La Cina e l’Occidente, sfida sull’IA: socialismo o un tecno-apartheid?

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La Cina e l’Occidente, sfida sull’IA: socialismo o un tecno-apartheid?


di Pino Arlacchi*

La narrativa corrente sull’intelligenza artificiale assomiglia a quella sulla globalizzazione. Mostra solo il lato illuminato della medaglia. I costi umani dell’applicazione dell’Ia al mondo dell’industria, del commercio e della finanza vengono ignorati o minimizzati. Essi sono in realtà molto alti, e sono temuti soprattutto nell’Occidente più avanzato. Non è un caso che siano gli Stati Uniti il paese dove vige il minore entusiasmo verso l’Ia. La gente teme che la cosiddetta “distruzione creativa” di Schumpeter – l’innovazione che distrugge le produzioni esistenti per crearne di nuove, come appunto l’Ia – sia la ripetizione di quanto accaduto negli anni 70 e 80 con la deindustrializzazione di un bel pezzo dell’America, trasformata dal capitale finanziario in un deserto di fabbriche arrugginite e di popolazione disperata e ammalata senza che ci sia stata alcuna rinascita.

L’impatto dell’Ia sul capitalismo occidentale lo obbligherà ad attraversare una valle di lacrime prima di emergere trasformato e, secondo le speranze dei suoi fedeli, potenzialmente più dinamico. Si stima che entro il 2030-35, 50 milioni di lavoratori americani dovranno cambiare occupazione, creando costi di riqualificazione stimati in 1 trilione di dollari. Un peso che il sistema non ha alcun modo di gestire, semplicemente perché la sua logica profonda non lo consente. Il capitalismo occidentale non è congegnato per ridurre la distruzione creativa ma per favorirla. In Europa e negli Usa il welfare pubblico è già sotto pressione e non è in grado di assorbire i costi dell’estesa sofferenza sociale generata dall’automazione della sua economia.

Ogni azienda capitalistica prende decisioni di automazione indipendenti, basate su calcoli di profitto immediato, creando una dinamica dove l’automazione genera disoccupazione e scontento sociale. Goldman Sachs stima che l’Ia conferirà un boost del 15% al Pil Usa nei prossimi dieci anni. Ma questa crescita sarà erosa dagli enormi costi di transizione che il sistema dovrà sopportare. È per questo che dai calcoli sull’effetto netto di quest’ultima sul Pil euroamericano nel decennio 2025-35 vengono fuori cifre alquanto negative.

E la Cina? Cosa sta accadendo alla Cina durante questa fase di transizione? Anche lì i guadagni spettacolari di produttività generati dall’Ia vengono erosi da perdite altrettanto massicce. Il bilancio, secondo Goldman Sachs, è un modesto 0,2-0,3% di Pil aggiuntivo annuale attribuibile all’Ia fino al 2035.

Ma il socialismo di mercato cinese è in grado di minimizzare l’effetto distruttivo dell’Ia attraverso una pianificazione ad hoc che ne rallenta i ritmi e che trasforma i costi della transizione in investimenti strategici. È vero che il passaggio di 220 milioni di lavoratori cinesi tra diversi settori dell’economia entro il 2030 rappresenta una perdita gigantesca di produttività. Ed è vero che ogni lavoratore in fase di riqualificazione è un lavoratore che al momento non produce valore economico e richiede investimenti in formazione che rappresentano un costo diretto per l’economia. Ma è qui che entra in scena la diversità sistemica. Nel capitalismo l’automazione appartiene al capitale privato che ha il diritto di godere di tutti i benefici della produttività aumentata, lasciando ai lavoratori in eccesso solo la scelta tra riqualificazione autofinanziata o sussistenza pubblica. In Cina, invece, l’automazione si dispiega entro uno Stato socialista che può catturare il surplus prodotto dall’automazione e redistribuirlo socialmente. Secondo McKinsey, la Cina ha intrapreso un investimento in riqualificazione della forza lavoro che arriva fino al 2035, e che garantisce la riconversione occupazionale del 30% della forza lavoro dell’intera nazione.

In Cina, questo investimento sta già trasformando la sfida dell’Ia da fonte di instabilità sociale in motore di prosperità condivisa. Mentre l’Occidente capitalista vedrà crescere la disoccupazione tecnologica e la protesta sociale durante gli anni 20 e 30, la Cina sta creando una forza lavoro che può beneficiare dell’automazione invece di esserne vittima e che è pronta a sostenere la fase post-2035. Cosa può succedere in questa nuova fase? Una volta completata la transizione, i dati di Accenture rivelano una potenziale inversione delle proporzioni: l’implementazione aggressiva dell’Ia potrebbe generare in Occidente aumenti di crescita superiori a quelle cinesi. Gli Stati Uniti e altre economie sviluppate potrebbero vedere i loro tassi di incremento del Pil avvicinarsi a quelli di Pechino (che rimarranno comunque, nel complesso, più alti). Ma questa esplosione di ricchezza targata Ia pone la questione cruciale di chi la controllerà e di come sarà distribuita in Occidente. È qui che si aprono due futuri possibili.

Il primo scenario è quello della convergenza forzata. L’Occidente capitalista, di fronte all’evidenza del successo cinese nella gestione della transizione, sarà spinto ad adottare forme di pianificazione simili a quelle del socialismo di mercato. La pressione sociale generata dalla disoccupazione tecnologica di massa durante la decade 2025-2035 potrebbe forzare i sistemi capitalistici verso forme di controllo sociale dei mezzi di produzione automatizzati.

In questo scenario, i grandi guadagni di produttività post-2035 non affluirebbero esclusivamente ai proprietari privati dell’Ia, ma verrebbero redistribuiti attraverso formule che potrebbero includere la proprietà pubblica delle infrastrutture Ia più critiche, settimane lavorative molto ridotte, redditi di base universali finanziati dai profitti dell’automazione, e ingenti programmi di riqualificazione gestiti centralmente. L’Occidente emergerebbe trasformato in una forma soft di socialismo di mercato. Elementi di competizione e innovazione privata verrebbero a convivere con obiettivi di prosperità condivisa.

Nel secondo, più probabile, scenario, l’oligarchia dell’1% che già approfitta della disuguaglianza attuale si appropria di tutti i benefici dell’intelligenza artificiale. Questa rimane proprietà concentrata nelle mani di poche corporazioni tecnologiche e dei loro azionisti, mentre la maggioranza della popolazione vede le proprie condizioni rimanere sostanzialmente invariate rispetto a oggi.

È vero che le “briciole” fatte cadere dalla tavola dei padroni del mondo sarebbero probabilmente più consistenti di quelle odierne – i servizi potrebbero diventare più economici, alcuni beni di consumo più accessibili, e potrebbero nascere misure limitate di reddito di sussistenza volte a placare le masse disoccupate. Ma la forbice della disuguaglianza, invece di ridursi, si allargherebbe fino a diventare una voragine incolmabile. Mentre una minuscola élite proprietaria dell’Ia accumulerà ricchezze superiori a quelle di interi continenti, miliardi di persone rimarranno in una condizione di dipendenza economica assoluta, sostentate da redditi insufficienti ed elemosine tecnologiche insultanti.

In questo scenario distopico la divaricazione tra il modello socialista cinese e quello capitalista occidentale si accentuerebbe drammaticamente. La Cina continuerebbe il suo percorso verso una prosperità condivisa attraverso la settimana lavorativa di 36 ore, l’eliminazione delle mansioni pericolose e ripetitive e l’innalzamento generale delle condizioni di vita, mentre l’Occidente precipiterebbe in una forma di barbarie tecnologica che renderebbe le disuguaglianze attuali un ricordo nostalgico di tempi più egualitari. La Cina potrebbe allora divenire il modello di riferimento globale dimostrando che un’alternativa è possibile. La scelta tra questi due scenari non è predeterminata dalla tecnologia, ma dalle lotte politiche e sociali che si svilupperanno durante il decennio attuale. Non si intravvedono terze vie per il futuro dell’umanità.

* Il Fatto Quotidiano | 24 giugno 2025

Pino  Arlacchi

Pino Arlacchi

Ex vice-segretario dell'Onu. Il suo ultimo libro è "Contro la paura" (Chiarelettere, 2020)

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