Il nostro silenzio sulla piaga del terrorismo nello Xinjiang in Cina

Il nostro silenzio sulla piaga del terrorismo nello Xinjiang in Cina

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di Fabio Massimo Parenti - Blog di Beppe Grillo 

Migliaia di attacchi terroristici di matrice jihadista, centinaia di uomini, donne e bambini uccisi barbaramente. Non stiamo parlando della drammatica esperienza europea degli ultimi anni. No, parliamo dello Xinjiang, Cina, ovvero della regione autonoma nord-occidentale della repubblica popolare. Non è stata l’unica del paese ad essere colpita, ma sicuramente è stata quella maggiormente devastata da terrorismo, fanatismo ed estremismo, i “tre demoni” come li chiamano in Cina. Se ci mettessimo a fare un confronto sui numeri ufficiali forniti dalle autorità europee e cinesi, la repubblica popolare supererebbe, benché in un arco di tempo più lungo, le analoghe tragedie europee. Mettersi a comparare per capire quale delle tragedie sia stata peggiore non sembrerebbe un esercizio utile. Tuttavia, detto esercizio forse sarebbe sensato alla luce del nostro silenzio sulle vicende cinesi o, se si preferisce, dell’assenza di empatia in Occidente. Al di là della triste comparazione tra numero di assassinii e di perdita di vite innocenti, un dato è certo: i media occidentali, ancora i più influenti al livello internazionale, con in testa BBC e CNN, non solo non hanno raccontato con analoga intensità e coinvolgimento le migliaia di attentati in Cina, ma hanno a volte taciuto su quei fatti, insieme ai nostri governanti, sollevando, al contrario, fiumi di illazioni e falsità sulle risposte cinesi, le contromisure adottate e le attività di controterrorismo. Le tragedie cinesi non hanno suscitato l’ira dei difensori dei diritti umani, anzi sono state spesso strumentalizzate per criticare Beijing. Le attività terroristiche calpestano sempre e comunque i cosiddetti “diritti umani”, che noi, ancora una volta, utilizziamo come dottrina ad orologeria, applicando continuamente un duplice standard. La libertà di mentire sembra essere strutturale alle nostre cosiddette “società aperte e democratiche”, costituendo una sorta di dispositivo di gestione delle relazioni internazionali, oppure, forse, un inevitabile pezzo del filamento di DNA della tradizione liberale.


Veniamo ora alla visita sul campo.


Dal 3 al 7 settembre sono stato in visita di studio in Xinjiang, ho avuto l’opportunità di vedere la capitale, Urumqi, e Kashgar, città multietnica situata nell’estremo occidente cinese. Lo Xinjiang è una regione autonoma musulmana, confinante con 8 paesi, la più vasta di tutta la Cina, cuore del continente eurasiatico, dotata di una ricchezza archeologica e naturalistica unica, ove molteplici etnie centroasiatiche si sono mescolate per secoli. Non è un caso che sia sempre stata lo snodo fondamentale della via della seta, antica e contemporanea.


Il viaggio, insieme a studiosi cinesi e stranieri provenienti da Europa e Asia, è stato estremamente istruttivo. Abbiamo visitato dapprima il nuovo centro espositivo di Urumqi, che ospita una mostra sistematica dei maggiori attacchi terroristici e crimini violenti avvenuti in Xinjiang dal 1990 al 2015. Video originali, fotografie, descrizioni, ordigni esplosivi e armi utilizzate per compiere i crimini. Per un terrorismo economico, ma dannatamente efferato. Una mostra unica e assolutamente scioccante, che presenta tutto ciò che solo in parte è stato raccontato dai nostri media.
 

Proprio nel 2009, dopo i tragici attacchi a Urumqi (197 persone uccise, 1700 ferite, centinaia di negozi, veicoli e strutture pubbliche date alle fiamme), le autorità di Beijing hanno chiesto l’accesso alle informazioni di alcuni profili Facebook utilizzati, come in altre occasioni, dai terroristi. Il social network, rifiutandosi di collaborare, è stato definitivamente bloccato nel paese. C’è da dire, inoltre, che in tante altre occasioni Facebook aveva già dato prova di inaffidabilità per la sicurezza nazionale.


Dopo questa prima visita, ci siamo diretti all’Istituto Islamico dello Xinjiang, il più grande del paese, una sorta di college per studenti musulmani, dalle superiori all’università. Questo istituto è stato ampiamente finanziato dal governo centrale che, tutt’oggi, garantisce buona parte delle risorse per il suo funzionamento, oltre a contribuire alle borse di studio per i meno abbienti. Fondato nel 1983, l’istituto conferisce lauree, offrendo anche formazione non accademica finalizzata a svolgere servizi religiosi.

 

Gli studenti seguono corsi di lingue, religione, legge, cultura e storia. Nel settembre 2017, il nuovo campus, 5,7 volte più grande di quello vecchio nel centro di Urumqi, è stato costruito nella parte suburbana della capitale. In altre parole, questo istituto è uno dei tanti esempi che dimostra come le attività legali, svolte nel rispetto delle leggi nazionali, vengono ampiamente sostenute, promosse e protette dai governi locali in stretta collaborazione con quello centrale.


Dopo questa interessante visita, ci siamo poi diretti a Kashgar per recarci presso l’unico centro di “istruzione e formazione professionale” della città. Per intenderci, quelli che vengono definiti “campi di concentramento” o di “rieducazione forzata” dai media nostrani e da ONG non indipendenti, accreditate presso le Nazioni unite. Etichette usate per screditare il governo cinese, presentato come repressore delle minoranze. E ciò malgrado BBC e CCN, ad esempio, siano andate a vedere sul campo che si tratta, come abbiamo constatato, di veri centri di istruzione e formazione professionale, nati a seguito dell’implementazione di nuove misure avanzate e non repressive di contro-terrorismo e de-radicalizzazione.

 

Strutture realizzate per dare una risposta alle cause socioeconomiche e soprattutto culturali dei tre demoni. Ahinoi, i media sopramenzionati si sono dilettati a sostituire le immagini dei centri professionali con quelle delle prigioni (ricordate le immagini satellitari?), che sono appunto prigioni dove sono detenute persone che hanno compiuto reati gravi. E lo hanno fatto senza parlare della terribile piaga del terrorismo nella regione, senza condividere la lotta a difesa dei diritti umani, negati alle popolazioni locali dall’estremismo e dal fondamentalismo.


A seguito di queste nuove sperimentazioni, il governo ha già conseguito dei primi risultati: da quasi tre anni, 32 mesi per l’esattezza, in Xinjiang non si sono più verificati attentati terroristici. Diplomatici, studiosi, esperti, rappresentati delle Nazioni Unite hanno potuto apprezzare, insieme al sottoscritto, questa realtà. Abbiamo parlato coi ragazzi, visitato le aule ove erano in corso delle lezioni, osservato le innumerevoli attività professionali che vengono insegnate, tra cui corsi per futuri esperti nel campo del turismo, corsi di e-commerce, business, estetista, elettrotecnica, tessitura, ecc. Un laboratorio insomma, per andare oltre la necessaria repressione delle attività illegali connesse al fenomeno terroristico.


Tutti i ragazzi presenti nella struttura hanno commesso crimini minori, legati ad attività illegali portate avanti da imam improvvisati, dediti a impartire dettami sovversivi e a spingere i ragazzi a disobbedire alle leggi, ad abbandonare la scuola e a danneggiare le strutture governative. Come rilevato dal direttore dell’Istituto di storia contemporanea serbo, Predrag Markovic, “anche in Serbia avremmo dovuto adottare queste misure, invece abbiamo messo in prigione i giovani radicalizzati, peggiorando le loro condizioni esistenziali”. Imparare il cinese, oltre alla lingua locale, ed un mestiere è l’unico modo per garantire opportunità, futuro e reale integrazione.


Rappresentanti pakistani, bangladesi, indiani, ma anche europei, tutti ferrati sui fenomeni di terrorismo di matrice jihadista, hanno apprezzato molto questa esperienza di lotta al terrorismo che può fornire elementi utili anche ad altri paesi, Europa compresa. Tutto ciò, è stato rilevato, potrà non essere sufficiente, ma questi esperimenti cinesi per sconfiggere il terrorismo, di cui è affetto tutto il mondo, vanno assolutamente condivisi per migliorare la cooperazione internazionale in questo campo. La Cina è nel bel mezzo di un processo in divenire di codificazione legale per normare al meglio misure ed azioni atte a debellare il terrorismo, per proteggere le collettività e i loro diritti, così come i vari milieu etnico-culturali.


Il viaggio si è poi arricchito di una piacevole visita alla città antica di Kashgar e di una serata al mercato centrale, dove siamo stati intrattenuti da danze e balli rappresentanti le numerose etnie che convivono nella regione.
 

Lo Xinjiang, come tutte le aree abitate da minoranze etniche (56 in Cina), riceve finanziamenti e sostegno dal governo centrale per sviluppare politiche ad hoc a favore dello sviluppo delle lingue e dei culti locali, nonché della protezione delle attività religiose, tutelate da leggi e politiche molto avanzate, coerentemente coi principi costituzionali.


Questa intensa esperienza si è infine conclusa con una giornata dedicata al seminario internazionale su “Controterrorismo, de-radicalizzazione e protezione dei diritti umani”, sponsorizzato dalla China Society for Human Rights Studies e altri co-organizzatori cinesi.
 

Cinquanta relazioni, tutte, o quasi, estremamente interessanti, per condividere risultati di ricerca ed esperienze sulle attività di controterrorismo nel proprio paese, da parte cinese e delle altre 17 nazioni rappresentate. Tante sono state le domande, gli scambi di esperienze e di informazioni, tra chi sembra essere concretamente ed onestamente al lavoro per rimuovere gli ostacoli collettivi ad una coesistenza pacifica. La Cina sta facendo la sua parte, sarebbe importante parlarne in maniera onesta e reciprocamente rispettosa.


 

Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Politica Economica Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. In Italia insegna all’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici a Firenze, è membro del think tank CCERRI, Zhengzhou, e membro di EURISPES, Laboratorio BRICS, Roma. Il suo ultimo libro è Geofinance and Geopolitics, Egea. Su twitter @fabiomassimos

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