La "gender Tax" della Ferrero e Inchino: l'abominio della "discriminazione compensativa"

La "gender Tax" della Ferrero e Inchino: l'abominio  della "discriminazione compensativa"

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di Andrea Zhok*


SULLA DISCRIMINAZIONE COMPENSATIVA 

Per quanto uno possa credersi pessimista la realtà ti stupisce sempre.

A quanto pare è stata formulata una proposta, sponsorizzata dal Corsera, di  introdurre una tassazione differenziata tra uomini e donne ("Gender Tax"). 

L'idea è che detassare il lavoro femminile sarebbe un modo per "favorire il lavoro delle donne e rendere competitive le loro retribuzioni."

A quanto pare non ci resta che cestinare come obsoleto il vecchio, stantio egalitarismo, inscritto tra l'altro nella nostra Costituzione. 

Oramai siamo oltre, siamo entrati in nuovo paradigma di giustizia, quello della "discriminazione compensativa". 

Invece che cercar di far giocare i soggetti in una società con le medesime carte e con le medesime possibilità si stabilisce - attraverso l'energica attività lobbistica di alcuni gruppi - che l'appartenenza ad un certo gruppo rappresenta per definizione uno svantaggio, e si procede a riequilibrare un'ingiustizia presunta con una manifesta.

Naturalmente sappiamo che questo tipo di procedimento è stato promosso e sperimentato da tempo negli USA, ad esempio con la cosiddetta 'affirmative action', rivolta a compensare inizialmente i problemi delle minoranze di colore, ed esteso poi ad altri gruppi ritenuti 'meno fortunati'. 

E naturalmente abbiamo tutti davanti agli occhi l'evidente successo ottenuto da questi escamotage nell'attenuare le tensioni razziali e nel colmare il gap sociale della popolazione di colore negli USA.

Ma a prescindere da un'attenzione, che sarebbe doverosa, alle esperienze già percorse altrove, e al loro fallimento, bisognerebbe spendere qualche minuto a soppesare la gravità della forma mentis che si sta così affermando.

Nelle moderne società capitalistiche è ampiamente dimostrato che il principale creatore di disparità e iniquità sociale è il capitale detenuto a monte: il capitale della famiglia d'origine, che si ripercuote nella formazione, nella capacità di 'rischiare', nella creazione di rendite, ecc. 

Ma questo tema, così posto, è in effetti tabù perché lo spettro delle soluzioni possibili passano tutte attraverso processi politici inquadrabili nella tradizione socialista-comunista.

Come succedaneo fittizio di questa problematizzazione in termini di 'gruppi sociali' ci troviamo invece un'attività lobbistica da parte di 'gruppi naturali' (per genere, etnia, orientamento sessuale, o altro) che mirano a dipingersi come bisognosi di una discriminazione compensativa.
E naturalmente, siccome non esistono pasti gratis, il prezzo di questa discriminazione, quando implementata, ricade su chi ne è escluso.

Questo processo spezzetta le società moderne in gruppi di interesse e di pressione a base naturale (come appunto il genere), gruppi che per essenza non possono mai essere 'superati' - come potrebbe accadere per una differenza di capitalizzazione - e che creano le condizioni per la diffusione di un senso di ingiustizia, discriminazione, colpevolizzazione nei gruppi esclusi dai 'privilegi compensativi'.

E' fin troppo facile notare come una "gender tax" sarebbe solo una sfacciata ingiustizia perpetrata col sorriso, visto che conferirebbe vantaggi a tutti i soggetti di genere femminile, a prescindere dal livello di censo, e a scapito di soggetti magari socialmente deprivati, ma sciaguratamente appartenenti al genere sbagliato.

Ed è fin troppo facile notare come chi volesse davvero aiutare le donne coinvolte in incombenze inevitabilmente femminili, come una gravidanza, potrebbe banalmente fornire forme di supporto specifiche per quelle incombenze (cosa di cui, peraltro, in Italia ci sarebbe davvero grande bisogno).

No, qui il punto è il significato culturale dell'operazione. Il problema è lo sdoganamento di un principio devastante, ovvero l'idea che l'appartenenza ad un gruppo naturale possa conferire un privilegio discriminatorio.

E' curioso come queste iniziative siano giunte inavvertitamente, e con la serena convinzione di essere nel giusto (tipica di chi è già privilegiato) a sostenere le medesime cose che in epoche passate dipingiamo con i colori dell'oscurantismo: l'idea che un soggetto debba godere di privilegi sociali in quanto appartenente ad un gruppo naturale (etnia, razza, genere, ecc.).

La mossa, peraltro, non è priva di genio: essa riesce a dipingere un atto discriminatorio con le tinte pastello del 'soccorso all'oppresso', mentre cela la realtà crudamente economica del privilegio e spezzetta la società in gruppi naturalmente ed irrevocabilmente concorrenti. 
Ignoro se, o in che misura, sia possibile che a questo tipo di proposte venga dato realmente seguito normativo, tuttavia il terreno culturale che preparano è comunque desolante.

*Professore di Filosofia Morale all'Università di Milano

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