Il prezzo del voto in Ucraina

Il prezzo del voto in Ucraina

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di Fabrizio Poggi
 

Ultime battute prima delle elezioni presidenziali in Ucraina. Dei 30 milioni di persone che ufficialmente ne hanno diritto, un milione non parteciperanno al voto perché non registrate e, dagli 8 ai 12 milioni, perché fuori del paese e già da molto tempo non partecipano alle consultazioni elettorali, nemmeno ai seggi allestiti all'estero. Per questa consultazione, inoltre, ”non sono stati allestiti seggi in Russia a causa di rischi per la sicurezza da parte dello stato-aggressore” scrive l'ucraina Evropejskaja Pravda. Esclusi ovviamente dal voto gli abitanti delle Repubbliche popolari Di Donetsk e di Lugansk, contro i quali, è il caso di ricordarlo, nemmeno durante la campagna elettorale ucraina, è mai cessata l'aggressione di Kiev; solo ieri, ad esempio, artiglierie da 122 mm, mortai da 120 mm, lanciagranate e armi anticarro hanno martellato i villaggi di Kalinovo, Frunze, Zhelobok, Sokolniki, Kalinovka, Veselogorovka e altri, nella LNR.


Dunque, dei 20 milioni di potenziali elettori, considerata la passata affluenza media del 60-70%, si recheranno alle urne circa 15 milioni di persone e, per intrattenerle in queste ultime ore prima del voto, il milionario Petro Porošenko ha dichiarato guerra via twitter al miliardario Igor Kolomojskij che, a detta del Presidente in carica, starebbe gettando fango su di lui attraverso il canale TV “1+1”, come vendetta per la nazionalizzazione, oltre due anni fa, di “Privatbank”, di cui era proprietario per l'appunto Kolomojskij, oggi burattinaio del candidato Vladimir Zelenskij. La disputa tra Petro e Igor è arrivata al punto che il secondo ha incolpato il primo di aver organizzato la provocazione nello stretto di Kerch dello scorso novembre: un'accusa che gli è costata (non ridete! - a lui, sponsor dei nazisti di “Pravyj Sektor”) l'inserimento nella lista nera di “Mirotvorets”, insieme ai vari “nemici dell'Ucraina”, con la motivazione che avrebbe violato “le norme sulla cittadinanza” - si sono accorti solo ora che è cittadino ucraino, israeliano e cipriota - oltre a “partecipare alla destabilizzazione della vita sociale e politica; manipolare informazioni importanti e diffondere false notizie sul canale TV da lui controllato".


Chissà che faccia avranno fatto al Cremlino, a sapere che Kolomojskij risulta ora tra coloro che “Mirotvorets” considera “pro-russian terrorists, separatists, mercenaries, war criminals, and murderers”. Proprio lui che, ora, da Israele, sta dettando una ferrea linea antirussa al candidato Zelenskij, costretto a capovolgere le sue iniziali dichiarazioni, allorché si era detto “pronto a inginocchiarsi di fronte a Putin, se questo desse la pace all'Ucraina”. Quando era ancora governatore della regione di Dnepropetrovsk, Kolomojskij è stato forse il peggior nemico del Donbass e di Mosca, tanto che, secondo news-front.info, nel 2015 sarebbe partito l'ordine per la sua eliminazione, ordine rientrato a fine 2016, quando Porošenko lo estromise da ogni carica politica, dopo l'affare della “Privatbank”. Ora, invece, il settimo uomo più ricco d'Ucraina (1.941° nella classifica mondiale di Forbes, con 1,2 miliardi di dollari) avrebbe puntato tutto su Zelenskij, per tentare, attraverso il candidato “clown”, di rientrare nel giro politico e gli avrebbe prescritto di inasprire le dichiarazioni antirusse, di parlare più spesso della “guerra tra Ucraina e Russia” e del fatto che da questa guerra l'Ucraina uscirà vincitrice, costringendo Mosca a capitolare.


Così che, Porošenko deve guardarsi dagli attacchi del “Natsionalnyj korpus”, i radicali agli ordini del tandem affaristico Timošenko-Kolomojskij, che intervengono qua e là a interrompere la compra-vendita di voti - si parla di cifre da 1.000 a 5.000 grivne (da 30 a 150 euro) a fronte di salari minimi di 4.000 e medi di 9.000 grivne - da parte dello staff presidenziale e a cui si contrappongono i nazionalisti pro-Porošenko di “C14”: chiaro che le due formazioni, ora rivali, come altre di stampo neonazista, agiscano poi di comune accordo quando c'è da organizzare spedizioni squadristiche contro gruppi isolati e indifesi di veterani, di comunisti o antifascisti, contro minoranze nazionali ungheresi, moldave o polacche, o quando c'è da organizzare dei pogrom contro campi rom, a Kiev, L'vov, Ternopol o in Transcarpazia. Ma, ora, tali organizzazioni rispondono direttamente agli ordini dei ras putschisti, in lotta tra loro per la poltrona di primo golpista d'Ucraina.


Da questo punto di vista, scriveva appena due giorni fa Rostislav Ishchenko, nessuno può escludere, fino all'ultimo, che la campagna elettorale ucraina si concluda in modo pacifico, anche se sembrano coincidere gli interessi di USA, UE e Russia a che l'eventuale cambio al vertice avvenga senza grossi terremoti ed è forse per questo che nessuno dei tre soggetti ha ufficialmente appoggiato questo o quel candidato.


In effetti, scrive Ishchenko, manca oggi in Ucraina una vera “vita politica” (ma, i putsch, non si fanno proprio per questo?); “autentici e convinti attivisti pro-russi non hanno mai rappresentato una forza seria nella politica, e ora sono completamente liquidati, in parte ridotti in clandestinità, parte emigrati, rinchiusi nelle prigioni del SBU, sotto terra, o nel Donbass”. Tra repressioni, spedizioni fasciste e non senza “responsabilità dei propri dirigenti, il movimento di sinistra è praticamente scomparso ed è scomparso dalla visuale chi “faccia oscillare il pendolo verso la parte filo-russa”. C'è invece una massa amorfa di "attivisti di majdan": non quelli “stipendiati”, che “sapevano bene chi, perché e per quali cifre li avesse assunti”, ma gli altri, che vi si erano gettati “per convinzione” e ora “odiano gli uomini che loro stessi avevano aiutato a prendere il potere. Questi nazionalisti non possono ammettere di essere stati degli idioti e di aver distrutto il proprio paese e dunque non si rivolgeranno verso la Russia, che per loro rimane un nemico. Scivoleranno ulteriormente nel radicalismo nazionalista” e andranno a infoltire le “Squadre nazionali” del battaglione “Azov”, che, nella tradizione del fascismo italico e del nazismo tedesco, mentre bastonano e uccidono politici, giornalisti e attivisti avversari, poi, demagogicamente, prendono le parti di “questa o quella comunità, contro le razzie affaristiche di qualche oligarca troppo ingordo. Gli attivisti del "Corpo civile" denunciano i crimini del potere, mentre il “Natskorpus” cerca di creare tanti analoghi dei Comitati rionali del PCUS, cui i cittadini si rivolgevano per esporre problemi e difficoltà”: pura demagogia sociale, insomma, in nome di una "giustizia superiore" della Nazione. E alle spalle di questi signori, guidati dal “führer” Andrej Biletskij, ci sono le strutture del Ministro degli interni Arsen Avakov, considerato da più parti il vero arbitro della situazione, cui in certa misura è legato il duo Timošenko-Kolomojskij: unito finché, in caso di vittoria su Porošenko, non comincerà a regolare i conti interni.


In questo quadro si sono inserite le aperte dichiarazioni “pro-russe” da parte di agenti o ex agenti del SBU, una struttura alle dirette dipendenze di Porošenko: ora, come non immaginare che il Presidente, nonostante la retorica pubblica antirussa e consapevole delle forze (politiche e armate) che gli si contrappongono, cerchi una sponda proprio nel tanto vituperato Cremlino? E quest'ultimo, da parte sua, sembra non escludere uno scenario di forza ai propri confini, tanto che si parla ormai con insistenza di non riconoscere le elezioni ucraine e della consegna di passaporti russi alla popolazione del Donbass, forse già a partire da aprile.


Uno scenario che Washington e Bruxelles danno quasi per scontato, tanto da aver già inviato nel mar Nero una squadra navale, guidata dal cacciatorpediniere olandese “Evertsen”, con le fregate “Toronto” (Canada), “Santa Maria” (Spagna), “Gelibolu” (Turchia) e la nave appoggio francese “Var”. Già il 1 aprile le “Toronto” e “Santa Maria” sono attese a Odessa.


“Sola speranza pei vinti è non sperare salute!” declamava il divino Virgilio.

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