel caso russo è davvero straordinaria (6 milioni di documenti all’archivio centrale russo) si possono selezionare alcuni elementi e ometterne altri. Così la storia dell’URSS può anche essere ridotta a quella di un immenso Gulag e la carestia in Ucraina negli anni trenta può essere attribuita a un qualche diabolico piano staliniano di eliminazione fisica di una nazione. È tempo di commemorare l’Ottobre dotando i comunisti degli strumenti adeguati per rispondere all’azione denigratoria e alla demolizione dell’esperienza storica del comunismo del ‘900.  


Ma non si tratta solo di risposta alla diffamazione storica. Il lavoro che i comunisti possono e debbono intraprendere oggi nella conoscenza della storia delle rivoluzioni non può essere principalmente “reattivo”, non deve nascere cioè solo come risposta agli attacchi. Lo studio appassionato e critico della nostra storia deve saper giocare d’anticipo. I comunisti devono concepirsi e organizzarsi come soggetto autonomo, che assume l’iniziativa anche sul terreno insidioso e fondamentale della lotta culturale, senza attendere che siano altri a scegliere e determinare il terreno sul quale misurarsi. 


La storia – in tutti i suoi aspetti - delle rivoluzioni comuniste del ‘900 va studiata e approfondita dotandosi di tutti gli strumenti adeguati per un lavoro critico collettivo non solo per battere il “revisionismo storico”, ma perché in essa vi è un bagaglio di esperienze fondamentali per la lotta politica di oggi, per le sue prospettive. Per citarne solo un aspetto: il terreno della costruzione di una nuova organizzazione economica fondata su una proprietà prevalentemente pubblica, statale, e in diversi casi sociale. Quell’organizzazione economica, tanto ammirata anche dai paesi in via di sviluppo poiché riuscì a dotare l’URSS in pochi anni di un grande apparato industriale, portandola a competere in alcuni campi con i più avanzati paesi capitalistici, non riuscì a passare alla fase superiore di un’economia intensiva ad alta produttività. E ciò fu certamente una delle cause che condussero il paese dell’Ottobre all’ingloriosa fine del 1991. Ma intanto i bolscevichi e i comunisti delle democrazie popolari la questione della organizzazione e gestione di un’economia socializzata la posero e con essa si misurarono, conseguendo alcuni successi accanto a pesanti sconfitte. Questo grande patrimonio di esperienze, di teoria dell’economia politica del socialismo, di pratiche, non può essere gettato nel dimenticatoio da chi si propone il fine del superamento della proprietà borghese in proprietà socialista. Solo chi ha abbracciato un nuovo bernsteinismo e ritiene che il movimento sia tutto e il fine nulla - e che nulla si può e si deve dire circa una società socialista, ma aspettare che qualcosa sgorghi da sé, dalle contraddizioni della società – può eludere il riferimento a questa esperienza. Ma le contraddizioni del capitalismo, come Walter Benjamin aveva ben intuito, non portano inevitabilmente al socialismo, e senza l’azione cosciente e organizzata, diretta a un fine, possono portare alla distruzione della civiltà: socialismo o barbarie… 


Il frutto peggiore dell’ideologia della fine delle ideologie e della rimozione della storia comunista è il totale oscuramento delle prospettive della trasformazione futura della società. La tattica, in un presente senza storia, senza passato e senza futuro, è diventata il pane quotidiano di buona parte del personale politico ex comunista o pseudocomunista. A ben guardare, non è altro che apologia del capitalismo presente. La coltre di oblio che copre la storia aperta con l’Ottobre mira anche – e soprattutto - a questo: non solo a non fare i conti con la storia comunista, ma ad eludere soprattutto la questione della prospettiva comunista. Il ceto politico nichilista ex comunista o pseudocomuista non è in grado e non vuole andare al di là della tattica quotidiana.


Studiare l’Ottobre - e ricordarlo oggi, come si è chiarito, non intende agitare bandiere ma costruire scienza comunista per la costruzione di una società socialista - ci consente invece di pensare ed agire strategicamente, senza elevare la tattica a fine in sé.


Pensare in termini strategici e non solo reattivi. Questo oggi ci manca, di questo abbiamo bisogno, a questo ci induce oggi la commemorazione di quel grande spartiacque della storia che fu il 1917 russo. La grandezza dei nostri grandi maestri – di Lenin in primo luogo – è stata quella di aver saputo collocare ogni scelta tattica all’interno di una grande prospettiva, ponendo in primo piano la questione strategica. Pensare strategicamente significa costruire le condizioni perché siano i comunisti a determinare il terreno su cui porre le grandi questioni. Reagire, rispondere agli attacchi e alle provocazioni dell’avversario è doveroso e giusto, ma la sola reazione non ci fa compiere il salto di qualità di cui i comunisti hanno oggi più che mai bisogno. L’agenda del mondo, l’agenda delle grandi questioni culturali di importanza strategica non devono imporcela altri, ma deve essere posta dai comunisti.


Commemorare oggi l’Ottobre significa allora pensare strategicamente per la ricomposizione e il rilancio su scala mondiale del movimento comunista. Un fattore importante per questo pensiero strategico è la costruzione, coordinando forze e intelligenze, capaci di leggere la nostra storia e di analizzare le contraddizioni mondiali e il loro sviluppo, pensando la rivoluzione, il che significa individuare nelle contraddizioni dell’imperialismo le premesse non solo per una resistenza dei popoli alle aggressioni, ma anche della possibile trasformazione della guerra in rivoluzione, della resistenza nazionale in percorso di transizione socialista. Commemorare oggi l’Ottobre significa passare dalla resistenza reattiva alla “resistenza strategica”. Non si può essere soltanto “anti”: anticapitalisti, antifascisti, antimperialisti. L’Ottobre russo non fu solo contro la guerra, non fu “pacifista”, non fece solo “guerra alla guerra”, ma trasformò la guerra in rivoluzione sociale.


Pensare strategicamente significa sapersi dotare oggi anche degli strumenti culturali per la trasformazione socialista nel XXI secolo.


Non guarderemo allora alla storia del comunismo novecentesco come una testimonianza del passato da salvaguardare dalle intemperie e intemperanze dei nuovi barbari, come monaci amanuensi che salvano i tesori perduti dei classici antichi, ma come una miniera preziosa, un tesoro di esperienze da cui apprendere, un patrimonio di inestimabile valore in cui affondano le radici della nostra identità e del nostro futuro. Non vivremo così immersi nella tattica quotidiana di un presente senza storia, ma nella prospettiva strategica della costruzione delle condizioni della rivoluzione, che è nelle cose presenti.

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