Il Pride di Budapest e gli insegnamenti di Brecht

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Il Pride di Budapest e gli insegnamenti di Brecht

 

di Francesco Fustaneo

 

La presente è un'analisi politica dei fatti connessi al Pride di Budapest che rifugge sia dalle semplificazioni dei delatori della manifestazione, sia dalle critiche strumentali portate avanti da noti esponenti politici europei a Orban  per le sue posizioni sul conflitto russo-ucraino e la moderazione nell'approccio europeo con la Russia. 


Lo scorso 28 giugno numerose sfilate e manifestazioni correlate ai vari “Pride” si sono tenute un po' in tutta Europa, ma quello che ha fatto più  discutere, è stato il Pride di Budapest, sicuramente a questo giro il più politicizzato.

Gli organizzatori parlano della presenza di 200.000 persone, scese in piazza sfidando il divieto di Orban.

Il primo ministro ungherese ha così finito per fare un assist alle opposizioni interne e ai suoi delatori esteri, vietando una manifestazione che nei fatti poco fastidio avrebbe potuto dare al suo governo, se fosse stata invece, autorizzata in partenza.

Il clima di divieto e censura, ha invece finito per fornire un ulteriore motivazione a migliaia di persone provenienti da tutta l'Ungheria e da altre parti d' Europa a scendere in piazza contro misure avvertite come “liberticide”.

Occorre premettere che attualmente nel paese magiaro sono previste multe a partire da 500 euro e fino a un anno di carcere per chi promuove cortei “arcobaleno”.

Lungo il percorso del corteo non autorizzato, la polizia, su disposizione del premier, aveva pure installato decine di telecamere per il riconoscimento facciale dei trasgressori.

Nonostante tutto questo, dicevamo, una moltitudine di persone ha comunque sfidato i veti istituzionali e le minacce dell'estrema destra, che dal canto suo aveva organizzato delle contromanifestazioni, affermando di voler comunque fermare la marcia Lgbt a prescindere dall'intervento (poi non verificatosi) della polizia.

Paradossalmente, ben due marce di estremisti di destra, tra cui gruppi dichiaratamente neonazisti , ricevevano invece il placet delle autorità. Addirittura qualche minuto dalla partenza della parata, i militanti del partito “Patria Nostra” avevano bloccato con le auto il ponte Szabadsag, tappa del percorso programmato.

Ora, bisogna distinguere la posizione lecita e coraggiosa di chi è sceso spontaneamente in piazza contro le imposizioni basate sulla “morale” di un governo conservatore, sfidando le conseguenti misure repressive, da quelle di quei politici che da tutta Europa, peraltro garantiti dai loro status di “parlamentari”, di contro hanno strumentalizzato le vicende per attaccare Orban per il suo ruolo di moderatore nell'ambito del conflitto russo-ucraino e nello scontro politico-ideologico contro la Russia.

I proclami di Calenda partito per Budapest, che per l'occasione si riferisce a Orban come “quinta colonna di Putin” sono assai indicativi in tal senso.

La partecipazione di altri noti esponenti del centrosinistra italiano, le dichiarazioni postume della Picierno, vice presidente della Commissione europea”che definisce Orban “sempre più distante dall'Unione Europea e sempre più vicino a Putin”, sono assai esplicativi di cosa si celi dietro le loro critiche strumentali.

Eppure tali esponenti politici sanno bene che più di un paese dell'Europa dell'Est, pur  avendo cambiato diametralmente indirizzo politico già all'indomani della caduta dell'Urss, ha preso una strada apertamente reazionaria su molti temi connessi ai diritti civili.

Nella stessa Ucraina, a Kiev per il Pride recentemente tenutosi è stato solo concessa una parata veloce, di 30 minuti circa e più per i  rischi connessi alle minacce lanciate dai gruppi neonazisti e ultranazionalisti che da quella parti prosperano,  che per i pericoli di bombardamento russo: eppure nessuno ha proferito parola.

Ritornando a Budapest, la stessa grande bandiera europea vista agitare nel corteo, all'indomani della sottomissione dell'intera U.E. ai diktat della Nato e di Trump di innalzare al 5% del Pil le spese per il riarmo, cozza con le migliori intenzioni dei manifestanti.
Avevo già parlato in precedenza dell'evoluzione dei vari Pride, di come le intuizioni sulla riunificazione delle lotte portata avanti da Mark Ashton nel Regno Unito, sia oramai un ricordo sbiadito ( https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pride_svuotata_dalla_politica_lesempio_di_mark_ashton/39602_42056/)

Rimango convinto però del fatto che le analisi da portare avanti visti i templi complessi non devono scadere nelle semplificazioni, incluso quelle connesse alle vicende ungheresi.

Anche chi esalta Orban attribuendogli posizioni anti-imperialiste, dovrebbe capire come lo stesso abbia nei fatti invece sempre agito per gli interessi della compagine politica di appartenenza e per i propri interessi nazionali, ma spesso più con roboanti annunci che con pratiche consequenziali alle stesse.

Di fatto pressato dall'U.E., Orban ha in precedenza sempre finito per avallare le misure economiche portate avanti contro la Russia; da ultimo sul riarmo, la sua posizione di vicinanza con Trump non gli ha permesso di proferire parola contraria, mentre di contro il premier spagnolo Sanchez, almeno formalmente ha avuto pubblicamente il coraggio di schierarsi contro le pretese del Tycoon statunitense.

Insomma se Orban viene osteggiato dalla nomenclatura europea, la motivazione vera è perché al confronto di guerrafondai del calibro di Merz, Macron, Starmer o della Kallas, la sua posizione moderata rispetto al conflitto in Ucraina e all'approccio con la Russia, lo fa apparire come uno statista: dunque pesano di più i demeriti altrui che i suoi di meriti.

In definitiva in tutta la narrazione  che ho letto sui social, dai detrattori o dai sostenitori del Pride ungherese ravvedo troppe semplificazioni, quando invece la lettura dei fatti si presta a un'interpretazione più complessa e non priva di chiaroscuri e di contraddizioni.

Una cosa sarebbe però auspicabile per l'immediato futuro: che le organizzazioni che danno vita ai Pride facciano un salto di maturità e riflettano meglio sul chi scegliersi come “compagni di viaggio”e come referenti politici.

Già i grandi loghi e le multinazionali, i finanziamenti dei dipartimenti di stato come quello statunitense hanno fortemente influenzato questi momenti di aggregazione, creando in alcuni casi contrasti e anche fratture insanabili  nelle rovine di quello che resta della sinistra radicale: emblematico il caso di Palermo nel 2013 e le frizioni denunciate tra l'altro allora,  da  CSP-Partito Comunista quando gli organizzatori del Pride nazionale tenutosi nel capoluogo siciliano scelsero di accettare il patrocinio dell'ambasciata statunitense con sdegno di chi tra i promotori faceva anche parte del Movimento NO MUOS, che proprio per avversare l'installazione militare statunitense in terra siciliana finiva per essere sistematicamente represso e perseguito.

Da ultimo lo strizzare d'occhio dei movimenti che fanno capo al Pride a quelle stesse forze politiche responsabili dell'affossamento dei diritti sociali e delle derive belliciste attuali, non aiuta certo a posizionare gli stessi nell'ambito di processi di progresso sociale più ampio.

Insomma come ha provato anche il caso ungherese:

Al momento di marciare
molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico 
è lui stesso il nemico 
(Bertolt Brecht )

Francesco Fustaneo

Francesco Fustaneo

Laureato in Scienze Economiche e Finanziarie presso l'Università degli Studi di Palermo.
Giornalista pubblicista dal 2014, ha scritto su diverse testate giornalistiche e riviste tra cui l'AntiDiplomatico, Contropiano, Marx21, Quotidiano online del Giornale di Sicilia. 
Si interessa di geopolitica, politica italiana, economia e mondo sindacale

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