IL VOLTO PIÙ TRISTE DI GAZA.

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Patrizia Cecconi – Gaza 1 marzo 2016
 
Nella striscia di Gaza ci sono diversi istituti cristiani, generalmente sono conventi o chiese con annesse scuole. A dieci metri o poco più normalmente si trova una moschea o spunta un minareto, come quello che si vede dal grande cortile della Rosary school dove giocano centinaia di bambine e bambini. 


La Rosary school è nel centro di Gaza city, ha circa 900 scolari di cui solo 83 di religione cristiana e gli altri di religione musulmana. La scuola è gestita dalle suore alfonsine, ordine fondato nel 1870 che comprende solo suore arabe.

L’edificio è stato costruito nel 2000 su terreno regalato alle suore dal presidente Yasser Arafat. Anche la bambina di Arafat ha frequentato questa scuola prima che il presidente venisse avvelenato. 

Qui, durante la ricreazione è possibile vedere centinaia di ragazzini di entrambi i sessi giocare nel grande cortile e questa vista  sicuramente sconvolgerebbe i tanti che credono in una Gaza monolitica, integralista, escludente e, ovviamente, terrorista!


A sconvolgere quest’immagine ci si metterebbe anche il fatto che le suore cristiane collaborano con associazioni musulmane per tentare di alleviare le sofferenze di comunità palestinesi che vivono in situazioni forse peggiori di quella degli animali.

E’ stato proprio con suor Nabila e con l’ingegner Lina, la prima per conto della scuola del Rosario e la seconda per conto dell’Operative Islamic Cooperation che sono andata a vedere alcune situazioni in cui la povertà più estrema mi si è manifestata nella sua forma peggiore: i bambini senza sorriso. 


E’ la prima volta che mi capita. Questa terra dove i bambini scoppiano a ridere anche nelle condizioni peggiori oggi sembrava coperta da un manto cupo che ha tolto loro il diritto alla gioia e al sorriso.

Ho visto dimore peggiori di tane, impossibili da definire case, in cui i bambini non ridono mai. 

L’ho visto nell'Ottava strada, alla periferia di Gaza, dove una piccola famiglia che ha perso la casa nel quartiere di Zeitun durante l'aggressione del 2008 denominata "piombo fuso", vive in un piccolo ricovero fatto di latta e di plastica; l'ho visto poco più avanti, ad Al Megharka in una baraccopoli piena di bambini malati in cui l'inverno si vive tra acqua e fango e l'estate con l'incubo di serpenti e scorpioni che s'insinuano tra le lamiere. L'ho visto in un sobborgo di An Nusseirat dove c'è ancora chi vive in baracche costruite nel "48 con la precarietà dovuta alla certezza, ancora sognata, del ritorno alla propria casa; poi l’ho visto, nel modo più sconvolgente, in un posto che porta il nome di un campo profughi libanese: Nar el Bared, sobborgo di Khan Younis. Un posto dove 110 famiglie vivono tra le tonnellate delle immondizie che, accumulatesi negli anni, hanno creato una collina e loro vivono lì, tra la collina delle immondizie  e una discarica di macerie da cui gli uomini cercano di recuperare il ferro per venderlo. Qui arriva la carità cristiana e musulmana ma non è ancora arrivato l’aiuto a creare un lavoro autonomo che riscatti questa povera gente e restituisca ai bambini il diritto alla gioia e al sorriso. 



Qui il numero dei bambini è altissimo ma non rappresenta la vita che si impone e che esplode gioiosa, no, al contrario, sembra la rassegnazione a vivere perché due cellule si sono unite.  L'ingegnere Lina dell'associazione islamica O.I.C. e la suora Nabila dell'ordine delle Alfonsine si attivano insieme per aiutare nelle situazioni più disperate, ma il loro lavoro, per quanto nobile e generoso,  non intacca la causa prima di tanta desolazione. 

Quel che ho visto oggi interroga il concetto stesso di umanità. Vivere in situazione non di guerra in quelle condizioni, in cui solo l’elemosina garantisce la sopravvivenza e oltretutto non sempre ci riesce, è un insulto all’umanità e alla vita stessa. 
 
Sono uscita da questa giornata come se fossi stata picchiata violentemente. Credevo di aver visto il peggio qualche giorno fa a Zannah, dove l’ultima aggressione israeliana ha devastato con meticolosa crudeltà ogni cosa, invece il peggio l’ho visto oggi. Oggi ho visto un’umanità che trascina la vita e non conosce il sorriso, un’umanità che non ha altro da perdere se non ciò che altri rifiuterebbero di conservare:  una vita di quel tipo. 


Che fare? Non sarà l’elemosina ad aiutare questa gente, ma  sarà necessario, per quel dovere categorico che in molti umani prende il nome di solidarietà, fare qualcosa perché queste persone trovino la possibilità di tornare a vivere da umani nel senso migliore del termine e perché anche a questi bambini  venga restituito il diritto a quelle pazze risate che in tutti i  bambini palestinesi rappresentano la vita che sfida l’occupazione e i suoi continui crimini. 


 

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