Dagli inganni della finanza alla rivoluzione costituzionale: per un’alternativa economico-sociale

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo il prologo del Prof. Maddalena al nuovo libro di Francesco Valerio Della Croce "Il mercato del denaro"

 

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Dagli inganni della finanza alla rivoluzione costituzionale: per un’alternativa economico-sociale

di Paolo Maddalena, Vicepresidente emerito della Corte costituzionale

 

Mai come nei tempi di oggi, segnati dalla pandemia da Covid 19, siamo chiamati ad una riflessione profonda sulla società, sulle profonde trasformazioni intervenute negli ultimi decenni, specialmente in Occidente, sul contenuto di un vero e proprio “vaso di Pandora” che è stato scoperchiato in questi mesi terribili dell’emergenza sanitaria globale. Un’emergenza che, in breve tempo, si è rivelata sociale e radicata nella storia recente delle società occidentali. Dalla realtà concreta è necessario prendere le mosse, ancor più per un’indagine giuridica che voglia svolgersi non in un astratto contesto, più o meno specialistico, ma che voglia ispirarsi ad una teoria del diritto non meramente descrittiva e ancillare allo svolgimento delle vicende storiche, ma capace di assolvere una funzione fondamentale di custodia, garanzia e tutela dei diritti fondamentali, intesi nella forma alta delle essenziali conquiste del costituzionalismo moderno.

Il trentennio che abbiamo alle spalle, con strascichi che lambiscono la metà degli anni Settanta del secolo scorso, è stato segnato dall’egemonia della dottrina neoliberista, divenuta vero e proprio pensiero unico dominante. La deregolamentazione finanziaria, che prende le mosse con la fine degli accordi di Bretton Woods – spianando, così, la strada all’ “astrazione” della moneta ed alla fictio giuridica per la quale il rapporto di debito-credito possa fungere da bene commerciabile, in modo scevro da ogni considerazione sull’effettivo pagamento da parte del debitore - e la fase acuta della globalizzazione dei mercati finanziari, a partire dagli anni Novanta, sono state le pratiche concrete attraverso cui si è manifestata l’aspirazione ad una “crescita senza limiti”, all’accumulo e accentramento del capitale, alla mercificazione integrale delle risorse umane e naturali del pianeta, nel quadro di quella che John Bellamy Foster, anni addietro, ha qualificato come «la guerra del capitalismo contro la Terra». In questo “conflitto” non vi è stata tolleranza alcuna per principi incompatibili come uguaglianza, redistribuzione della ricchezza, rispetto della comunità, salvaguardia della natura, democrazia economico-sociale, universalità dei diritti alla Salute ed all’Istruzione, ecc.

Ed, in verità, senza la difesa della comunità, della civitas – concetto, per noi, chiave e già posto in risalto dalla dottrina romanistica – intesa non in senso astratto, ma concretissimo, come già accadeva nel pensiero giuridico romano, qualificando il civis come “parte di un tutto”, non vi sono possibilità di ricostruire il primato della società sugli istinti individualistici e proprietari che sono propri del neoliberismo. La finanza internazionale, a ben vedere, ha concentrato nelle proprie mani un’abnorme ricchezza; essa esercita il proprio potere non su di un determinato territorio, ma sull’intero pianeta, sottraendosi a qualsiasi possibilità di controllo, contrastando qualsiasi ipotesi reale di ritorno ad un effettivo governo della legge sui movimenti internazionali dei capitali e sulle dinamiche del capitalismo finanziario. Fino a giungere al paradosso kafkiano per cui è lo stesso diritto a seguire ed essere sottomesso all’economia finanziarizzata. Si tratta, per riassumere tali dinamiche, di quello che Massimo Luciano ha identificato nella figura dell’ «antisovrano»: non egittimato democraticamente, contrapposto al “sovrano” tradizionalmente inteso, immanente nella difesa dei propri interessi economici, che presuppone l’annichilimento del “sovrano”, cioè dello Stato moderno.

Della forza passiva di questo potere internazionale, gli argomenti studiati e approfonditi in questo volume da Francesco Valerio della Croce sono palese dimostrazione: indagando puntualmente le responsabilità del modello di banca mista nell’ipertrofica crescita del volume della componente finanziaria dell’economia internazionale, della Croce evidenzia e mette a nudo il fallimento sostanziale, a seguito dell’esplosione della crisi finanziaria 2007/2008, nei principali centri finanziari internazionali, dei timidi e incerti tentativi di regolamentare il settore e ritornare ad una specializzazione, legalmente definita, dell’attività bancaria, ripristinando un muro separatore tra le attività bancarie tradizionali e quelle d’investimento. La fragili riforme realizzate e le mancate ipotesi di regolamentazione manifestano quella subordinazione della politica, della sovranità popolare e democratica alle logiche di profitto e al peso della finanza.

Al giorno d’oggi, il denaro è frutto dell’attività creatrice svolta dalle banche private, grazie al riconoscimento dello stesso valore del denaro legale vero e proprio, generato dalla Banche centrale. Tale processo si realizza già attraverso l’accredito delle somme sui conti correnti dei prestatari, dove figurano come debito per la banca ed, al medesimo momento, iscritte a bilancio come attivo della banca stessa, in previsione della restituzione da parte del debitore. La gran parte del denaro posseduto dai popoli assume la forma di depositi bancari, e questa massa di depositi è originata dagli stessi istituti di credito, come ricordato in un bollettino della Bank of England del gennaio 2014. Ciò palesa il fatto che una banca moderna assuma una funzione creatrice del denaro all’atto della concessione di un credito, generando

così i depositi, assieme ad altre forme di “denaro potenziale” (cartolarizzazioni, derivati, titoli strutturati, ecc.). Tutto ciò in ossequio all’intrinseca natura di un’economia non più “dello scambio”, bensì “della concorrenza”, in cui il capitalista, accumulando capitale, non accumula più beni reali, ma diritti, spinto in tal guisa all’accaparramento egoistico di ciò che esiste, in funzione di un sistema volto alla “creazione di denaro mediante denaro”.

L’epidemia che stiamo patendo da tanto tempo ha messo in luce la necessità di ristabilire centralità e primato per la società, il bene comune ed i diritti fondamentali. Di archiviare tanto la deriva del sistema economico verso la finanziarizzazione, quanto lo smantellamento delle prerogative dello

Stato-comunità nella disciplina dei rapporti economico-sociali.

Accanto a ciò, vi è la pressante necessità di ricostruire il giusto primato della proprietà collettiva, espressione della indissolubile triade concettuale formata da “popolo”, “territorio” e “sovranità”, la quale invera il concetto stesso di “comunità politica”. Questo primato della proprietà comune

affonda le sue radici nella storia di Roma, in cui l’intero territorio della città apparteneva a tutto il popolo e la prima e molto approssimativa forma di appartenenza privata,conosciuta col nome di mancipium, derivava direttamente dalla proprietà collettiva di tutti i cives, frutto quindi della divisio del territorio della città. Tale forma di appartenenza riconosciuta al Pater familias, in verità, esercitava le proprie prerogative su tutti gli elementi costitutivi della familias: la mulier, i filii, i liberi in causa mancipi, ecc. Prerogative, quindi, assai differenti da quelle espresse con il concetto di dominium, vale a dire il rapporto astratto e indipendente dalla materiale apprensione del bene, nonché inteso come un potere usque ad coelum et usque ad inferos; peculiarità, in realtà, assai più affini all’istituto della possessio. Solo in epoca tarda, perciò, fu possibile differenziare, da un lato, la proprietà privata, res privatae, e, dall’altro, la proprietà collettiva, res publicae. Le res publicae, secondo quanto osservato dal Bonfante nel suo “Corso di diritto romano”, sulla base degli studi di

Gaio, giurista del secondo secolo d.C., «non sono di nessuno in particolare, perché appartengono a tutti». La successiva distinzione gaiana tra res in commercio (i beni dei privati) e res extra commercio (i beni collettivi), ci riporta alla necessità, assai sentita oggi, di garantire l’effettiva proprietà collettiva dei beni comuni fondamentali, da sottrarre alle logiche del mercato e degli interessi meramente proprietari. Tale urgenze è così avvertita a causa dell’ondata neoliberista che

ha preteso la mercificazione integrale anche di questi beni comuni, affermando un concetto di proprietà privata inteso come diritto originario inviolabile, nel quadro della restaurazione

dello Stato-persona, e dall’abbandono delle disposizioni di ordine pubblico economico, chiaramente delineate nella Carta costituzionale, in favore, nella migliore delle ipotesi, di una lettura che si disinteressa delle questioni relative alla proprietà, riponendo attenzione prevalentemente su “uso” e “destinazione” dei beni. Appare evidente, tuttavia, che la prospettiva costituzionale sia assai diversa e ciò di cui si avverte grande bisogno è un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme civilistiche in materia di proprietà e contenuto del contratto, proprio in virtù dell’esistenza di una cornice democratico-sociale definita dalla Legge fondamentale dello Stato.

Da questo prospettiva, il faro per un rovesciamento delle dinamiche neoliberiste imperanti negli scorsi decenni resta la Costituzione repubblicana, con i suoi pilastri fondamentali, a partire dal principio di Eguaglianza inscritto nell’art. 3 Cost., assieme a quanto affermato dall’art. 41 Cost.: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Dobbiamo riscoprire e inverare lo strettissimo legame

tra iniziativa ed attività economica, specialmente private, con utilità e fini sociali. Così come, l’istituto della proprietà privata, in ossequio a quanto sancito dall’art. 42 Cost., va ricondotto alla sua imprescindibile funzione sociale. In tal senso ci spronano le parole di fratellanza della recente

Lettera Enciclica di Papa Francesco, in cui testualmente si afferma «(…) ricordo che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il “primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale”, è un diritto naturale originario e prioritario. (…) Il diritto alla proprietà privata si può considerare come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».

È evidente, dunque, quanto l’egoismo e l’esigenza di mera riproduzione a fini proprietari cozzino con la cornice valoriale sopra esposta e che è parte fondamentale della Costituzione del 1948.

La pregevole opera di Francesco Valerio della Croce, che accoglie appieno l’universo valoriale della Carta fondamentale, ha il merito di contribuire ad una riflessione critica, elaborata su basi squisitamente scientifiche, scevre da qualsivoglia rifugio nell’astrattezza dell’indagine giuridica, a proposito dei limiti incontrati dal diritto nella regolazione dei processi di finanziarizzazione economica. In essa si colgono non solo il contributo analitico e dialettico allo studio di ciò che è stato, ma anche interessanti argomentazioni sulle prospettive di rinnovamento sociale, nell’ottica del governo razionale della legge sugli istinti individualistici, proprietari e sulla mera “ragion di mercatura”. Di quella, in poche parole, che possiamo identificare con una “rivoluzione” essenzialmente animata dei valori della nostra Costituzione.

 

Roma, ottobre 2020

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