Pace e frescura su Gaza: note su una tregua coloniale
di Pasquale Liguori
“Mi sono svegliato questa mattina col pianto del cielo, mescolato al nostro. Come se il paese non facesse che ripetere la stessa scena da decenni: guerre che non finiscono mai. Appena se ne chiude una, se ne apre un’altra; e quando un’altra comincia, scopriamo che quella di ieri non è davvero finita, ma rimasta in agguato dietro ogni angolo. È come se questa terra fosse condannata a un soggiorno eterno nella sala d’attesa della guerra, senza uscita né redenzione. Non ci resta che aggrapparci a una vecchia invocazione: «Pace e frescura su Gaza, una, poi due e poi, ancora, tre volte; infine, su ciò che di noi resta al di là di lei». La ripetiamo come fosse un ultimo incantesimo, pur sapendo che non arresta l’emorragia. Eppure, vi appendiamo ciò che resta della speranza: chissà, forse sarà l’inizio della fine di una ferita che somiglia all’eternità, la fine di un dolore che ignora il verbo dell’andare avanti.”
Così scriveva l’amico e compagno Abdaljawad Omar ieri mattina, a seguito dell’annuncio di un primo accordo tra le parti a Gaza.
Ma se una tregua viene pronunciata come “pace”, bisogna chiedersi: che cosa intendiamo oggi per pace e chi ha l’autorità di pronunciarla? Perché Gaza non è soltanto una tragedia: restituisce all’Occidente la verità del proprio linguaggio, quella “civiltà” che pretende di comprendere tutto, tranne ciò che la mette a nudo.
Abbiamo analizzato, empatizzato, decostruito fino all’esaurimento; eppure, l’ordine del mondo rimane sostanzialmente intatto. L’equilibrio morale simulato del pensiero occidentale non è innocenza: è un metodo di legittimazione del dominio. Mentre l’amministrazione statunitense - per bocca del suo disgustoso presidente - proclama una “pace” dopo avere contribuito attivamente al massacro di decine di migliaia di persone, l’impero si accredita come arbitro del proprio crimine.
Questa “pace” non è fine della guerra: ne rappresenta la prosecuzione per via amministrativa. È ristrutturazione coloniale. Non più carri armati a vista, lievemente arretrati ma sempre incombenti, dietro catene di comando più raffinate: infrastrutture digitali, flussi finanziari, operazioni fiscali per capitali globali. Una “ricostruzione sostenibile” con Gaza laboratorio del dominio umanitario tecnologizzato: confermandosi spazio a bassa intensità di vita e ad ancor più elevata intensità di controllo, dunque, di oppressione.
Nel frattempo, le piazze occidentali continuano a riempirsi: slanci, azioni, slogan, immagini condivise. Ma occorre guardare con lucidità teorica: l’eterogeneità e la disarticolazione di queste masse, l’assenza di una direzione politica comune e il rischio, tutt’altro che remoto, di un autoassorbimento comunicativo non sono segni di un risveglio reale. Vedremo gli sviluppi con speranza e un contributo di idea ma, per ora, tali eventi appaiono del tutto riassorbibili nello schema della società dello spettacolo, che neutralizza la resistenza trasformandola in evento consumabile.
Lo sciame si muove, si fotografa, si espone ma di rado mette in atto strumenti di contropotere. Se la piazza non si traduce in progetto politico, si dissolve nel moralismo e diventa carburante per la legittimazione dell’ordine vigente.
Diffidiamo, dunque, di quegli applausi che accompagnano le immagini “festanti” di Gaza, provenienti da tanti che fino a ieri condannavano senza esitazione il 7 ottobre “senza se e senza ma”, ignorando due anni di macelleria genocida e ininterrotta: massacri, ossa spezzate, viscere appese, corpi martoriati. Ora si commuovono per qualche sorriso in primo piano, per la folla che danza tra le rovine, come se quella gioia fosse la prova del dono restituito dalla nostra civiltà ritrovata. E ciò nient’altro è che il preludio alla nuova logistica della sottomissione coloniale, il suo fondamento culturale.
Non meno insidioso è il pensatore morale che accompagna tali scenari: apparentemente colto, umano. Quello che cita Said a sproposito, con voce grave e gesti compunti, pontificando su coabitazione tra ebrei e palestinesi per meglio occultare la propria collusione con l’ordine sionista. Una sorta di sacerdote del neo-consenso, ben accolto nei salotti teorici di una indefinita moltitudine liberatoria che, però, non dimentica mai di strizzare l’occhio al kibbutz.
La resistenza palestinese non ha bisogno di carezze intellettuali; sa per chi e per che cosa lotta. In questo contesto, è a noi - nei luoghi del privilegio - che spetta la resa dei conti. Siamo noi i produttori di quei linguaggi della pace, di quei valori di civiltà e di quelle cattedre della morale che costituiscono il motore ideologico della distruzione che poi chiamiamo “ordine internazionale”.
Finché non spezzeremo questo meccanismo, continueremo a fornire all’impero il suo finto volto umano. La pace, se resta parola imposta dall’Occidente, è solo prolungamento del dominio. Una pace da disertare per i suoi meccanismi maligni, nati per consolidare l’oppressione coloniale. Solo allora si potrà tornare a dire “pace e frescura su Gaza” non come fragile formula di tregua, ma come inizio di liberazione.