Venezuela, la lezione del 4Febbraio

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Venezuela, la lezione del 4Febbraio

Per il Venezuela, questo è un nuovo febbraio ribelle, nel quale ricordare due date considerate l’avvio del processo bolivariano: l’insurrezione civico-militare guidata dall’allora tenente colonnello Hugo Chávez Frias, il 4 febbraio del 1992, e un altro fatto che l’ha in qualche modo preceduta e preparata: la rivolta popolare spontanea contro il neoliberismo denominata Caracazo, che ha avuto luogo il 27 febbraio 1989. L’insurrezione di Chávez, che ha avuto anche un secondo momento a novembre, come si sa, non andò in porto, ma lasciò una traccia profonda nel popolo stremato dalle misure imposte dal Fondo Monetario Internazionale e buone basi politiche per riprendere il discorso una volta che Chávez lascerà il carcere per un indulto concesso a furor di popolo.

Cosa può dire quel tentativo insurrezionale fallito all’America Latina di questo secolo e cosa può dire alle classi popolari dei paesi capitalisti, frammentate e annichilite da una sconfitta che sembra non avere mai fine? Sicuramente che la lezione del marxismo, che la visione materialista della storia come storia di lotta di classe e scontro di interessi, è più che mai valida: perché le talpe del comunismo continuano a scavare e sbucano dove meno te l’aspetti, magari sporche di terra, ma ben presenti. Secondo, che difficilmente si rimette in moto qualcosa di solido, senza attingere fortemente alle radici del socialismo, senza un bilancio dei tentativi rivoluzionari, riusciti o falliti. E terzo, che per ricominciare, come diceva Chavez, a riorganizzare le catacombe del popolo, occorre una forte assunzione di responsabilità, il coraggio di battere sentieri impervi, quello di dare l’esempio affinché sia condiviso. Non si tratta, ovviamente, di formule magiche, ma della necessità di riorganizzare la soggettività a partire da una visione alta, ancorché ben radicata.

Certo, l’insurrezione del 4 febbraio s’inseriva nella storia concreta del Venezuela, nell’origine popolare dei suoi soldati, nella saldatura con gli operai e i contadini che si è creata nel corso di alcuni precedenti tentativi insurrezionali accompagnati dalle guerriglie che combattevano le democrazie camuffate della quarta repubblica. E certo quel tentativo ha avuto luogo nel contesto del secolo scorso quando cercare di incendiare la prateria era una strategia praticata nel solco di solide tradizioni, e in un continente in cui i militari progressisti avevano accompagnato le lotte popolari: certo in misura minore a quanto i gorilla di Washington li avessero repressi, ma in maniera comunque significativa.

Trasmettere adeguatamente quella memoria, dunque, è un compito del presente, a fronte della battaglia della borghesia che cerca, anche nei paesi socialisti, di confondere le giovani generazioni. E anche le definizioni contano. Per la destra, si è trattato di un colpo di stato, per la rivoluzione bolivariana, di un’insurrezione civico-militare che ha fatto cadere le maschere a quei governi, anche socialdemocratici, ma manovrati dalle grandi istituzioni internazionali. Il discrimine è importante. Chiamarlo “colpo di stato”, indica un doppio errore: il ritorno a un “nazionalismo” verticale, scisso dalla componente popolare e di classe, non a caso superato da Chávez nel definire la rivoluzione “socialista e bolivariana” e con la fondazione del Psuv. Oppure, insidiosamente, significa connotare negativamente il diritto dei popoli alla rivolta, anche armata, e anche contro le democrazie camuffate, condannandoli alla pace del sepolcro.

Significa scindere il legame della memoria, creando un effetto di rigetto nelle giovani generazioni, allontanandole dalle parole del Comandante: “Siamo una rivoluzione pacifica, però armata”. Chávez ricordava invece che, dopo l’insurrezione del ’92, sui muri compariva la scritta: 27F più 4F uguale 31F. Un giorno del calendario ancora da inventare. Un giorno del calendario ancora da costruire.

 Un’analisi che serve a riposizionare i termini della lotta antimperialista anche in un sistema-mondo dominato dal modello capitalista, perché l’integrazione latinoamericana è un freno all’egemonia statunitense, ma anche un’indicazione che si può costruire un blocco continentale non asimmetrico come l’Unione europea e non subalterno alle grandi istituzioni internazionali. E che la parola pace, per non essere un involucro vuoto, deve assumere fino in fondo la durezza della lotta di classe e sconfiggere la borghesia per potersi coniugare alla giustizia sociale.

 

Cosa questo implichi ce lo dice la resistenza di Cuba, che ha ricordato i 60 anni di bloqueo criminale imposto dagli Stati Uniti e tutt’ora vigente. Lo stesso blocco imposto, in modo ulteriormente articolato, al Venezuela bolivariano che, proprio per la sua resistenza, resta la bestia nera dell’imperialismo, lo spauracchio agitato dalle destre a ogni elezione che avviene in america latina. “Vogliono ridurre questo paese come il Venezuela”, si dice lasciando intendere che quello bolivariano sia uno stato fallito e che il socialismo in tutte le sue forme sia da buttare. E così, il neoeletto presidente del Cile, Gabriel Boric, non perde occasione per esprimere giudizi negativi sul governo bolivariano. E così, il candidato colombiano (di centro-sinistra), Gustavo Petro cerca di allontanare il più possibile ogni accostamento con il socialismo bolivariano.

Cosa offra invece alle classi popolari il modello capitalista si capisce guardando dietro le quinte del circo insopportabile a cui partecipano anche i dominati nei paesi capitalisti. Va visto analizzando l’arroganza con cui l’imperialismo si mette sotto i piedi ogni parvenza di legalità nei paesi del sud dove qualche presidente progressista vince le elezioni com’è accaduto in Perù. Il maestro Pedro Castillo è già arrivato al suo terzo rimpasto di governo, ormai è accerchiato da personaggi imposti dalla destra per disinnescare ogni parvenza di cambio sociale. Il governo cerca di puntare i piedi contro la multinazionale che ha compiuto un altro gigantesco disastro ambientale, ma con quali strumenti date le condizioni? In Honduras, gli Stati Uniti cercano con ogni mezzo di disinnescare o addomesticare il programma di Xiomara Castro, la prima presidenta che ha comunque intorno una rete di compagni decisi a non mollare.

Domenica ci saranno le elezioni in Costa Rica, presidenziali e legislative, caratterizzate dall’assenza di proposta alternativa dei più quotati fra i 25 candidati alla presidenza. L’attuale governo continua a riconoscere l’autoproclamato Guaidó, nonostante questi abbia fallito miseramente anche il tentativo di raccogliere le firme per revocare il presidente Nicolas Maduro. Ma, come si sa, i burattini dell’imperialismo non devono dar conto al popolo, ma ai loro manovratori. E quando i manovratori riescono a mettere a capo dei governi le pedine giuste, a queste tocca soltanto il compito di eseguire i piani delle grandi istituzioni internazionali. Come si è visto in Argentina quando ha governato Macri, che ha indebitato fino al collo il paese con il Fondo Monetario Internazionale. Come si vede in Ecuador con il ritorno del banchiere Lasso. E come si vede anche nei paesi dell’Unione Europea.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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