Libia, la guerra dei media italiani

Libia, la guerra dei media italiani

Tra presunte telefonate e numeri di truppe, la stampa italiana ha già deciso per conto di chi ha interessi petroliferi da tutelare

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di Mara Carro

Lunedì 25 aprile, nelle stesse ore in cui si svolgeva ad Hannover il vertice del G5, organizzato da Angela Merkel in un formato che riunisce i leader di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, i media italiani hanno diffuso la notizia che il primo ministro del governo libico Fayez al Sarraj aveva telefonato al premier italiano Matteo Renzi per chiedere l’aiuto dell’ONU per proteggere i pozzi di petrolio nel paese dallo Stato Islamico.

La notizia non trovava però riscontro su qualsiasi altro organo di stampa internazionale e l’interpretazione della telefonata come di una richiesta libica di intervento militare è stata smentita sia da Palazzo Chigi che dallo Stato Maggiore della Difesa, che ha definito “priva di qualsiasi fondamento" la notizia dell’invio di 900 soldati italiani in Libia.
 
Se la richiesta c'è stata, almeno in via informale, va inquadrata nel contesto dell’attuale situazione delle forze in campo nel paese libico, dove il principale ostacolo al consolidamento del premier Sarraj è il generale Khalifa Haftar e solo il seconda battuta lo Stato islamico.
 
Come ormai notO, Mohammad Fayez al-Sarraj, l’uomo che la “comunità internazionale” ha scelto come nuovo capo del “governo nazionale libico”, è giunto a Tripoli il 30 marzo per insediarsi al potere. Il nuovo premier è approdato a Tripoli in gommone e governa chiuso in un bunker nella base navale di Abu Sittah. Un premier in ostaggio, questo è il piano “perfetto” studiato e supportato da mesi di preparazione logistica dalla “comunità internazionale”.
 
Serraj, un uomo d'affari con poca esperienza politica, sta cercando di consolidare il proprio potere nella capitale libica e ha ricevuto promesse di sostegno da diverse milizie (importante quelladi Misurata), di buona parte della Fratellanza Musulmana, di Abdelhakim Beljadj, di diversi consigli comunali e di Ibrahim al-Jathran, leader della Petroleum Facilities Guard (PFG), nonché del supporto internazionale di Italia e Stati Uniti. Il primo ministro al momento controlla le uniche istituzioni funzionanti dello Stato: l'azienda petrolifera nazionale, il fondo sovrano della Libia e la banca centrale.
 
La situazione, però, non è affatto risolta, anche nella parte occidentale del paese. C'è confusione sul se le autorità di Tripoli del governo di salvezza nazionale di Khalifa al Ghwell abbiano effettivamente ceduto i poteri al governo di unità nazionale. 

A Tobruk, nell’est del paese, è invece ancora operativo il parlamento eletto nel 2014: la Camera dei Rappresentanti che da febbraio dovrebbe votare la fiducia al governo Serraj, ma che non ha mai raggiunto il quorum richiesto per votare la fiducia, prevista dall'accordo firmato a dicembre dai rappresentanti dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk con la mediazione dell'Onu.
 
A tenere in ostaggio il parlamento di Tobruk è il nostro ex-alleato, prima della vicenda Regeni,  il generale Khalifa Haftar, che con le sue milizie controlla gran parte dell’est del paese - a Bengasi la milizia del Generale Haftar ha riconquistato quasi l'intera città - ed è ostile al nuovo governo.

Haftar è appoggiato da Egitto, che attraverso il Generale mira ad espandere la sua influenza sulla Cirenaica, dalla Francia, che rifornisce di armi il regime del presidente egiziano al-Sisi, dal Regno Unito e dagli Emirati Arabi Uniti, che recentemente, in palese violazione dell'embargo sulle armi alla Libia, hanno rifornito di armi e mezzi le forze di Haftar. Che sia questo rafforzamento militare di Haftar ad aver indotto il premier Sarraj a rivolgersi alla comunità internazionale per proteggere i pozzi petroliferi, non dall’IS, ma dal Generale stesso che ha annunciato un’offensiva su Sirte e quindi sui pozzi della Mezzaluna di Sirte?

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