Il resettaggio bellico del sistema-mondo
di Geraldina Colotti
Di fronte a un'escalation bellica che sta superando tutti i livelli di guardia, i richiami alle norme che regolano i conflitti a livello internazionale per evitare una guerra nucleare (tra i quali quello dello scienziato italiano, Giorgio Ferrari, e il tardivo ripensamento dei vertici dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica -Aiea -), sembrano destinati al vuoto, consegnati a un deserto, di sordità o di impotenza.
Intanto perché i due principali attori che spingono il mondo verso la catastrofe - gli Stati uniti e il regime sionista, il padrone imperiale e il suo cane da guardia, sempre scalpitante e ora senza freni - si considerano al di sopra delle regole, avendo rifiutato di firmare qualunque trattato che ne limitasse l'azione.
Né gli Usa né la sua rabbiosa propaggine, messa a guardia degli interessi occidentali in Medioriente, hanno infatti ratificato i Protocolli aggiuntivi del 1977 della convenzione di Ginevra, che vietano il bombardamento dei siti nucleari. “Israele” (al pari di India e Pakistan) non ha d'altronde firmato neanche l'originario Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp), entrato in vigore nel 1970 e sottoscritto da quasi tutti i paesi del mondo, e considerato il punto più alto del contenimento collettivo deciso nel secolo scorso. E ha continuato a sviluppare il suo arsenale nucleare e quello di menzogne, coperte dagli Usa, dalla Francia e poi dall'Unione europea.
L’Italia, per esempio, il cui governo erede del fascismo non ha votato per il riconoscimento dello Stato di Palestina, ritenendo che debba avvenire “nel quadro di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi e non unilateralmente”, si è spesso astenuta nelle votazioni all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite su risoluzioni che avrebbero potenziato i diritti della Palestina come Stato osservatore. In concreto, fa grossi affari con il regime sionista, e gli fornisce elicotteri, cannoni navali ed altri armamenti, ma anche componenti dei caccia F-35, vettori di armi nucleari.
Bisogna ricordare che il Tnp, in uno dei suoi tre punti principali riconosce il diritto di tutti gli stati che fanno parte del trattato di sviluppare la ricerca, la produzione e l'uso dell'energia nucleare per scopi pacifici, con la supervisione dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) per garantire che tale tecnologia non venga deviata per scopi militari. È un punto centrale per capire il livello di disprezzo delle regole che si va imponendo, e l'asservimento all'imperialismo di chi dovrebbe farle rispettare. Si assiste (o si asseconda), perciò, un circo di caos e sopraffazione agito da quello che il presidente russo, Vladimir Putin, ha definito “il collettivo occidentale”: per riferirsi all'insieme di Stati uniti e dei loro alleati, in primis i paesi europei e della Nato.
Il regime sionista, che non ha mai accettato le ispezioni dell'Aiea, e a cui negli anni nessuno ha mai chiesto conto dello sviluppo nucleare, ha già compiuto impunemente almeno due attacchi atomici: nel 1981, quando ha bombardato il reattore iracheno di Osirak, e nel 2007, quando quando ha colpito quello siriano di Al-Kibar. E ora ha alzato il livello, bombardando i siti nucleari iraniani, ben sapendo che l’uranio immagazzinato lì e fuoriuscito dai contenitori, poteva contaminare l'ambiente, poiché, in gran parte, si trattava di Uf6, esafloruro di uranio, conservato sotto forma di gas: che è radioattivo, tossico e reagisce con l'acqua.
L'Aiea questo lo sapeva benissimo, come sapeva benissimo che, con le sue allarmistiche dichiarazioni, pronunciate a dispetto di tutti i controlli che aveva potuto effettuare in Iran e del diritto dello stato persiano a sviluppare il nucleare civile, avrebbe fornito il pretesto dell'attacco a Netanyahu. Come fanno notare gli scienziati onesti, il grado di arricchimento dell’uranio iraniano è al 60% mentre per fabbricare una bomba in grado di esplodere l’arricchimento necessario è per lo meno del 90%. Una differenza niente affatto facile da colmare e che richiede molto più tempo di quello impiegato per raggiungere il 60% di arricchimento.
Tuttavia, il 12 giugno scorso, il giorno prima dell’attacco ai siti nucleari iraniani, il consiglio direttivo dell’Iaea ha diffuso un report in cui accusava Teheran di non essere abbastanza collaborativa, dando il la ai media occidentali per sostenere a gran voce che l'Iran fosse a un passo dal “farsi la bomba atomica” e che per questo costituisse una “minaccia da fermare”. Al consiglio direttivo dell'Iaea, era passata la posizione di Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Germania: gli stessi governi a cui Netanyahu aveva comunicato in anticipo l'attacco all'Iran, nonostante il voto contrario di Russia e Cina. E per questo il governo di Teheran ha accusato i vertici dell'Iaea di aver fornito al regime sionista le informazioni relative ai suoi siti nucleari e all'ubicazione dei suoi scienziati, perché fossero ammazzati.
Il plauso dei regimi occidentali, tacito o palese, per le uccisioni degli scienziati, così come per le bombe sioniste su Gaza, evidenziano un primo punto di non ritorno quanto a violazioni delle regole internazionali: un livello ampiamente imposto dagli Usa e dal regime sionista con la politica dei fatti compiuti e dei cosiddetti “omicidi mirati”, in base all'assioma secondo cui “Israele ha diritto di difendersi”. Così, l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Dannon ha motivato l’operazione “Rising Lion” contro l'Iran come risposta a una “minaccia esistenziale e immediata per i cittadini di Israele e del mondo intero”.
“Abbiamo visto un'opportunità e l'abbiamo colta. Più colpisci duramente, più successo avrai nelle negoziazioni”. Così rispose Netanyahu all'allora presidente nordamericano, Joe Biden, che, a proposito di Gaza, del Libano e del Medioriente, gli faceva notare: “La percezione di Israele nel mondo è sempre più quella di uno stato canaglia”, e gli consigliava di non commettere gli stessi errori commessi dagli Usa in risposta agli attentati alle Torri gemelle nel 2001.
Il giornalista d'inchiesta statunitense, Bob Woodward, racconta l'episodio nel libro War, aggiungendo che, quando le truppe israeliane giunsero a Rafah, a Biden era scoppiato un attacco di bile, e aveva inveito contro Netanyahu chiamandolo “figlio di puttana”, “fottuto bugiardo” e “un cattivo fottuto ragazzo”, privo di “strategia”. Il cane feroce aveva rotto il guinzaglio, emblema di un capitalismo in crisi strutturale, che non controlla più i demoni che scatena.
La dichiarazione di Netanyahu è solo la punta dell'iceberg di un modus operandi imposto dalla borghesia alle classi popolari, mediante le istituzioni internazionali che controlla, per fare i propri interessi senza intralci, lacci e lacciuoli. Mentre parlano di pace, negoziati e mediazioni, governi e istituzioni borghesi preparano il prossimo attacco, ricattando e criminalizzando la resistenza di chi cerca di smascherargli il gioco. “È l'Iran che non vuole mediare”, si dice perciò dopo aver bombardato e ucciso, dando per scontato che il “diritto a difendersi” valga da una parte sola. In nome della “democrazia”, s'impone così il suprematismo bianco di pochi conglomerati, disposti a sciogliere il loro “cane rabbioso” che, come ammette qualche governante europeo, “sta facendo il lavoro sporco per noi”.
Siamo di fronte a un gigantesco tentativo di resettaggio del capitalismo a livello globale, che ha bisogno di manipolare le coscienze, per metterle a tacere, e abituarle all'orrore, come nel caso del genocidio in Palestina.
A questo concorrono gli apparati ideologici di controllo capitalistici a livello globale, in cui spiccano i media europei, che enfatizzano le posizioni dominanti amplificando “la minaccia iraniana” o quella russa, motivando aggressioni e sanzioni, vendite di armi e alleanza geopolitiche mefitiche con la “guerra al terrorismo”: quando, in realtà, queste servono a garantire il controllo sulle risorse strategiche e a mantenere l'egemonia delle potenze imperialiste.
Come emerso anche dalle ricerche recenti, l'Unione Europea stessa ha sviluppato una propria "macchina di propaganda istituzionale", spesso tramite finanziamenti a Ong e think tank, per promuovere una visione pro-Ue, apparentemente tesa a contrastare la “disinformazione”, ma in realtà volta a costruire, orientare e a distorcere il consenso: usata per “disciplinare” l'informazione interna e screditare voci critiche che non si allineano alla politica estera e agli interessi imperialisti dell'Ue nel Medioriente e altrove.
Il secondo rapporto di Norman Lewis, "Manufacturing misinformation: the EU-funded propaganda war against free speech" (Fabbrica di disinformazione: la guerra di propaganda finanziata dalla Ue contro la libertà di espressione), rivela che l'UE avrebbe speso per questo la considerevole somma di 648.890.116 euro per finanziare ben 349 progetti condotti da università e associazioni. Per plasmare e controllare le “narrazioni pubbliche”, la Ue ha creato un organismo specifico chiamato Nodes, il cui nome - Osservatorio delle narrazioni per combattere la disinformazione in Europa a livello sistematico – corrisponde al suo esatto contrario: a seconda che lo si inquadri nella prospettiva del capitalismo o in quella di chi lo combatte.
Per preparare le masse a un nuovo contesto di guerra globale, e per distoglierle dall'orrore sistematico di un genocidio come quello che il regime sionista commette in Palestina, la propaganda mediatica e la guerra cognitiva, in cui anche il cervello diventa “un campo di battaglia”, giocano un ruolo assolutamente centrale: in quanto costituiscono delle armi potenti utilizzate dalle classi dominanti e dal blocco imperialista per manipolare il consenso, delegittimare i nemici e giustificare le proprie azioni.
Dal genocidio in Palestina, al conflitto in Ucraina, al nuovo attacco all'Iran, i conglomerati mediatici imposti come “fonti autorevoli”, manipolano i dati economici o le statistiche, per esempio sulle vittime di guerra e sui danni provocati da chi dev'essere presentato come “invincibile”, creano una nebulosa di interpretazioni frammentate e contrapposte per diffondere la percezione che non esista una verità oggettiva.
Eppure, basta leggere adeguatamente l'ultimo rapporto della Banca Mondiale, che prevede una brusca riduzione della crescita (ai livelli del 2008), per quasi il 70?% delle economie, a parte quelle asiatiche, per capire quanto le guerre imperialistiche e la riconversione bellica delle economie nazionali siano una bombola d'ossigeno per questo modello di “sviluppo”. E per intendere, sul piano geopolitico, dove s'indirizzano le nuove mire espansionistiche, annunciate dalle sparate di Trump.
“L'obiettivo finale della guerra cognitiva è fratturare e frammentare un'intera società, così che essa non abbia più la volontà collettiva di resistere alle intenzioni dell'avversario e venga sottomessa”, ha scritto il generale francese François du Cluzel, specialista in materia di strategie belliche nel contesto moderno. Nel contesto mediorientale, questo significa indebolire la solidarietà tra i popoli oppressi, minare la fiducia nella legittimità di chi li rappresenta, e diffondere un senso di impotenza che impedisca la resistenza all'imperialismo.
Demonizzare e disumanizzare il nemico, serve al contempo a far accettare che, come si vede anche ora in Iran, l'attacco bellico si accompagni al tentativo interno di arrivare con violenza al cosiddetto “cambio di regime”: facendo credere che sia stata la volontà popolare a dare la spallata finale.
In questa chiave va inteso il sostegno all'estrema destra venezuelana, cubana e nicaraguense, i cui rappresentanti chiedono a gran voce che il regime sionista e Trump (a cui promettono di riconsegnare i loro paesi) agiscano come in Palestina e in Iran anche nei propri paesi. Per i governi Ue, questi figuri sono però grandi paladini della democrazia.
Se n'è avuto un ulteriore assaggio giovedì 12 giugno, durante il IV Incontro Regionale del Foro Madrid, inaugurato in Paraguay dal presidente, Santiago Peña, e dal leader del partito di estrema destra spagnolo Vox, Santiago Abascal. Questo forum, che riunisce i partiti e i leader conservatori di destra dell'Iberoamerica e dell'Europa, intende essere una risposta a spazi affini alla sinistra come il Foro di San Paolo e il Gruppo di Puebla.
All'inizio di un panel denominato "Il futuro del Venezuela", è intervenuta Maria Corina Machado, per esortare i suoi compari di estrema destra ad "agire" contro il governo Maduro: “Una volta che avremo cacciato il regime criminale di Maduro, libereremo Cuba, il Nicaragua”, ha vaticinato la golpista in un video diffuso durante la seconda e ultima giornata dell'incontro regionale. “La libertà del Venezuela rappresenta la libertà di tutto il continente”, ha detto. E, anche in questo caso, la sua “libertà” - la libertà di sfruttamento da parte dell'oligarchia - è quella che confligge, in modo assoluto e sistemico, con la libertà delle classi popolari, dentro e fuori dal Venezuela.