Il prossimo Eldorado energetico

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L'Africa orientale si organizza per divenire un hub globale degli idrocarburi

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di Mara Carro

Le recenti scoperte di riserve di gas naturale in Mozambico e Tanzania e di petrolio in Kenya confermano l’enorme potenziale energetico della regione, candidata a divenire un hub globale degli idrocarburi.
 
L'intesa energetica. Alla fine del mese di giugno, i presidenti di Uganda, Kenya e Ruanda hanno firmato un memorandum d'intesa per la costruzione di due gasdotti in Africa orientale. Un gasdotto collegherà il Sud Sudan con il porto di Lamu, in Kenya, mentre l'altro estenderà l'oleodotto che attualmente corre tra il porto di Mombasa e Eldoret - entrambi in Kenya - a tutta l'Uganda e il Ruanda.
I progetti sono solo due delle numerose iniziative intraprese dal Kenya, l’Uganda e il Ruanda nell'ambito della Comunità dell'Africa orientale, che comprende anche il Burundi e la Tanzania. La Comunità ha già stabilito un'unione doganale nel 2005 e un mercato comune nel 2010, mentre si appresta a dare vita ad un'Unione monetaria e, presumibilmente, a trasformarsi in una federazione politica di Stati dell'Africa orientale.  
 
I progetti. I due progetti infrastrutturali sono nella loro fase embrionale e, al momento, non è ancora stato fissato nè un calendario nè un budget per la loro costruzione. Per i governi coinvolti,  una volta costruite, le infrastrutture rafforzeranno la cooperazione regionale, ridurranno i costi energetici e trasformeranno l'Africa orientale in un importante esportatore di energia. Il Sud Sudan si libererebbe dalla sua dipendenza dalle infrastrutture del Sudan per esportare le proprie risorse, mentre il Kenya e l'Uganda saranno in grado di sfruttare più facilmente le riserve di petrolio scoperte di recente.
L’intesa, vantaggiosa per Sud Sudan,  Kenya, Uganda e per l'intera Africa orientale, potrebbe essere invisa ad alcuni paesi vicini esclusi dagli accordi, in particolare alla Repubblica Democratica del Congo (RDC) e al Sudan.
 
Il nodo Repubblica Democratica del Congo. Gran parte del petrolio dell'Uganda è concentrato attorno al Lago Albert, che si trova al confine con la Repubblica Democratica del Congo. Dal 2007, la demarcazione di questa regione ha esacerbato le tensioni tra i due Stati e indotto i governi di Kampala e Kinshasa a dispiegare truppe lungo entrambe le sponde del lago, alimentando i timori per la stabilità della zona e i rischi di un conflitto. Le tensioni sono state disinnescate con la firma degli Accordi di Ngurdoto che hanno istituito un sistema per la soluzione delle controversie e, all'inizio di quest'anno, i due paesi hanno deciso di evitare la presenza di truppe nelle zone petrolifere e di rispettare la rispettiva integrità territoriale. La realizzazione dell'oleodotto potrebbe però riaccendere la tensione.
E' infatti improbabile che Kinshasa abbia dimenticato i precedenti coinvolgimenti dell'Uganda per quanto riguarda le risorse naturali della RDC. Tra l'insicurezza e l'instabilità seguita alle due guerre del Congo, l'Uganda ha occupato aree del nord-est della Repubblica Democratica del Congo ed estratto ricchezze minerarie del paese, un periodo per il quale la Corte Internazionale di Giustizia ( , nel 2005, ha condannato l'Uganda.
Più di recente, l'Uganda è stata accusata da una relazione di un panel di esperti delle Nazioni Unite di fornire sostegno militare, logistico e finanziario al gruppo armato ribelle Movimento del 23 marzo, un gruppo che si oppone al governo congolese, e ha permesso all'Ufficio politico del gruppo di operare a Kampala. L'Uganda ha ripetutamente negato queste accuse.
 
Il nodo sudanese. Il progetto dell'altro oleodotto - dal Sud Sudan al porto di Lamu in Kenya - è ancora più controverso.
Quando il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan, nel luglio del 2011, ha portato con sé quasi il 75% delle riserve di petrolio. Tuttavia, le infrastrutture per la raffinazione, il trasporto e l'esportazione del petrolio si trovano in territorio sudanese. I due Sudan sono quindi legati in un rapporto simbiotico in cui il Sud Sudan possiede il petrolio ma è costretto a pagare tasse di transito al Sudan per usare i suoi oleodotti, le sue raffinerie e i terminal di esportazione di Port Sudan per vendere queste risorse.
Il Sud Sudan basa sul petrolio il 98% delle entrate del governo e non ha alcuna alternativa a questo accordo attuale. Allo stesso tempo, gran parte delle entrate del Sudan derivano dalle tasse di transito del petrolio sud sudanese. Questa dipendenza dal petrolio e co-dipendenza tra i due Stati è emersa in tutta la sua chiarezza quando il Sud Sudan ha bloccato la produzione di petrolio nel gennaio 2012 per rappresaglia contro la confisca di petrolio da parte sudanese. Le economie di entrambi i paesi sono crollate.
La produzione di petrolio è stata riavviata solo nel mese di aprile 2013, quando è stato raggiunto un compromesso, e da allora i rapporti sono rimasti precari con le parti che continuano ad accusarsi l'un l'altra di sostenere i ribelli nelle regioni di confine contese.
Dato questo rapporto perennemente instabile tra i due paesi e la reciproca dipendenza economica, non c'è da meravigliarsi che il Sud Sudan sia interessato a trovare modi alternativi per sfruttare la sua ricchezza petrolifera. Con la costruzione di un nuovo oleodotto che bypasserebbe il Sudan, Juba avrebbe tutto da guadagnare e Khartoum tutto da perdere. Difficilmente il Sudan permetterà al progetto di andare in porto senza difficoltà. Data la lunga durata dei conflitti a bassa intensità nelle regioni di confine e le reciproche accuse di sostegno ai gruppi ribelli, non è difficile immaginare un aumento delle ostilità nell'area dove dovrebbe sorgere l'infrastruttura petrolifera.

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