Andrea Zhok - L’Epoca pericolosa del vittimismo assassino

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Andrea Zhok - L’Epoca pericolosa del vittimismo assassino

 

di Andrea Zhok*


Quando si scopre che la maggioranza (73% secondo l’ultimo poll) della civile, colta, democratica popolazione israeliana supporta una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi non ci si può che chiedere: com’è possibile che ciò accada? Com’è possibile che qualcuno di fronte a manifeste, continue forme di prevaricazione e violenza nei confronti di soggetti innocenti (bambini, anziani, civili) continui a difendere serenamente queste attività?

La risposta è in effetti semplice: nel caso della popolazione israeliana si tratta di una popolazione che ha introiettato educativamente una visione di sé come vittime della storia, come soggetti fragili ed oppressi, che perciò hanno un implicito diritto di “autodifesa preventiva” a 360°.

In sostanza, essendo “noi” in credito con la storia e l’umanità, ci possiamo permettere ciò che altri non possono permettersi. La posizione di vittima esemplare ci pone in una insuperabile posizione di superiorità morale, che semplifica di molto ogni decisione: non devo soppesare torti e ragioni perché tutto ciò che faccio ricade per definizione sotto una forma di “legittima difesa preventiva”. Basta assumere che l’altro possa rappresentare, da un qualunque punto di vista, una minaccia per me, e io sono legittimato dal mio ruolo di vittima a ricorrere a qualunque forma di iniziativa soppressiva.

Una dinamica perfettamente analoga può essere scorta nelle legittimazioni “progressiste” che fioccano in questi due giorni dell’omicidio di Charlie Kirk.
In rete sono visibili un gran numero di dibattiti pubblici con Kirk come protagonista. In tutti quelli che ho visto si vede una discussione autentica, con posizioni ragionate e motivate. Non bullismo, non violenza verbale, nessuna censura, ed anzi l’esporsi ad un confronto anche parecchio scomodo come quello che avviene quando di fronte hai numerosi studenti universitari su posizioni avverse. Che in alcuni casi lo scrivente concordi con il ragionamento svolto e in altri no, è ovviamente irrilevante. Nessun confronto di questa qualità è disponibile da decenni, per dire, nel panorama del dibattito televisivo italiano, dove i Talk Show sono arene manipolate dove prevalgono tagli, bullismo, violenza verbale, battute invece di argomentazioni.

Dopo di che in rete circolano una infinita serie di presunti virgolettati in cui le posizioni di Kirk appaiono come attacchi performativi passibili di denuncia come “hate speech”. Ora, conoscendo la severità della legislazione americana a proposito, credo sia legittimo ipotizzare che gran parte di quei presunti virgolettati siano semplicemente dei fake. In alcuni casi la cosa è già emersa (c’è in rete uno scambio abbastanza patetico in cui Stephen King prima attribuisce a Kirk alcune tesi inqualificabili sulla lapidazione dei gay, solo per poi ritirare tutto e chiedere scusa per non aver verificato le fonti).

Come noto esiste in ogni legislazione un confine tra l’argomentazione e il discorso performativo. Se faccio un discorso teorico sul suicidio è una cosa, se consiglio ad un conoscente fragile di suicidarsi è tutt’altra: il secondo è un reato ed è punito dai rigori della legge perché sto usando la parola come un’azione, come una spinta a commettere qualcosa di male (qui un suicidio).

Nelle argomentazioni svolte da Kirk nei campus ciò che traspare spesso è il senso di profonda frustrazione di un uditorio studentesco in generale – spiace dirlo – semplicemente meno sveglio e meno colto dell’opponente. Studenti abituati a darsi reciprocamente ragione su generalizzazioni e luoghi comuni che scoprono, per una volta in cui sono esposti ad un confronto vero, che sanno davvero poco e che hanno capito ancora meno.

La frustrazione è comprensibile.

Ma la frustrazione non basta a spiegare il fiume di commenti entusiasti, divertiti, soddisfatti, compiaciuti, ecc. di fronte all’assassinio di un intellettuale conservatore che si esponeva a pubblici dibattiti nel mezzo di campus a prevalenza progressista.

Alla frustrazione bisogna aggiungere il meccanismo mentale del VITTIMISMO, di cui sopra. Per una parte significativa del progressismo è un dato culturale acquisito che essi stanno parlando dal punto di vista degli oppressi, anzi, di soggetti costantemente minacciati esistenzialmente. (Si immaginano proletari spossessati anche se sono figli di Bezos. Si immaginano minoranze sessuali oppresse anche se sono notori fruitori di sesso mercenario.) L’onnipresente riferimento al “fascismo” delle controparti serve ad evocare l’immagine di una situazione in cui la violenza è motivata ed anzi doverosa, in quanto è autodifesa contro la prevaricazione violenta altrui. Comprensibilmente con le SS non si discute di filosofia, perché mi mettono su un carro blindato, dunque qui la violenza è giusta.

Il problema, naturalmente, è che un ponte di iperboli retoriche conduce molti degli odierni progressisti a proiettare quel passato storico su situazioni presenti che non hanno niente a che vedere con quegli antecedenti. Se qualcuno sostiene il binarismo sessuale, non sta conducendo nessuno ad un forno crematorio; se qualcuno sostiene l’erroneità dell’aborto non ti sta puntando un fucile addosso, ecc.

Questa che sembra un’ovvietà non viene affatto percepita come un’ovvietà da un’enorme parte della popolazione progressista, dove infatti prosperano meccanismi mentali come la cancel culture, che è appunto il tentativo di rimuovere dall’esistenza, retrospettivamente, tutto ciò che minaccia o destabilizza le mie convinzioni presenti. Siccome le ragioni a sostegno di quelle che per me sono diventate convinzioni esistenziali sono traballanti, e siccome io, sotto sotto, so che lo sono, allora mi sento esistenzialmente minacciato dal fatto stesso che qualcuno porti alla luce opinioni frontalmente avverse.

Una volta innescato questo meccanismo, io, progressista fragile, per definizione oppresso o dalla parte degli oppressi, appaio ai miei propri occhi come vittima attuale o potenziale, vittima di ragioni altrui che, se lasciate libere di esistere, potrebbero mettere a repentaglio la mia fragile esistenza, la mia stessa tremolante identità.

E dunque, bando agli indugi, a chi viene designato come “fascista”, “negazionista”, ecc. è legittimo fare tutto, perché qualunque risposta sarà semplicemente una forma di autodifesa preventiva.

Va da sé che un tale meccanismo di polarizzazione, incapace di dare spazio alle mediazioni argomentative, genera progressivamente un’atmosfera da guerra civile, da lotta senza esclusioni di colpi di tutti contro tutti. È del tutto prevedibile che eventi come l’assassinio di Kirk diano il via libera non ad un ampliamento degli spazi di dibattito e libertà di parola, ma al contrario a forme di stigmatizzazioni aggressive ed ottuse, eguali e contrarie – molto lontane da ciò che Kirk faceva.

Così come un conservatore razionale può essere giustiziato in quanto minaccia fascista, similmente accadrà che un sinistrorso “marxista” potrà essere inquadrato come un pericolo pubblico potenziale (storia peraltro già ampiamente vista negli USA).

E quando gli argomenti scompaiono e rimane solo il conflitto, senza mediazione, gli esiti sono sempre catastrofici, chiunque alla fine prevalga.


*Post Facebook del 14 settembre 2025

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