Lavoro e cittadinanza
I referendum come strumenti per la partecipazione democratica ed il ripristino della dignità
La ventata restauratrice che ha travolto il mondo del lavoro in Italia parte negli anni novanta. Nel 1992 il governo Amato, chiamato a risanare i conti pubblici a causa di un debito pubblico in forte ascesa, decise di eliminare la scala mobile, strumento fino ad allora in grado di proteggere il potere d'acquisto dei redditi dall'inflazione.
Nel 1993 l’accordo interconfederale tra le parti sociali ed il governo fa partire la stagione concertativa, con le rappresentanze sindacali nazionali preoccupate più della stabilità finanziaria che delle rivendicazioni dei lavoratori. La contrattazione aziendale, in deroga di quella nazionale, peggiora le condizioni. Nel 1997 l'esecutivo di centrosinista dà il via alla possibilità di utilizzo indiscriminato dei contratti a tempo determinato. Il restyling liberista della sinistra ed un sindacato incapace di intercettare i mutamenti imposti dalla globalizzazione, il ruolo svilito degli Stati, la UE della tecno-finanza e della moneta unica, sono tutti fattori che vanno a ripercuotersi, negativamente, su vecchi e nuovi lavori.
Trasformazioni in corso con gli Uffici del Collocamento, rinominati Centri per l'impiego e le Agenzie interinali. Dal 1997 in poi, anno del Pacchetto Treu, prendono diffusione i contratti atipici (dal lavoro a chiamata a quello a progetto). La creatività consentita dal legislatore e dall'autonomia del codice civile si spinge sino al punto di mascherare attraverso forme fino ad allora inedite, rapporti normali e a tempo pieno di lavoro subordinato, ma che non vengono riconosciuti come tali. L'intento di ogni datore è quello di risparmiare sul costo del lavoro sacrificando retribuzione, contributi, e diritti dei dipendenti.
La sleale concorrenza estera, il decentramento delle produzioni, ed il ritardo industriale, insieme alla svendita delle aziende pubbliche, accrescono la massa di disoccupati. Diventa difficile incrociare offerta e domanda secondo i criteri suggeriti dalle sfide globali. Chi ne risente maggiormente sono le piccole imprese, e le attività a conduzione familiare. Di conseguenza nuove tipologie di sfruttamento vengono alla luce. Il precariato è la condizione normalizzata, opportunità da cogliere per resistere sui mercati della competitività. Nei quali sono immerse aziende, che pur sane, usufruiscono di regali statali per aumentare i profitti, scaricando sulla collettività eventuali perdite. Gli ammortizzatori sociali predisposti in soccorso dei lavoratori si dimostrano inadeguati perchè non raggiungono tutti ed hanno una durata ed un ammontare irrisori. Imprenditori sostenuti dalla classe politica liberista trasversale, che lamentavano troppo Stato ora ne reclamano l'intervento assistenziale usufruendo di incentivi per assunzioni, detassazioni, ed altri aiuti economici. Privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite (danni economici,sociali,ambientali, ricorso smisurato alle tante forme di cassa integrazione). Il che si traduce nei crescenti sacrifici per i lavoratori, necessitati ad adeguare i tempi di vita alle mutevoli esigenze dell'impresa.
Ulteriore strumento sono le liberalizzazioni, grazie alle quali dare ai padroni la possibilità di sfruttare come meglio credono i dipendenti. Ad eccezione di chi lavora nel pubblico, il settore privato consente di far lavorare nei giorni dedicati alle festività religiose e civili. Così da circa un trentennio è facile trovare aperti negozi ed attività non indispensabili (supermercati, centri commerciali ecc. ) dove dirottare la massa di consumatori dislocati dai tradizionali luoghi di confronto delle idee. Questo si traduce nella spoliticizzazione crescente, che facendo perdere di vista la condizione sociale, incattivisce gli individui assimilati dal verbo consumistico. Le trasformazioni del lavoro richiedono aggiornate competenze, e disponibilità.
La mole di ore dedicate all'impresa raggiunge numeri da schiavismo sopratutto nei settori della logistica, in quello della intermediazione di mano d'opera e dei servizi appaltati a false cooperative. I voucher fanno risparmiare sulle assunzioni. Un uso distorto previsto per le esigenze del momento, ad esempio nei lavori stagionali, diventato prassi anche in settori completamente diversi. Scoperta la truffa ecco all'orizzonte forme gratuite - stage, tirocini, l'alternanza scuola-lavoro, il volontariato – per non pagare i dipendenti. Poi, dieci anni fa, arrivò l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Le imprese volevano le mani libere, fare presto (lo Sblocca Italia), e con la scusa di affrancarsi da intoppi burocratici liberarsi da inutili pesi (le garanzie a tutela dei lavoratori). Le delocalizzazioni, le finte chiusure di attività che rinascono cambiando denominazione sociale, i subappalti, il sistema delle scatole cinesi. Con gli scarichi di responsabilità in caso di incidenti che hanno distrutto la vita di intere famiglie. Aumentano i rischi e le morti sul lavoro. Milioni di persone che pur lavorando sono in stato di povertà. Lo scopo dei referendum sul lavoro è quello di ripristinare e possibilmente allargare i diritti preesistenti alla svolta schiavistico-liberista.
Ad oggi è difficile la reintegrazione del lavoratore, poichè dietro alle motivazioni economiche per giusticare il licenziamento, sovente si nascondono motivazioni infondate basate su discriminazioni o disciplinatorie (donne incinte, l'orientamento sessuale, religioso, politico). Il giudice non può ordinare il reintegro ma solo l’indennizzo risarcitorio, fino al massimo di 12 mensilità (6 mensilità per le aziende sotto i 15 dipendenti), a meno che i motivi economici risultino manifestamente insussistenti.
A chi oggi invoca una legge del Parlamento per disciplinare la materia bisogna ricordare che tutti hanno governato e nessuno ha fatto nulla.
Al centro va dunque messa la dignità umana. Un tema riguardante anche il quinto referendum, quello sulla cittadinanza: attribuire diritti e doveri all'interno dello Stato a persone che ne sono prive. Non più persone di serie b, ma riconosciute all'interno della comunità dove vivono, andando a scuola, al lavoro, e contribuendo al pil nazionale. Ad oggi, per ottenere la cittadinanza, sono richiesti: la residenza per 10 anni; la capacità reddituale ( sopra agli 8 mila euro per il singolo); la conoscenza dell'italiano; il permesso di soggiorno; l'assenza di precedenti penali. Quindi, ridurre i termini a 5 anni, risponde ad una domanda di civiltà, vuol dire riconoscere il contributo economico-sociale di tanti che vivendo qui da tempo sono perfettamene integrati.