LA PIAZZA E IL POTERE CHE NEUTRALIZZANO GESTI E PALESTINA
di Mjriam Abu Samra e Pasquale Liguori
Chiunque abbia studiato la storia dei movimenti sa che c’è un momento in cui il conflitto autentico smette di abitare l’emotività e si fa politica.
Accade, ad esempio, quando la protesta non si accontenta più di sfilare o di rappresentarsi, ma raggiunge i luoghi in cui il potere opera, si consolida, si narra. Per questo le redazioni, gli studi televisivi sono sempre stati spazi decisivi nelle grandi fratture del Novecento.
Dalla presa e chiusura delle grandi testate borghesi durante la rivoluzione russa del 1917 alla collettivizzazione di giornali e tipografie nella Spagna del ’36; dagli scioperi e blocchi dell’ORTF nel maggio francese alle grandi proteste contro il gruppo Springer nella Germania del ’68; dalle mobilitazioni del ’67 a Hong Kong, che presero di mira anche organi di stampa coloniale, fino agli assedi dei media di Stato durante le rivoluzioni arabe del 2011: la lista è lunga, diversissima, e nei suoi intrecci racconta una sola cosa.
La stampa non è mai stata un osservatore imparziale. È parte dell’infrastruttura di potere.
Non è un’opinione. È un fatto storico.
Quando un movimento diventa serio, la prima reazione del potere non è la repressione poliziesca: è il panico dei suoi giornali.
Quando un gesto politico arriva a lambire anche solo simbolicamente il monopolio della narrazione, scatta la controffensiva con l’indignazione morale e la stigmatizzazione. Ogni volta la stessa dinamica: chi interrompe la rappresentazione dominante viene accusato di volerla distruggere; chi la ripete fedelmente viene invece elevato a coscienza civile della nazione.
Ed eccoci all’Italia di oggi.
A questa stagione di piazze che, pur mostrando un potenziale reale, restano incastrate nelle contraddizioni di una debolezza politica strutturale in un Paese incapace di produrre opposizione, di sostenere una mobilitazione continuativa, di trasformare lo sforzo analitico degli ultimi mesi in una forza istituzionale o organizzativa. Così, mentre le iniziative e le campagne territoriali restano marginali, la dinamica della visibilità mediatica prende il sopravvento sulla spinta alla trasformazione sistemica.
E il risultato è sotto gli occhi di tutti: piazze spesso emotive, popolate da personaggi che vivono di immagine e non di analisi, dove la “solidarietà” si riduce a format e non a pratica politica. Piazze che si legittimano attraverso il palcoscenico dei social, che cercano la rispettabilità, la “buona creanza”, la certificazione istituzionale. Piazze che non disturbano un sistema che le tollera.
L’estetica si è imposta presto, inaugurata dalle “flottiglie” di star attorno alla causa palestinese. Ma ciò che poteva dissolversi come molte meteore dello spettacolo, si è evoluto in qualcosa di più strutturato: una macchina di visibilità che ha capitalizzato sugli interessi politici di sindacati e reti organizzate, desiderose di riconquistare un contatto diretto e legittimato con le masse. Perché, nonostante tutto, resta il dato reale degli ultimi mesi con la formazione di una coscienza popolare più inquieta, più consapevole. Il punto è come questa coscienza viene raccolta, incanalata, cooptata.
E dentro questa scenografia rassicurante si muove una costellazione di personaggi che alternano toni da leader morali a rapide retromarce, tra scuse prudenti e dichiarazioni calibrate più per la propria immagine che per la politica. Un meccanismo di autocorrezione continua, segnato dal timore di perdere visibilità o quella rispettabilità volatile che il liberalismo nostrano dispensa e ritira con facilità.
Dopo il 4 ottobre - quando i più ottimisti avevano immaginato che quell’enorme mobilitazione potesse essere l’inizio di una ristrutturazione politica vera, capace di investire e canalizzare i sentimenti delle masse verso una piattaforma radicata nella liberazione palestinese e nella critica antisistemica - è diventato chiaro che la parabola stava prendendo un’altra direzione.
Non una costruzione politica dal basso, coordinata con le realtà palestinesi, ma un meccanismo che si struttura attorno a narrative egemoniche nordcentriche. Una macchina che recupera concetti radicali - la connessione tra lotta anticoloniale ed economia capitalista globale - solo per imporsi come unico referente della mobilitazione e come portavoce, in realtà perfettamente compatibile col sistema, della “liberazione palestinese” e perfino del “rinnovamento politico italiano”.
Dentro questa nuova cornice spettacolare, arriva l’unico gesto politico della giornata: un gruppo di manifestanti entra nella sede di un giornale, La Stampa, storico organo della famiglia Agnelli, e mette in discussione il ruolo che quel quotidiano ha avuto e ha nella narrazione dei fatti recenti. Un gesto simbolico, non armato.
Un gesto che ha semplicemente toccato - fisicamente, per un attimo - il luogo dove si contribuisce a produrre quell’immagine depoliticizzata della solidarietà che oggi tutti applaudono.
Era prevedibile: ciò che è stato punito non è un atto di violenza, ma un atto di dissonanza politica. E infatti la reazione è stata corale. L’intero fronte giornalistico e istituzionale si è compattato: “squadrismo”, “assalto fascista”, “minaccia alla libertà di stampa”.
Addirittura, accademici “pedagoghi” si sono sentiti chiamare in causa impartendo lezioni di strategia politica d’ordinanza. Hanno rimproverato i ragazzi di Torino di aver messo in ombra le piazze, di aver danneggiato il “movimento”, come se quelle piazze fossero davvero un processo rivoluzionario in corso e non un tappeto emotivo sotto cui viene ricacciata ogni domanda strutturale.
Il paradosso è lampante: la protesta estetica, moralista, accomodante, viene definita “politica”; il gesto che prova a toccare un ganglio del potere, quello sì, viene definito “antipolitico”.
È così che funziona l’egemonia. Non impedisce il dissenso: lo seleziona e premia quello che non disturba, reprimendo quello che rivela.
Mentre questa selezione si rafforza, il meccanismo mobilitativo in auge ha sempre più bisogno di spettacolarizzazione perché è scollato dalla realtà di costruzione politica che il territorio invece richiede: ospiti internazionali sul palco a guidare manifestazioni locali, parate che sembrano celebrazioni più che momenti di rivendicazione della res publica, rituali rassicuranti di canti, balli, abbracci, condanne perbeniste e linguaggi edulcorati. Una performance che diventa distopica e quasi offensiva se solo la si accosta un istante alla realtà della resistenza palestinese e all’arroganza dello sterminio.
È così che si chiude il cerchio: in poco più di due anni si è compiuto un giro completo, ritornando esattamente al punto di partenza: la riappropriazione dello spazio del dissenso da parte del sistema stesso.
I palestinesi sono spariti.
Se il 4 ottobre è stato un loro successo politico, oggi le voci sui palchi e nei talk show sono tutt’altre. E quando compaiono, sono le voci della vittima umanitaria salvata dall’Italia generosa, non quelle della resistenza. Si ristabilisce così l’asimmetria di potere alla base dell’ordine internazionale: un’asimmetria che viene rafforzata proprio attraverso pratiche e linguaggi che sembrano radicali ma ristabiliscono i parametri coloniali e neoliberali utili al sistema.
Si creano nuovi miti, nuovi portavoce, nuovi eroi perfettamente integrati.
E la Palestina? Rimane un’immagine, un miraggio esotico, un simbolo utilizzato nella ricostruzione di una cultura politica che finirà per stringere le catene di un movimento che aveva lasciato intravedere - per un attimo - il potenziale del cambiamento.
Mentre tutto questo accade, mentre la reputazione di qualche influencer vale più della carneficina in Gaza, chi ha provato a restituire alla protesta una dimensione di conflitto viene crocifisso come fosse un criminale. Chi tenta di denunciare la repressione, la portata delle pratiche di sorveglianza e di oppressione interne al nostro Paese - non solo la collusione coloniale - e si indigna per ordini di rimpatrio arbitrari come quello avvenuto a Torino o per arresti e accuse di presunto “terrorismo” rivolte a chi parla di resistenza, viene immediatamente condannato o, nella migliore delle ipotesi, reso invisibile all’opinione pubblica.
Non è un giudizio: è un sintomo.
Il sintomo di un Paese che non tollera nemmeno la possibilità di pensare che il potere abbia dei luoghi concreti e che la critica non possa ridursi a un post indignato o a una marcia plasmata sull’immaginario occidentale.
Ci si scandalizza di una porta spinta, di qualche decina di fogli A4 sparsi sul pavimento di una stanza occupata per pochi minuti.
Non ci si scandalizza della sistematica delegittimazione della solidarietà reale che mira a essere davvero lotta congiunta e non condanna generica dell’uso selettivo della repressione, del fango gettato su chi non si adegua all’estetica dell’indignazione.
È questo il punto: la democrazia non rischia nulla da giovani che entrano in una redazione. Anzi, diventa viva, recuperata nella espressione di un dissenso che si impone quando viene ignorato. A essere pericolosa, piuttosto, è la trasformazione della protesta in un rituale autoassolutorio.
La storia dovrebbe insegnarcelo.

1.gif)
