MORALE, IMPERO E LA FORMA SILENZIOSA DELLA GUERRA

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MORALE, IMPERO E LA FORMA SILENZIOSA DELLA GUERRA

 

di Pasquale Pas Liguori

 

A poco più di due anni dal 7 ottobre, si parla di tregua. Non cadono bombe, si dice, ma i confini restano chiusi, l’assedio continua e il furto della terra e delle vite non conosce interruzioni. L’assenza momentanea di bombardamenti non è affatto pace, è la forma silenziosa della guerra: la prosecuzione dell’ordine coloniale con altri mezzi.

Nel linguaggio del potere, la tregua è il meccanismo che consente di preservare la violenza mentre la si nega, il momento in cui l’impero sospende la distruzione per riaffermare la propria capacità di gestirla. È, in sostanza, una pace amministrata, in cui la brutalità diventa compatibile con la normalità.

Questo tempo sospeso non è soltanto politico: è, prima di tutto, morale. È il tempo in cui si riorganizza la coscienza occidentale, che negli ultimi mesi si è esercitata nella contrizione, nei cortei e nei balconi, nelle bandiere e negli slogan di solidarietà. Un moto collettivo apparso come risveglio ma rivelatosi, a conti fatti - come si era paventato, non senza attirare polemiche - un gesto di purificazione. Non la nascita di un nuovo pensiero politico, ma un rito di espiazione collettiva: il tentativo di liberarsi dal senso di colpa, non di tradurlo in progetto di trasformazione.

Vale allora la pena rianalizzare uno dei fondamenti politici più imprescindibili e oggi più adulterati: il valore insostituibile della resistenza. È un concetto che la morale pubblica ha svuotato di ogni significato storico e che i media e la cultura liberal hanno trasformato in un reperto linguistico da addomesticare e neutralizzare. La resistenza, da categoria politica, è stata ridotta a categoria morale; da pratica di liberazione a problema di “equilibrio”.

Chi il 7 ottobre si è affrettato a condannare “senza se e senza ma” non ha espresso un giudizio etico, ma un atto di sottomissione all’ordine simbolico dell’impero: un modo per garantirsi sopravvivenza e riconoscimento nel panorama dello show politico-mediatico occidentale. Dietro quella compostezza si celava la paura di nominare l’ingiustizia, di violare il linguaggio accettabile dell’impero. Gli stessi interpreti — politici, accademici, giuristi, opinionisti — quando parlano di “ripristino della legalità” o di “territori occupati” brandiscono i codicilli dei doppi standard del diritto internazionale e si rifanno, come se nulla fosse accaduto, ai confini del 1967, cancellando la storia più lunga e radicale della resistenza palestinese. Nel loro discorso, ciò che non rientra nel perimetro della legalità occidentale non esiste; ciò che eccede la diplomazia non è degno di diritto. Ma proprio questa riduzione della lotta a questione di regolarità giuridica costituisce la forma più subdola della complicità, perché legittima l’idea che la liberazione debba essere amministrata dall’oppressore. Chi depoliticizza la resistenza in nome dell’ordine, chi la subordina alla misura dell’accettabile, è oggi il miglior alleato del capitale imperialista: sacerdoti della moderazione, paladini falsari delle istanze di giustizia e di autodeterminazione palestinese. È anche per colpa loro che i palestinesi restano soli nella loro lotta — nobile, ribelle, disperata — contro un mondo che li osserva per lavarsi la coscienza e li giudica per restare innocente.

Domenico Losurdo lo descriveva con estrema lucidità: la violenza rivoluzionaria è l’effetto, non la causa, della violenza dell’ordine costituito. Ogni sistema che si presenta come garante della pace è fondato su una violenza originaria, quella che decide chi può esistere, chi può parlare, chi può uccidere senza essere nominato. L’ordine mondiale si regge su questa asimmetria e la chiama civiltà. Ma quando la violenza torna dal basso, quando l’oppresso rompe la gabbia, l’ordine reagisce non soltanto con le armi, bensì con la morale. È allora che la distinzione tra violenza e terrorismo diventa operativa: serve a riaffermare il diritto dei dominanti a essere violenti senza sembrare tali. Il colonizzato che resiste è “terrorista”; il colonizzatore che bombarda è “legittimato”. È un formulario etico che sostituisce la politica e sterilizza la storia. Il 7 ottobre è stato giudicato attraverso questa lente, come un atto fuori dalla morale e dunque fuori dal mondo. Eppure, ciò che l’Occidente chiama “terrorismo” è spesso il momento in cui la storia rientra nella realtà, spezzando la continuità della menzogna.

La morale liberale non è il contrario della violenza: ne rappresenta la forma più evoluta. Giustifica l’ingiustizia trasformandola in necessità, eleva la sofferenza a spettacolo e concede compassione solo a condizione che la vittima resti tale. L’umanesimo coloniale accetta il dolore degli oppressi, ma non la loro liberazione. Per molti teorici occidentali i popoli oppressi meritano solidarietà solo finché non pretendono di costituirsi in soggetto politico. È in quel momento - quando reclamano una propria sovranità - che la solidarietà si ritira e la morale torna a difendere lo status quo.

La resistenza palestinese, che è insieme resistenza nazionale e di classe, lotta per la dignità e per lo Stato, contraddice l’intero orizzonte morale dell’Occidente. Non chiede integrazione ma autonomia, non chiede riconoscimento ma sovranità. È la negazione vivente dell’umanitarismo come sostituto della politica. Chi condanna “senza se e senza ma” la violenza dell’oppresso accetta, consapevolmente o meno, la violenza strutturale dell’ordine, accetta che la legge del più forte venga tradotta in linguaggio giuridico e che la guerra diventi diritto.

Le manifestazioni che hanno attraversato i Paesi occidentali e il nostro in particolare nei mesi passati - le piazze, i cortei, i sudari ai balconi, la flottiglia verso Gaza - hanno rappresentato un momento importante ma fragile. Sono state una reazione sincera, ma prive di fondamento politico. Il loro impulso era quello di una coscienza penitente, non di una strategia collettiva. Una pseudo-moltitudine che ha scambiato il disagio morale per rivoluzione. Ne restano oggi soltanto frammenti, cespugli di protesta. Attorno a questi resti si muovono, con il linguaggio dell’attivismo e della teoria, figure che da decenni parlano di trasformazione mentre restano comodamente integrate nel potere che denunciano. La moltitudine - illusione di un soggetto globale alternativo alla classe - si è di nuovo rivelata per ciò che è: una finzione accademica, costruita da chi non ha più alcuna relazione con la produzione, con il lavoro, con la materia della storia. Non esiste rivoluzione senza classe, e non esiste classe senza radicamento. La resistenza palestinese, al contrario, è radicata nella terra, nella fame, nell’assedio: è il contrario esatto della politica occidentale dell’immaginario, che sostituisce la prassi con la rappresentazione.

I palestinesi tornano soli. Soli davanti alle macerie e ai tribunali, soli davanti ai giornali che li trattano come una fastidiosa eccezione - les gêneurs, come li definì Gilles Deleuze in un celebre editoriale: i rompicoglioni. Li abbiamo lasciati soli perché il nostro antifascismo di maniera implode ai margini dei confini europei e la nostra solidarietà, più estetica che politica, serve solo a proteggerci dal senso di colpa, non a condividere il rischio della loro lotta. Le piazze non hanno prodotto coscienza di classe ma soltanto emozione collettiva, e l’emozione, quando non diventa organizzazione, evapora. La resistenza palestinese è oggi ciò che resta della politica come conflitto reale, non simbolico. È il luogo in cui si gioca l’ultima forma di internazionalismo concreto. Per questo l’Occidente non la tollera: perché la costringe a guardarsi allo specchio e a riconoscersi come potenza imperiale, non come civiltà.

La cosiddetta tregua non è che la conferma dell’ordine mondiale: un ordine che si proclama pacifico ma vive della guerra. Finché la pace resterà la forma elegante della violenza, ogni condanna moralista continuerà a far parte del crimine. La resistenza palestinese non ha bisogno di essere santificata: ha bisogno di essere compresa come lotta politica e di classe. Chi la riduce a tragedia umanitaria o a errore morale si colloca inevitabilmente dalla parte dell’impero, perché solo chi accetta l’idea che la liberazione possa essere violenta riconosce, davvero, che la pace debba essere giusta.

 

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