L’INCOGNITA MATTARELLA

L’INCOGNITA MATTARELLA

La scelta non casuale di omaggiare Einaudi

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Di Michel Fonte


In assenza di una riforma in senso presidenziale – invocata in maniera reiterata, ma non sempre convinta, durante quasi venticinque anni di seconda repubblica dal recentemente riabilitato Silvio Berlusconi – sembra che qualcuno ai piani alti del Quirinale abbia da tempo deciso tanto per istinto di conservazione, personale e generazionale, quanto per spirito di fedeltà a vecchie e nuove istituzioni (FMI, BCE, Commissione Europea), di passare dal ruolo di custode della Costituzione a quello di orditore di trame.

Sergio Mattarella, che durante il governo Renzi si è comportato come una cellula in sonno, si è d’improvviso svegliato e manifestato i mostri di quel lungo sonno della ragione che ne ha contraddistinto fino ad ora l’anonimo mandato. In quel di Dogliani, andando a rovistare nella tarlata cassapanca dei ricordi repubblicani, ha colto l’occasione per avvisare i protagonisti del nascente esecutivo che il suo modello di riferimento è Luigi Einaudi, secondo presidente (12 maggio 1948 –11 maggio 1955) di una democrazia nata dalle ceneri del fascismo, ma di fatto primo rappresentante dell’unità nazionale e garante di quella carta fondante della casa comune entrata in vigore soltanto 4 mesi prima (1º gennaio 1948).

Probabilmente, colui che è stato uno dei massimi esponenti della balena bianca, ha pensato di confidare nella memoria corta che contraddistingue gli Italiani, pertanto, sembra opportuno offrire un corretto affresco di Einaudi, ricordandolo come un economista di ispirazione liberista, il cui percorso politico è stato tutt’altro che lineare, d’altronde, non dissimile da quello di diversi esponenti emersi dal ventennio nero che successivamente si sono visti attribuire le onorificenze di padri nobili della repubblica. Di fatto, dopo aver condiviso le posizioni riformiste del socialismo turatiano al punto da partecipare alla rivista “Critica Sociale” guidata per anni dal keynesiano Francesco Saverio Nitti – portavoce delle istanze interventiste in politica economica e del ruolo positivo dello Stato in opposizione alla scuola individualistica – aveva successivamente scoperto la propria vocazione liberoscambista sublimandola con una vicinanza al ministro delle finanze fascista Alberto De Stefani, dal quale prenderà le distanze solo dopo il delitto Matteotti (1924), circostanza che però non gli impedì di mantenere la cattedra alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Torino fino all’anno 1943, prestando giuramento al regime. Pur opponendosi da senatore alla guerra d’Etiopia (1935) e alle Norme integrative del Regio decreto–legge 17 novembre 1938-XVI, n.1728, sulla difesa della razza italiana (1938), non partecipò a nessuna attività di resistenza, anzi, in occasione della proclamazione della repubblica di Salò (8 settembre 1943), lasciò il posto di rettore dell’ateneo piemontese riparando in Svizzera, da dove si adoperò a collaborare, penna in pugno, con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a quello che può essere definito il testamento ideologico dell’attuale Unione Europea, vale a dire  il Manifesto di Ventotene, che segna anche la nascita del Movimento Federalista Europeo (MFE), cui Einaudi, riducendo il liberalismo crociano a liberismo, donerà le proprie tesi antistataliste progenitrici di quell’anarco-capitalismo imperante nell’odierna UEM.

È piuttosto comprensibile che Mattarella dovendo scegliere un riferimento istituzionale non poteva di certo attingere al recente passato, dato che la parzialità e l’invasione di campo (Giorgio Napolitano, Oscar Luigi Scalfaro) o l’inusuale interventismo in fase legislativa e al contempo pilatesco permissivismo in fase promulgativa dei suoi predecessori (Carlo Azeglio Ciampi), non gli avrebbe consentito di indossare quelle vesti di neutralità ed equidistanza con le quali sta tentando di presentarsi alla pubblica opinione per gestire, faticosamente, una fase politica inaspettata e indesiderata. Anche spingendosi un po’ più indietro negli anni, gli sarebbero rimasti da prendere in considerazione due figure di ex presidenti alquanto indigeste, Francesco Cossiga, che contribuì come membro della partitocrazia a demolirla con le sue arcinote “picconate”.

A tal proposito, è indubbio che il massimo referente dell’Operazione Gladio (struttura segreta e paramilitare facente parte della Stay Behind Net insieme alla P2 d Licio Gelli e all’Anello di Giulio Andreotti) non agisse in preda ad alcun moto di pazzia, come si volle insinuare a quel tempo per stigmatizzare i numerosi rinvii alle Camere, le mordaci esternazioni e le velate minacce, arrivando addirittura a promuovere la procedura d’impeachment, ma sulla base di precisi ordini provenienti dai servizi segreti statunitensi, che iniziarono a sperimentare in quegli anni in maniera ricorrente la cosiddetta tattica dei colpi di stato leggeri o blandi (si legga la testimonianza del politologo nordamericano Gene Sharp), vale a dire scompaginare il tradizionale quadro partitico attraverso manifestazioni di piazza provocate dall’indignazione per diffusi fenomeni di corruzione (veritieri e costruiti ad arte) della classe parlamentare e governativa, portati a galla grazie all’azione di un altro potere dello Stato (sistema giudiziario) appoggiato da uno o più attori politici, che quest’ultimi poi fossero a loro volta coinvolti in affari di tangenti non aveva grande importanza a patto che il caso non fosse sollevato nelle aule di tribunale o che fosse molto precedente all’ultimo scandalo. Non è una coincidenza che Cossiga agisse con disinvoltura sia nel suo collegio, gestito in maniera clientelare come testimonia tra gli altri il famoso affare “pecorino” (1980),  sia negli ambienti romani, basti pensare tra i molti affari oscuri alla maxitangente Eni-Petromin del 1979, d’altra parte, è quello che si è verificato recentemente anche in Brasile dove l’azione giudiziaria contro Luiz Inácio Lula per mazzette provenienti dalla Petrobras (Operazione Autolavaggio, 2014)  promossa dal giudice federale Sergio Fedo Moro, ha subito un nuovo e forte impulso quando la presidente Dilma Rousseff, messa in stato d’accusa per falsificazione del bilancio statale, è stata rimossa dal Senato e sostituita dal vicepresidente Michel Temer, che ha approfittato delle vicende giudiziarie per occupare la massima carica istituzionale pur essendo sospettato di corruzione in ben due indagini, l’inchiesta “Operação Castelo de Areia” (Castello di Sabbia, 2009) e “Mensalão no Distrito Federal” (2009).

Se in Brasile l’attività della magistratura appoggiata da Temer – i cui legami con la CIA sono testimoniati da un documento pubblicato da wikileaks che ne prova il ruolo di informatore già da gennaio 2006 (https://wikileaks.org/plusd/cables/06SAOPAULO30_a.html#efmAJZAKWAKfAKARrASHAS1ATbCf0Cf9CgLCgZDOLDOVDWDDX7EGjEHl) – ha portato al ridimensionamento del paese come attore globale e a una virata in politica interna ed estera cui ha fatto seguito un feroce piano di disinvestimenti da parte della sempre più competitiva e scomoda Petrobras, a quei tempi, con il crollo del socialismo reale (1989), l’obiettivo statunitense fu la confluenza delle istituzioni dell’Europa occidentale verso il modello anglosassone, ossia, una rottura definitiva con le socialdemocrazie e la loro impostazione di economia mista.

L’altro ex presidente verso il quale Mattarella non avrebbe mai espresso il suo pubblico apprezzamento, è Sandro Pertini, anche lui collaboratore della “Critica Sociale”, che si è pensato bene di accantonare, perché a differenza di Einaudi subì varie spedizioni punitive e il carcere non solo per aver denunciato i soprusi del fascismo ma soprattutto la responsabilità della monarchia, quella stessa dinastia dei Savoia che invece riscuoteva nel referendum le simpatie dell’accademico cuneese (Perché voterò per la monarchia, L’Opinione, 24 maggio 1946), il quale, da un lato, esprimeva la propria sfiducia verso ogni forma di elezione universale e diretta del capo dello stato citando “le esperienze sfortunatamente ordinarie delle repubbliche centro e sudamericane” al cospetto dell’unico caso di successo, quello della repubblica presidenziale statunitense, di fatto trascurando, con una lettura approssimativa degli eventi storici, che la fragilità delle democrazie latinoamericane erano e sono una diretta conseguenza della Dottrina Monroe (1823), cioè di quegli stessi Stati Uniti che pretendono di mettere il proprio cappello sull’attaccapanni altrui. Dall’altro lato, invece, palesava una convinta fede tanto nell’individualismo (“gli uomini trovano libertà solo in se stessi, nella loro forza d’animo”) – sottovalutando come la libertà personale sia forgiata e condizionata da aspetti sociali, culturali, economici e dal vissuto privato e familiare – quanto in un personaggio illuminata al vertice delle istituzioni (“deve esistere un capo di stato, il quale tragga ragioni di vita da una fonte diversa dalla elezione”), riflesso di una concezione intellettualistico-elitaria e quasi trascendentale, che si concretizza nel moderno tecnocrate chiamato a far valere nel proprio operato esclusivamente le conoscenze scientifiche in accordo con la teoria dominate.

Dunque, Einaudi si conferma come un intellettuale ottocentesco, il cui ortodosso approccio scientifico sarà messo in discussione da tutto un filone filosofico fondato sul razionalismo critico e su una visione di società aperta alle idee, in grado di adottare di volta in volta le soluzioni più conformi alla situazione contingente. Le radici politiche del pensiero einaudiano restano ancorate in un piemontesismo aristocratico (“Noi non possiamo dimenticare che il Piemonte e la Casa Savoia con una lotta secolare avevano respinto da un lato, sino al Ticino, spagnuoli e tedeschi e dall'altro lato, sino alle Alpi, i francesi), in virtù del quale immagina una corte che più che agire come soggetto super partes si afferma come primus inter pares, fondando la propria sovranità su una presunta superiorità, frutto di tradizione storica e sapienza, che le permette di interpretare liberamente la volontà popolare, concetto che esprime con inequivocabili parole: “Una monarchia la quale nei giorni ordinari sia il simbolo rappresentativo dell’unità della patria e della concordia dei cittadini, circondata da una corte austera, i cui membri siano scelti dal Re e dalla Regina sentito il parere conforme del primo ministro, ed adempia all’ufficio di tutrice della costituzione e di organo della volontà del popolo nei momenti supremi della vita della nazione, quando le altre forze politiche si dimostrano incapaci ad esprimere un governo stabile.”

Il giorno che fu chiamato ad assumere la carica di presidente, Einaudi non solo non ebbe indugi nonostante la l’avversa posizione politica alla repubblica in occasione del quesito referendario (2-3 giugno 1946), ma ne approfittò per piegare il dettato costituzionale alle proprie personalissime convinzioni monarchiche, europeiste e liberiste, cosa che avvenne con la formazione dell’esecutivo Pella, scelto senza l’indicazione dei partiti e primo esempio di governo del presidente, o presidente-monarca, e con le continue interferenze sia nella nomina dei ministri, sia, ma questa volta con piena legittimità, nel rinvio di leggi al parlamento per motivi ordinamentali o per mancata copertura finanziaria, in base a quell’art. 74 per il quale aveva mediato fino a far prevalere nell’accesa discussione assembleare la linea conservatrice Mortati-Bozzi, che lo sosteneva, nei confronti dell’ala riformista socialista e comunista, che lo valutava come un’ingerenza inaccettabile nell’attività legislativa.
 

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