Si poteva fare peggio di prima in sudditanza alla NATO?

Si poteva fare peggio di prima in sudditanza alla NATO?

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di Leonardo Sinigaglia

Dopo la TIM venduta al fondo speculativo KKR, legato all’ex-direttore della CIA David Petraeus, l’accanimento terapeutico-militare verso il regime di Kiev e l’approvazione del nuovo Patto di Stabilità, il governo Meloni ha voluto nuovamente rimarcare la sua sudditanza rispetto all’asse euro-atlantico. L’occasione è data dalla partenza della missione militare europea “Aspis”, nata per accompagnare quella angloamericana “Prosperity Guardian” nella “tutela del commercio e della libertà di navigazione” nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. La marina italiana garantirà nel Mar Rosso a sostegno della campagna intimidatoria di Washington due navi, le fregate Fasan e Martinengo, che saranno accompagnate da unità di altri paesi europei.

Questo nuovo invio di reparti coloniali a sostegno del morente impero statunitense è particolarmente odioso in quanto diretto a reprimere l’azione di solidarietà internazionale del popolo yemenita, che, incapace di assistere in silenzio al genocidio in corso a Gaza, ha deciso di utilizzare una delle più classiche armi di pressione internazionale, imponendo un embargo sulle navi israeliane o su quelle connesse per traffici o merce all’economia sionista. Non disponendo del controllo dei mari o dei cieli, gli yemeniti hanno fatto ricorso alla loro forza missilistica, fruttuoso risultato delle capacità tecniche e militari di un popolo che per anni ha dovuto resistere a una violentissima guerra d’aggressione. Dalla confisca della nave Galaxy Leader il 20 novembre scorso ad oggi le azioni d’interdizione del commercio messe in campo dagli yemeniti non hanno portato a vittime, ma unicamente al danneggiamento di alcune navi che non hanno obbedito agli ordini impartiti della marina militare di San’a, rifiutando di essere sottoposti a controlli. Ciò non ha peraltro “interrotto il commercio”, come pretendono i propagandisti occidentali. Per quanto si sia ridotta la navigazione, anche a causa dell’aumento vertiginoso delle assicurazioni sui trasporti marittimi, attraverso il Mar Rosso e il canale di Suez continuano giornalmente a veder transitare numerose navi, in particolare collegate alla Russia o alla Cina per bandiera o proprietà. Queste non solo sono state lasciate indisturbate, ma addirittura molti equipaggi hanno voluto segnalare la presenza a bordo di personale cinese, o testimoniare apertamente l’assenza di affiliazioni con il regime sionista per evitare qualsiasi equivoco.

Come più volte ribadito dalla dirigenza yemenita, non esiste nessun pericolo nel Mar Rosso per la libertà di navigazione o i traffici mercantili. Ciò che sta accadendo, e che rende ancor più meschina la partecipazione italiana a qualsiasi campagna militare, è una pura e semplice reazione al massacro di Gaza, è un estremo tentativo di mettere pressione sul regime sionista affinché si interrompa una vera e propria pulizia etnica che vede nell’Occidente allargato un complice attivo. Le missioni “Aspis” e “Prosperity Guardian” non sono altro che l’ennesimo capitolo di questa complicità, forse la più chiara dimostrazione in tempi recenti del “doppio standard” occidentale, con l’attenzione dell’asse Washington-Bruxelles sempre pronta a perseguire qualsiasi violazione dei diritti umani, vera o, più spesso, presunta, in qualunque parte del mondo, ma assolutamente cieca di fronte al massacro di decine di migliaia di civili e alla sistematica distruzione di ospedali, abitazioni, scuole, uffici pubblici e luoghi di culto.

Non esiste una chiave di lettura realistica alternativa a questa, ed è significativo come media e politici occidentali trattino la tensione nel Mar Rosso come un qualcosa di separato e distinto rispetto all’assedio di Gaza, cercando di ricondurla invece verso pretese “mire dell’Iran”, che vorrebbe “destabilizzare la regione” a suo vantaggio. Ben altro ha notato la diplomazia cinese per bocca di Zhang Jun, rappresentante permanente della RPC all’ONU: "L'attuale situazione di tensione nel Mar Rosso è una delle manifestazioni degli effetti di ricaduta del conflitto a Gaza. Permettere che il conflitto a Gaza si trascini aspettandosi che non si estenda è un pio desiderio e un'illusione. Inoltre, chiedere di prevenire da un lato l’estensione del conflitto e dall’altro gettare benzina sul fuoco provocando uno scontro militare è contraddittorio e irresponsabile”[1].

“Benzina sul fuoco” è quello che esattamente sono i bombardamenti angloamericani e la missione europea lanciata con la complicità del governo Meloni: al posto di lavorare per la distensione e la risoluzione della “questione yemenita”, e quindi di quella palestinese, i governanti dell’Occidente provano a riproporre l’infame formula della “diplomazia delle cannoniere”. Ma questa idea, quella di poter silenziare a furia di bombardamenti il moto solidale di un popolo intero che affolla in massa le strade per protestare contro l’imperialismo anche sotto le bombe, è un retaggio degli Anni ‘90 che non trova posto nel mondo di oggi, quello che vede con sempre più insistenza il sopravvento delle tendenze alla multipolarizzazione sulle resistenze del decadente sistema egemonico di Washington.

Il governo italiano si rifiuta ancora una volta di prendere coscienza della realtà per come è, preferendo la sudditanza all’asse atlantico rispetto alla dignità e all’indipendenza nazionale. Il nostro paese, con una Storia peculiare e fruttuosa di rapporti di amicizia con il mondo palestinese, potrebbe e dovrebbe agire per risolvere alla radice la causa di questo crescendo di ostilità che rischia di travolgere tutta la regione, dovrebbe impegnarsi contro le azioni genocide dell’entità sionista, chiamando al rispetto dei diritti umani e delle storiche risoluzioni delle Nazioni Unite, come peraltro stanno facendo numerosi Stati, dal Sudafrica all’Indonesia, passando per la Slovacchia, membro dell’UE. Continuare a nascondersi dietro al dito della “destabilizzazione iraniana” significa accettare una gravissima responsabilità storica, quella che ricade su chi attivamente si impegna perché una situazione potenzialmente ancora ricomponibile degeneri nello scontro diretto, con conseguenze imprevedibili ma sicuramente letali. Significa scegliere di continuare a vivere fuori dal mondo reale, preferendo la sudditanza all’Egemone a qualsiasi sussulto di autonomia, l’affondare con lui piuttosto che avere il coraggio di abbandonarlo alla pattumiera della Storia dove è destinato ad essere lasciato.

La riprova della dannosità dell’intervento occidentale si ha nel fatto che, nonostante i bombardamenti, stando alla dirigenza yemenita di assai scarso impatto, le navi mercantili associate ai sionisti cotninuino a venire prese di mire, e a queste sono state aggiunte in risposta anche quelle collegate al regime di Washington. L’egemonia statunitense, ormai correttamente percepita in tutto il mondo come una tigre di carta, sta ricevendo un’umiliazione quotidiana innegabile, sintomo della sua sempre più rapida decadenza. Una classe politica degna si renderebbe conto di ciò, e, perlomeno, si assocerebbe a quelle forze che a livello internazionale promuovono processi di pace e di ri-costruzione della stabilità. Ma far ciò significherebbe mettere in dubbio il supporto incondizionato a Israele, ossia alla roccaforte degli interessi statunitensi nell’Asia occidentale, significherebbe mettere in discussione l’unipolarismo e l’egemonismo imperialista degli Stati Uniti. Non un qualcosa alla portata di tutti, né umanamente né politicamente, sicuramente fuori dalle possibilità (o volontà) della Meloni e dei suoi ministri. A indicare la via della pace sono ancora una volta i paesi promotori del multipolarismo, dalla Russia, al Sudafrica, alla Cina. Tra tutto quello che è stato detto, è importante ricordare le parole del presidente Xi Jinping, che, affermando come non possa continuare l’ingiustizia storica sofferta dal popolo palestinese, ha identificato come unica possibile soluzione al conflitto, dalla Palestina allo Yemen, il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini stabiliti nel 1967 e con Gerusalemme come capitale[2].

 

NOTE

[1] https://www.chinadailyasia.com/article/371344

[2] https://www.aljazeera.com/news/2023/6/14/chinas-xi-jinping-backs-just-cause-of-palestinian-statehood

Leonardo Sinigaglia

Leonardo Sinigaglia

Nato a Genova il 24 maggio 1999, si è laureato in Storia all'università della stessa città nel 2022. Militante politico, ha partecipato e collaborato a numerose iniziative sia a livello cittadino che nazionale.

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