Saif Gheddafi e i paradossi mortali per l‘intelligencija pro-pal
di Michelangelo Severgnini
Lontani sono i tempi quando le manifestazioni in piazza nei Paesi arabi producevano in Occidente titoloni sui giornali, cortei per le strade, comunicati al vetriolo delle nostre cancellerie e minacce militari contro i dittatori.
Lo scorso venerdì a Tripoli e nelle maggiori città della Tripolitania sono andate in scena manifestazioni oceaniche ignorate di sana pianta dall’intero emisfero occidentale, a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, gettando un’ombra pessima sullo stato di salute dell’informazione e del dibattito politico in Occidente.
Qualcuno si era limitato a commentare, ormai una settimana fa, quando erano le milizie a sparare: “La Libia nel caos”.
No, un momento. Anche questa volta ci sono mandanti, responsabili, attori sul campo e dietro le quinte, cause e conseguenze. Ad approfondire, scostando il velo della censura, la storia appare in tutta la sua semplicità: da una parte il popolo libico che dal dicembre 2021 (data della cancellazione delle elezioni) chiede di poter eleggere Saif Gheddafi presidente, mettendo fine allo strapotere delle milizie, dall’altra le milizie con il supporto e il silenzio-assenso del mondo intero.
Ma perché dunque la Libia quesa volta non tira?
Perché nel 2011 vi abbiamo esportato la democrazia a suon di bombe e ora da anni gliela stiamo negando, impedendo quelle elezioni che eleggerebbero Saif Gheddafi? Sì, certo.
Perché lo smantellamento delle milizie libiche metterebbe fine a 14 anni di occupazione militare della Libia venduta come “caos”? Sì, certo.
Perché un potere legittimo a Tripoli rivelerebbe finalmente i contorni dello scandalo internazionale del saccheggio del petrolio libico attraverso milizie loro e mafie di casa nostra, coperto da tutti i governi italiani dal 2012 a oggi e benedetto da Napolitano prima e da Mattarella poi? Sì, certo.
Ma c’è soprattutto un altro motivo: senza milizie a Tripoli e con i terroristi in Niger alle corde, la tratta di esseri umani perderebbe i suoi punti di riferimento: un colpo mortale alla cinghia di trasmissione che attraverso la tratta di esseri umani procura sempre nuovi migranti-schiavi all’Europa.
Sarebbe un colpo mortale non solo per le avanguardie jihadiste filo-NATO in Africa, ma ugualmente lo sarebbe per l’impalcatura politica che ha sorretto i dirittoumanisti europei, cavalieri del “doppio standard” in un Occidente ormai al tramonto.
Lo scorso 20 maggio, la Commissione per le le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento Europeo ha approvato l’ampliamento del mandato di Europol per rafforzare il contrasto al traffico di migranti e alla tratta di esseri umani. Subito si sono alzati i peana delle organizzazioni pro-migrazioniste, le quali sostengono che questo dispositivo di esternalizzazione renderà sempre più difficile raggiungere l’Italia per i migranti africani. Al contrario.
La Prima Teoria della migrazione, ampiamente esposta e documentata nel libro e nel film “L’Urlo”, recita che i dispositivi di esternalizzazione non servano a fermare i migranti, quanto piuttosto servano a finanziare milizie e gruppi armati in Africa al fine di abbattere lo stato di diritto dei Paesi africani in cui operano e così poterne meglio saccheggiare le risorse. La tratta di esseri umani, in quanto fonte di reddito per questi gruppi armati, ne esce rafforzata dal finanziamento di questi gruppi. In sostanza: più si pagano le milizie, più migranti arrivano.
Ora, con Tripoli e le milizie prossimi a cadere, con il Niger in mano alla giunta militare guidata da Abdourahamane Tchiani che sta combattendo i gruppi di terroristi che gestiscono (tra le altre cose) la tratta di esseri umani, con l’alleanza del Sahel (AES) che oltre al citato Niger, al Mali e al Burkina Faso, potrebbe presto estendersi a Senegal e Costa d’Avorio, serve rifinanziare il tutto, serve approntare una controffensiva sul campo. Lì andranno questi soldi, a sostenere gli sforzi per contrastare i movimenti di liberazione in Libia, come in Niger. Quindi, non causeranno la diminuzione dei migranti, al contrario, rinforzando i gruppi criminali in Africa, garantiranno continuità al fenomeno della tratta e a chi la gestisce. Almeno nelle intenzioni dell’Unione Europea.
Questo sabato 24 maggio si è tenuta a Roma un’assemblea nazionale “verso la manifestazione nazionale del 21 giugno”. All’interno della lunga serie di sigle che sottoscrivono l’iniziativa pullulano realtà pro-migrazioniste, realtà cioè che hanno condannato il voto al Parlamento europeo dello scorso 20 maggio (non conoscendo la Prima Teoria della migrazione).
Il mondo colorato delle Ong, come raccontato in questo articolo (https://www.lantidiplomatico.
Già pensai un anno fa di ribattezzare questo fenomeno “pal-washing” (https://www.lantidiplomatico.
Il fenomeno del “pal-washing” è il precursore di un altro fenomeno che si sta affermando nelle ultime settimane e che potremo definire il “riposizionamento”.
A nessuno è sfuggito come nelle ultime settimane giornalisti, politici, artisti e tutti coloro in vista a sinistra in Occidente abbiano rotto improvvisamente gli indugi e, 50mila morti più tardi, abbiamo deciso di uscire allo scoperto e condannare Israele.
L’obiettivo di chi finanzia le campagne pro-pal e che ora ha spinto l’intelligencija al “riposizioamento” non è salvare la Palestina, è salvare Israele.
Il concetto è stato esposto in maniera cristallina da Jeffrey Sachs, ebreo americano annoi-sionista, già nel gennaio 2024: “La brutalità di Israele a Gaza sta diventando una vera minaccia per la sopravvivenza di Israele. A causa della straordinaria violenza di Israele, il mondo si sta unendo contro Israele”.
Tra Netanyahu e gli ebrei anti-sionisti americani, tra cui le fondazioni che finanziano le campagne pro-pal (così come a suo tempo hanno finanziato i BLM, i FFF, l’agenda LGBT e certamente anche le Ong pro-migranti), non è salvare la Palestina, lo ribadiamo, è salvare Israele, che i loro attivisti ne siano consapevoli o meno.
Il genocidio rende sempre più impossibile la convivenza, pertanto finanche l’esistenza stessa di Israele sul lungo termine. Gli intellettuali ebrei americani sembrano dire a Israele: “non esagerate e ritornate all’interno dell’orizzonte dei 2 Stati, tanto poi lo Stato di Palestina sorgerà alla campa il cavallo che l’erba cresce”.
Gli intellettuali ebrei americani anti-sionisti mai arriveranno ad ammettere che la soluzione a 2 Stati è essa stessa causa del prolungarsi del conflitto. Non si tratta di mettere fine ad un’ingiustizia per loro, si tratta di renderla digeribile, accettabile e permanente.
Alla fine degli anni ’90 Saif Gheddafi, allora nemmeno trentenne, promosse un piano per una soluzione a uno stato, su base bi-nazionale. La proposta venne inserita nel “Libro bianco” pubblicato nel 2000 a firma del padre, Muammar Gheddafi. Per la cronaca, la Libia, ufficialmente ancora oggi, non riconosce Israele.
Uno dei motivi per cui il leader libico fu trucidato (e per il quale farebbero lo stesso ora con il figlio) è proprio questo: sopprimere una voce autorevole pro-palestinese che non emerge dal torbido sostrato anti-sionista ebraico americano che da decenni irroga a pioggia i soldi necessari in Europa per tenere al guinzaglio e in ostaggio il cervello degli psudo-intellettuali nostrani.
Il nome di Saif Gheddafi sta scritto nero su bianco sui fascicoli dell’ICC, il Tribunale dell’Aja, nonostante un tribunale libico lo abbia già assolto con formula piena nel 2017. Di cosa è accusato? Crimini contro l’umanità per aver ordinato l’uccisione dei manifestanti anti-Gheddafi nella primavera 2011.
In Libia tutti sanno che Saif non aveva incarichi militari. Ma il punto non è questo. Il punto è che Saif è una voce autorevole sana, il cui prestigio non è dato in alcun modo dalle campagne dirittoumaniste occidentali.
La sua inevitabile elezione in Libia e la sua proposta per la Palestina sono sale sulle ferite dell’intelligencija ebraica americana.
Qualcuno di recente ha mandato un messaggio in codice: fatti da parte o mandiamo 2 milioni di Gazawi in Libia. Non era vero, la questione è stata smentita persino da Marco Rubio, segretario di Stato americano. Era solo una missiva tramite stampa.
C’è un altro fronte aperto tra l’intelligencija ebraica “pro-pal” e Saif Gheddafi: il Kurdistan. Lo scorso 29 gennaio Saif Gheddafi ha prodotto e divulgato una articolo in 2 lingue: Arabo e Turco. Titolo: “Il ruolo curdo nel gioco di potere regionale: opportunità e sfide”. In Italiano non è stato mai tradotto. Temo nemmeno in Inglese, per quanto Saif, laureato alla London School of Economics, sia fluente nella lingua d’Albione.
L’articolo inizia così: “Per più di mille anni, il Grande Medio Oriente - il Levante, l'Iraq, la Penisola Arabica, l'Egitto e il Nord Africa - è stato governato dal Califfato omayyade, abbaside e poi ottomano, il che significa che è sempre stato parte di un grande impero dominante”. E già l’incipit va di traverso all’intelligencija ebraica pro-pal.
Poi prosegue: “L'unico popolo che è rimasto senza Stato è quello curdo, che è l'unica nazionalità oppressa e che non ha ricevuto una vera e propria entità politica. (…) Per decenni, il leader martire Muammar Gheddafi ha sottolineato che i curdi sono un popolo oppresso, una nazionalità dispersa, e che moralmente e storicamente dovrebbero avere uno Stato proprio”. Qui sembra essersi rimesso sui binari.
Sennonché a questa frase segue un “ma”.
“Ma oggi vediamo che il cosiddetto “Israele” ha iniziato a sostenere la causa curda politicamente e sul campo. Questo non per amore del popolo curdo o a favore della sua causa umanitaria, ma per fare un dispetto agli arabi, principale nemico dell'entità israeliana”.
La definizione “cosiddetto Israele” fa scoppiare il cervello a tutti quegli ebrei che da decenni si possono permettere di traviare un’intero continente, l’Europa, corrodendo dall’interno ogni critica indipendente sulla questione.
Poi prosegue: “Nel 2025, Israele sta giocando lo stesso gioco che ha fatto in Iraq, ma questa volta in Siria. Israele sta cercando di influenzare gli Stati Uniti a sostenere l'indipendenza dei curdi in Siria, o almeno a concedere loro un'autonomia simile a quella del Kurdistan iracheno. Questo, ovviamente, ha lo scopo di dividere lo Stato siriano, smantellarlo e indebolirlo politicamente e sovranamente per garantire che la Siria non rappresenti una futura minaccia per Israele”.
Più avanti è ancora più preciso su come il sentimento anti-turco coltivato in Occidente sia tutta farina israeliana: “Innanzitutto, ricordiamo che il numero di curdi in Turchia supera i 15 milioni, che costituiscono un quinto della popolazione turca e sono concentrati nel sud-est del Paese. Dobbiamo quindi renderci conto che la Turchia potrebbe essere spinta, per molte ragioni politiche e strategiche, ad assistere a eventi simili a quelli dell'Iraq e della Siria”.
La conclusione è una previsione per l’avvenire: “George W. Bush, insieme a Benjamin Netanyahu e ai falchi della lobby ebraica americana, non avevano previsto che la loro occupazione dell'Iraq nel 2003 avrebbe portato alla sua consegna, con il suo popolo e il suo petrolio, al loro arcinemico Iran. Nicolas Sarkozy non avrebbe mai immaginato che la sua distruzione della Libia nel 2011 avrebbe aperto le porte ai turchi, nemici storici della Francia. Né David Cameron immaginava che la sua partecipazione alla distruzione della Libia avrebbe portato i russi, storici rivali della Gran Bretagna, sulla scena libica. Queste sono le guerre dell'epoca; quando i cavalli vengono sguinzagliati, non si sa in quale direzione tireranno il carro”.
A questo serve il movimento pro-pal, a evitare che il carro si ribalti. I pro-pal sono le redini con cui il nocchiere ebreo americano cerca di dirigere i cavalli.
Ecco perché delle sorti della Libia non gliene frega una benamata a nessuno. Non c’è un euro sul banco oggi in Europa per chi voglia raccontare questa storia, gli eventi attuali libici, ne parlo con cognizione di causa.
Se Saif non verrà eletto, continueranno le milizie, la tratta di esseri umani, i migranti continueranno a morire in mare e le organizzazioni della galassia pro-pal prospereranno in eterno.
La guerra a Gaza si fermerà prima o poi, forse gli ebrei americani anti-sionisti ce la faranno.
Netanyahu sarà rimosso, processato. Israele sopravviverà.
Tutti i soldi erogati dalla Open Society Foundation, ultimamente soppiantata dalla Daniel Sachs Foundation, con la collaborazione della Rockefeller Brothers Fund spingono in questa direzione.
Sono gli stessi che hanno allestito e nutrito le campagne dei Black Lives Matter, dei Fridays For Future, l’agenda LGBT e miriadi di Ong pro-migranti.
La manifestazione del 21 giugno a Roma nasce già inquinata da tutto ciò ed è un modo per tenere i cavalli allineati, perché il carro non si ribalti, tutti insieme appassionatamente, dalla Boldrini, passando per Conte fino ai centosocialari e comunisti a gettone.
Non so se Saif Gheddafi diventerà mai Presidente della Libia, o meglio se ai Libici verrà mai permesso di eleggerlo. Non so se Saif sopravviverà a questa stagione o sarà eliminato così come pianifica da anni una cabina di regia dei servizi britannici appositamente installata a Tripoli.
Ma io non starò a farmi tirare per le redini, io starò a frustare i cavalli in ogni direzione in modo che il carro si ribalti.
Il 20 giugno a Roma, presso il Teatro Flavio, terrò una proiezione di “Isti’mariyah”, un documentario dedicato alla Resistenza palestinese che girai in Libano, Siria e Iraq nel 2005, vent’anni fa esatti, pluripremiato a livello internazionale, proiettato da New York a Teheran ma insabbiato in Italia dai suoi produttori che oggi sono esimi e esponenti pro-pal e pro-migranti. In quel documentario, tra le tante inquadrature profetiche ce n’è una: un ragazzo palestinese di Chatila, in Libano, co-protagonista del film, che dalla sua automobile, a debita distanza, passa per Piazza dei Martiri a Beirut, dove già allora si agitavano i movimenti finanziati dagli ebrei americani che poi animarono le cosiddette “primavere arabe”. Lui guardò, scrollò le spalle e tirò dritto.
Nel frattempo, in questi vent’anni, i sodi degli ebrei americani hanno divorato dall’interno la Resistenza. E’ per salvare Israele che oggi l’intelligencija ebraica americana chiede la fine di Netanyahu. Solo gli intellettuali che non hanno ricevuto soldi e non hanno ammiccato al carrozzone pro-pal pertanto sono oggi liberi di dirlo: lo Stato di Israele deve finire, dissolvendosi in una soluzione a uno stato su base bi-nazionale.