Grammatica della complicità: Gaza e il riposizionamento occidentale

2800
Grammatica della complicità: Gaza e il riposizionamento occidentale

 

di Pasquale Liguori  

 

“Non è il tempo della polemica”, si dice. “È il momento di unirsi, di salvare il salvabile, anche turandosi il naso”. O anche “facile fare la rivoluzione con il culo degli altri.”

Il ricatto morale secondo cui ogni critica alla narrazione redenta costituirebbe una divisione nella massa critica “utile” consolida la verità inquietante: l’evocata unità non è mai esistita. In ogni caso, il richiamo a questa sorta di unità pro commodo serve più a disinnescare la riflessione che a rafforzare la mobilitazione.

Chi solo oggi scopre Gaza, chi oggi separa il crimine genocida dalla sua legittimazione e pianificazione secolare, chi oggi si indigna senza mettere in discussione le premesse dell’ordine - non sta costruendo un’alternativa. Sta solo cercando una via d’uscita morale. E questa via, troppo spesso, passa per la depoliticizzazione della resistenza e la deresponsabilizzazione dell’Occidente.

La proposta che serve non è l’unità formale. È coscienza politica, un pensiero che sappia nominare il fascismo non solo nei suoi eccessi simbolici e sanguinari, ma nella sua forma diffusa. È un lavoro culturale che sappia documentare, disinnescare e combattere lo spirito reazionario-coloniale che attraversa la società occidentale a ogni livello: istituzionale, mediatico, accademico, affettivo. Resistere oggi significa rifiutare l’assimilazione. Significa capire che Gaza non è un confine e che la lotta non è solo per le vite da salvare oggi, ma per impedire che questo sistema le continui a distruggere domani.

C’è qualcosa di più pericoloso della barbarie: la gestione razionale della barbarie. L’occidente liberale, oggi, si riposiziona. Dopo mesi di consenso esplicito, di giustificazioni morali e semantiche del (non)genocidio a Gaza, si apre ora alla critica moderata, al disappunto selettivo, alla condanna calibrata. Questo ripiegamento non nasce da una presa di coscienza: è una strategia immunitaria. Serve a proteggere il nucleo intatto dell’ideologia che ha reso possibile il genocidio. Serve, cioè, a preservare il proprio stesso fascismo.

Perché sì, dobbiamo cominciare a usare questo termine nella sua piena densità concettuale, come categoria analitica. Il fascismo che ha prodotto - e produce – il genocidio a Gaza è un fascismo che ha imparato a vestirsi da civiltà, a parlare la lingua della sicurezza, a presentarsi come governo della complessità. È un fascismo embedded, amministrativo, tecnocratico. Non esplode, organizza.

In questo contesto, Israele non rappresenta una devianza, ma una soglia oltre la quale il paradigma liberale rivela il suo volto necropolitico. La violenza non è un’eccezione, ma una forma di razionalità. Non è lo stato di eccezione, ma il dispositivo di normalità e Gaza non è l’errore ma l’esito.

Chi oggi denuncia “le derive” del governo israeliano, isolandole da una società che le ha volute, prodotte e incorporate, partecipa attivamente a questa normalizzazione. La critica selettiva diventa una forma di esonero morale: si stigmatizza l’eccesso per salvare l’ordine. Si condanna il mezzo per legittimare il fine. Questo schema non è nuovo: è la cifra stessa del razionalismo coloniale, che da secoli sa nominare il dolore senza mai assumersi la responsabilità della ferita.

Il problema non è Netanyahu. Non è Ben Gvir o Smotrich. È l’intera architettura epistemica di uno Stato che si definisce “ebraico e democratico” mentre fonda la sua identità sulla rimozione permanente dell’altro. È una democrazia fondata sull’ingegneria etnica, sull’estrazione coloniale di territorio, su un regime giuridico differenziale che distingue umani da sotto-umani. È il trionfo della sovranità come gestione della vita altrui e della sua cancellazione.

Ma ciò che rende questa forma di fascismo ancora più inquietante è la sua proiezione globale. Israele non è solo un alleato: è un paradigma. E Gaza è il laboratorio avanzato di una governance che l’Occidente osserva, rielabora, replica. Droni, algoritmi, check-point, zone rosse: la guerra al nemico interno si è già installata dentro i nostri confini. Gaza non è lontana: è una prefigurazione.

E allora, il riposizionamento odierno dei media e della politica occidentale - con il suo tono rieditato per l’occasione, i suoi editoriali sulla “sproporzione adesso inaccettabile”, le sue invocazioni formali al cessate il fuoco - non è un segno di rottura. È un dispositivo di continuità. Serve a conservare il principio eliminatorio su cui si è costruita l’intera architettura del presente: il principio secondo cui alcune vite devono sparire perché il mondo continui a funzionare. È la logica del sacrificio che ha sempre retto il liberalismo: sacrificare l’altro per salvare la propria coerenza interna.

In questo senso, parlare oggi di “eccessi” del sionismo è un gesto profondamente ideologico. Perché presuppone che esista un sionismo emendabile, accettabile, magari da riformare. Ma il sionismo - come progetto statale e ontologia politica - è già in sé un dispositivo escludente. La sua forma più brutale non è una degenerazione: è un compimento.

Il fascismo contemporaneo non ha bisogno di stivali né di saluti romani. Ha bisogno di dati. Di giuristi. Di algoritmi. Di narratori che sappiano piangere le vittime e giustificare i carnefici. Di opinionisti che parlino di “pace” dopo che l’interlocutore è stato fisicamente annientato. Di redazioni che pongano la domanda sbagliata: “Quando finirà la guerra?”, invece di chiedere: “Quando restituirete la terra, le vite, il diritto alla soggettività?”

Questo è lo spirito del tempo. Uno zeitgeist in cui il pianto ha sostituito la politica, la cautela equilibrista ha rimpiazzato la giustizia e il lutto è divenuto un atto di autoassoluzione. L’occidente non ha smesso di sostenere Israele: sta cambiando codice, maschera la complicità in cordoglio. Non siamo davanti alla fine di un ordine, ma alla sua piena manifestazione. Gaza non è l’abisso che ci costringe a scegliere tra civiltà e barbarie: è il luogo in cui si mostrano le condizioni reali della civiltà stessa. Non ciò che contraddice l’Occidente, ma ciò che lo rivela. E allora non serve sperare in un risveglio morale. Serve disinnescare la macchina che ha prodotto questo presente. Serve comprendere che il fascismo non ritorna: si è fatto forma di ragione, stile di governo, economia dell’affetto. E chi oggi lo denuncia senza riconoscerlo in sé, nella propria lingua, nelle proprie istituzioni, nei propri compromessi, continuerà a essere parte del problema.

Non è tempo di riconciliazioni tardive. È tempo di sottrazioni radicali. Perché ciò che nelle date condizioni chiamiamo “pace” è solo il nome elegante dell’oblio.

 

ATTENZIONE!

Abbiamo poco tempo per reagire alla dittatura degli algoritmi.
La censura imposta a l'AntiDiplomatico lede un tuo diritto fondamentale.
Rivendica una vera informazione pluralista.
Partecipa alla nostra Lunga Marcia.

oppure effettua una donazione

Il topo da laboratorio del futuro dell'UE di Loretta Napoleoni Il topo da laboratorio del futuro dell'UE

Il topo da laboratorio del futuro dell'UE

Chi vince e chi perde la mortale partita europea di Giuseppe Masala Chi vince e chi perde la mortale partita europea

Chi vince e chi perde la mortale partita europea

Una piazza oceanica a Tripoli contro le Nazioni Unite di Michelangelo Severgnini Una piazza oceanica a Tripoli contro le Nazioni Unite

Una piazza oceanica a Tripoli contro le Nazioni Unite

Cina-UE: temi focali delle frequenti interazioni ad alto livello   Una finestra aperta Cina-UE: temi focali delle frequenti interazioni ad alto livello

Cina-UE: temi focali delle frequenti interazioni ad alto livello

Papa "americano"? di Francesco Erspamer  Papa "americano"?

Papa "americano"?

Le narrazioni tossiche di un modello in crisi di Geraldina Colotti Le narrazioni tossiche di un modello in crisi

Le narrazioni tossiche di un modello in crisi

Resistenza e Sobrietà di Alessandro Mariani Resistenza e Sobrietà

Resistenza e Sobrietà

La scuola sulla pelle dei precari di Marco Bonsanto La scuola sulla pelle dei precari

La scuola sulla pelle dei precari

Maria Zhakarova commenta lo schiaffo di Brigitte a Macron di Marinella Mondaini Maria Zhakarova commenta lo schiaffo di Brigitte a Macron

Maria Zhakarova commenta lo schiaffo di Brigitte a Macron

Israele, il genocidio, e l'Occidente di Giuseppe Giannini Israele, il genocidio, e l'Occidente

Israele, il genocidio, e l'Occidente

La Festa ai Lavoratori di Gilberto Trombetta La Festa ai Lavoratori

La Festa ai Lavoratori

Lavrov e le proposte di tregua del regime ucraino di Paolo Pioppi Lavrov e le proposte di tregua del regime ucraino

Lavrov e le proposte di tregua del regime ucraino

Il PD e i tre tipi di complici dei crimini di Israele di Giorgio Cremaschi Il PD e i tre tipi di complici dei crimini di Israele

Il PD e i tre tipi di complici dei crimini di Israele

Registrati alla nostra newsletter

Iscriviti alla newsletter per ricevere tutti i nostri aggiornamenti