L'inizio della fine per l'Arabia Saudita?

L'inizio della fine per l'Arabia Saudita?

A. Evans-Pritchard: "Il regime saudita può entrare in crisi prima del collasso dell'inustria petrolifera americana"

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di Ambrose Evans-Pritchard
(Telegraph)

Traduzione di Franco per ComedonChisciotte
 
E' troppo tardi perché l'OPEC possa fermare la rivoluzione dello “shale”. Ogni aumento dei prezzi petroliferi sarà limitato dall’aumento della produzione statunitense. L’OPEC si è di fatto sciolta. Era comunque veramente poco quello che avrebbe potuto fare per combattere i progressi della tecnologia americana. I costi di perforazione nel settore dello “shale” si sono ridotti del 50% e si ridurranno di un ulteriore 30% in un prossimo futuro. Ulteriori giacimenti da sfruttare in Argentina, Australia e Cina. La spesa sociale è l’unico collante che tiene insieme il medievale regime wahhabita, catturato nella versione mediorientale della “Guerra dei Trent'anni”.
 
Se il mercato dei futures sul petrolio esprime valori corretti, l'Arabia Saudita comincerà a trovarsi nei guai nel giro di due anni e sarà in piena crisi esistenziale entro la fine del decennio.
 
Il prezzo del petrolio statunitense, con consegna a Dicembre 2020, è attualmente a 62,05 dollari/barile, la qual cosa implica un drastico cambiamento nel panorama economico sia del Medio Oriente che di tutti i paesi dipendenti dalla rendita petrolifera.
 
I sauditi hanno fatto un’enorme scommessa, lo scorso Novembre, quando hanno smesso di sostenere i prezzi del petrolio scegliendo d’invadere il mercato per scacciare i rivali, aumentando la propria produzione fino a 10,6 milioni di b/d [barili al giorno], in faccia alla recessione.
 
Se l'obiettivo era quello di soffocare il settore degli “idrocarburi di scisto” negli Stati Uniti, i sauditi hanno malgiudicato la situazione, sottovalutando grossolanamente la minaccia crescente dello “scisto”.
 
La “Bank of America” sostiene che l’OPEC si è ormai "effettivamente sciolta" … e potrebbe anche chiudere i suoi uffici a Vienna, risparmiando così del denaro.
 
La Banca Centrale Saudita, nel suo ultimo rapporto sulla stabilità, ha sostenuto che: "Contrariamente a quanto si era pensato, è ormai evidente che i produttori non-OPEC non sono poi così sensibili ai bassi prezzi del petrolio, almeno nel breve periodo".

Ed ha aggiunto: "La conseguenza principale [dei prezzi bassi] è stata la sospensione nello sviluppo dei nuovi pozzi di petrolio, e non la riduzione dell’estrazione dai pozzi esistenti. Per ottenere quest’effetto ci vuole una maggiore pazienza".
Un esperto saudita è stato molto schietto: "La politica non ha funzionato e non funzionerà mai".

Provocando il crollo del prezzo del petrolio, i sauditi ed i loro alleati nel Golfo hanno certamente eliminato una serie d’iniziative ad alto costo nell'Artico russo, nel Golfo del Messico, nelle acque profonde del medio-Atlantico e nel Canada – con riferimento alle sabbie bituminose presenti in questo paese.

I consulenti della “Wood Mackenzie” affermano che le maggiori compagnie nel settore degli idrocarburi hanno accantonato 46 grandi progetti, rimandando investimenti per 200 miliardi di dollari.

Il problema, per i sauditi, è che il settore statunitense degli idrocarburi di scisto non è ad alto costo, è per lo più mediamente costoso. Come ho riferito nei reports sul forum energetico “CERAWeek” che si è tenuto a Houston [1], gli esperti dell’IHS pensano che quest’anno le aziende del settore “shale” possano ridurre i costi del 45% – e non solo perché estraggono, intelligentemente, solo dai pozzi ad alto rendimento.

Fino ad ora gli operatori del settore si sono cautelati con dei “contratti di copertura” [ritiro garantito delle quantità estratte]. Lo stress-test arriverà nei prossimi mesi, perché questi contratti sono in scadenza. Ma anche se decine dei “sovraesposti frackers” dovessero fallire, conseguenza dei mancati finanziamenti, non ci sarà comunque niente di buono per l’OPEC.
I pozzi saranno ancora lì, insieme alla tecnologia e alle infrastrutture. Le aziende più forti assorbiranno quelle più deboli ad un prezzo molto basso, rilevando i loro progetti. Una volta che il petrolio dovesse di nuovo arrampicarsi a 60 d/b, o anche a soli 55 d/b – dal momento che la soglia dei costi continua a scendere – potranno alzare la produzione in modo quasi istantaneo.
L’Opec deve ora affrontare un permanente vento contrario. Ogni aumento del prezzo sarà limitato da un aumento della produzione negli Stati Uniti. L'unico vincolo sarà quello della reale dimensione delle riserve statunitensi che possono essere estratte a metà prezzo, ma questa dimensione potrebbe essere molto più grande di quanto si era inizialmente supposto … per non parlare delle possibilità parallele in Argentina e in Australia, o della possibilità del "fracking pulito" in Cina – la tecnologia del “plasma a impulsi” [6] taglia il fabbisogno idrico necessario per l’estrazione.

L'Arabia Saudita si è effettivamente arenata. Questo paese basa sul petrolio il 90% delle sue entrate di bilancio. Non c'è nessun altro settore di cui parlare, dopo ben 50 anni dall’inizio del boom petrolifero.

I cittadini non pagano le tasse sui redditi, sugli interessi o sui dividendi azionari. La benzina, sovvenzionata, costa 12 centesimi [di dollaro] al litro. L'elettricità viene venduta a 1,3 centesimi al chilowattora. La spesa clientelare è esplosa, dopo la “Primavera Araba”, per soffocare il dissenso.

Il Fondo Monetario Internazionale stima che il deficit di bilancio raggiungerà il 20% del PIL, quest'anno, ovvero circa 140 miliardi di dollari. Il “prezzo dell'equilibrio fiscale” è 106 d/b [l’immagine a seguire indica il prezzo in dollari/barile cui il petrolio dovrebbe essere venduto perché i paesi indicati possano pareggiare il bilancio pubblico 2015].
 
Lungi dal ridurre le spese, Re Salman continua a sperperare i soldi del paese. Ha elargito un bonus di 32 miliardi di dollari, in occasione della sua incoronazione, per tutti i lavoratori ed i pensionati.

Ha inoltre lanciato una guerra molto costosa contro gli Houthi dello Yemen ed è impegnato in una massiccio rafforzamento militare – del tutto dipendente dalle armi importate – che spingerà l'Arabia Saudita al quinto posto nella classifica mondiale dei paesi che più spendono per la difesa.

La famiglia reale saudita sta guidando la causa sunnita contro l’arrembante Iran sciita, in un'aspra lotta per il predominio in tutto il Medio Oriente.

Jim Woolsey, il precedente Direttore della CIA, ha dichiarato che: "In questo momento i sauditi hanno una sola cosa in mente, gli iraniani. Il problema è molto serio. I procuratori dell’Iran sono attivi in Yemen, Siria, Iraq e Libano".

Il denaro è cominciato ad uscire dell'Arabia Saudita [per fini clientelari esterni] dopo la “Primavera Araba”, con un deflusso netto di capitali pari all’8% annuo del Pil, anche prima del crollo del prezzo del petrolio. Il paese, da allora, sta bruciando le sue riserve in valuta estera ad un ritmo vertiginoso.

Le riserve, che erano salite a 737 miliardi di dollari nel mese di Agosto del 2014, sono scese a 672 miliardi a Maggio di quest’anno. Ai prezzi correnti, sono in calo di almeno 12 miliardi al mese.

Khalid Alsweilem, un ex funzionario della Banca Centrale Saudita, ora occupato presso la Harvard University, ha detto che il deficit di bilancio deve essere coperto quasi dollaro per dollaro, attingendo alle riserve.

Le riserve finanziarie saudite non sono particolarmente grandi, considerando il sistema di cambio fisso del paese [con il dollaro]. Kuwait, Qatar e Abu Dhabi hanno riserve pro-capite tre volte maggiori.

Ed ha aggiunto: "Noi siamo molto più vulnerabili [degli altri Paesi del Golfo]. E’ questo il motivo per cui il nostro rating sovrano, AA-, è solo al quarto posto fra i Paesi del Golfo. Non possiamo permetterci di perdere il nostro cuscino [l’ammortizzatore costituito dalle riserve] nei prossimi due anni".

Standard & Poor ha abbassato l'outlook a "negativo" lo scorso mese di Febbraio: "Consideriamo l'economia dell'Arabia Saudita come non diversificata e vulnerabile al calo, notevole e costante, dei prezzi del petrolio".

Il Sig. Alsweilem ha scritto, in un relazione per la Harvard University, che l'Arabia Saudita possederebbe ulteriori assets per 1.000 miliardi di dollari, se avesse adottato il modello norvegese – ovvero un fondo sovrano per rimettere in circolo il denaro, invece di utilizzarlo come un salvadanaio a disposizione del Ministero delle Finanze.

Questa relazione ha causato una tempesta, a Riyadh. "Siamo stati fortunati in passato, perché il prezzo del petrolio ha recuperato per tempo. Ma non possiamo contarci di nuovo", egli ha concluso.

L’OPEC si è interessata della questione dello “shale” troppo tardi anche se, forse, era veramente poco quello che avrebbe potuto fare per combattere i progressi della tecnologia americana.

Col senno del poi, è stato un errore strategico tenere i prezzi così alti per così tanto tempo [palese il riferimento a quando il petrolio quotava ben oltre i 100 d/b], permettendo ai frackers – e all'industria del solare – di “diventare grandi”. Il “genio” non può più essere rimesso nella bottiglia.

I sauditi, ora, sono intrappolati. Anche se avessero fatto un accordo con la Russia e orchestrato un taglio della produzione per far aumentare i prezzi – fatto tutt'altro che semplice – avrebbero potuto guadagnare solo qualche anno, rimandando più in là nel tempo la produzione degli idrocarburi di scisto.

In ogni caso, le riserve saudite [in valuta estera] potranno scendere fino a 200 miliardi di dollari entro la fine del 2018. I mercati reagiranno molto prima, vedendo la scritta sul muro. La fuga dei capitali accelererà.
Il governo potrà tagliare gli investimenti, per un po' di tempo – come ha fatto a metà degli anni ’80 – ma alla fine dovrà affrontare un'austerità draconiana. Non può permettersi né di sostenere l'Egitto né di tenere in vita l’esorbitante macchina del clientelismo politico in tutto il mondo sunnita.

La spesa sociale è l’unico collante che tiene insieme il medievale regime wahhabita, considerando l’agitazione della minoranza sciita nella provincia orientale, gli attacchi terroristici dell’ISIS e i contraccolpi dell'invasione dello Yemen.
C’è solo la spesa “diplomatica” alla base della sfera d’influenza dell’Arabia Saudita, catturata nella versione mediorientale dell’europea “Guerra dei Trent'anni”, ed ancora convalescente dagli shocks derivati dall’aver schiacciato una rivolta democratica [la Primavera Araba].

Possiamo tuttavia constatare che l'industria petrolifera statunitense ha una maggiore capacità di resistenza rispetto al traballante edificio politico dell'OPEC.

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