Il referendum ha messo in evidenza la crisi della partecipazione democratica
611
di Michele Blanco
Ormai da tantissimi anni la cosiddetta sinistra liberal non ha più nessun contatto con le classi popolari. Il motivo o, dovrebbe, essere chiaro a tutti la supina accettazione delle politiche neoliberista che hanno solo aumentato enormemente la precarietà nel lavoro e nella vita di tutti i giorni e le disuguaglianze. Tutti i lavoratori ne pagano inesorabilmente le gravi conseguenze.
In questo contesto rileviamo come conseguenza una vera «crisi di partecipazione democratica», dove al referendum hanno votato solo 15 milioni di elettori, il 30,6%, che mostra una sempre più drammatica divergenza tra la politica e società civile.
Un referendum, proposto da una parte del sindacato sui temi del lavoro e dei diritti negati ai lavoratori, che non riesce a mobilitare quell’elettorato a cui si rivolge mette in rilievo che c’è una parte maggioritaria della società italiana assolutamente sfiduciata e disinteressata al partecipare al voto perché non ha più nessuna fiducia nella possibilità di cambiare le scelte della politica, votando.
Tutto questo molto probabilmente dipende anche dal fatto che in Italia vi sono quasi 24 milioni di occupati, 18,9 milioni dei quali sono lavoratori dipendenti. Ma la condizione professionale, lavorativa e contrattuale di questi varia moltissimo.
Tra i lavoratori la normativa sui contratti e il mercato del lavoro, negli ultimi trent’anni, si sono moltiplicate le varie posizioni lavorative, con il proliferare di nuovi tipi di contratti tutti diversi, rendendo le condizioni dei meno garantiti precarie e sempre più diffuse. I lavoratori assunti a tempo determinato, ad esempio, sono 2,77 milioni (con 450mila stranieri). Di questi, 815mila sono a tempo parziale, mentre i part-time tra gli assunti a tempo indeterminato sono 2,55 milioni. Il tempo parziale è una condizione che colpisce soprattutto le donne, ma a volte nascondono lavori a tempo pieno pagati come a tempo parziale. I vari contratti a tempo determinato e a tempo parziale, com’è assolutamente ovvio, sono le due forme che più influiscono sulla precarietà dell’occupazione e sui bassissimi livelli di salario. E sono quei 5,3 milioni di titolari di quei contratti ai quali i quesiti oggetto dei referendum erano rivolti.
Inoltre se consideriamo la collocazione professionale secondo i livelli di qualificazione, partendo dal basso, troviamo che 3,7 milioni di salariati hanno un lavoro non qualificato o semi-qualificato, 3,3 milioni sono dipendenti del commercio o dei servizi e quasi 3 milioni sono impiegati esecutivi, cui si aggiungono altri 3 milioni di impiegati tecnici o amministrativi a media qualificazione. Le categorie del lavoro salariato, in ogni caso, assommano al 40% dell’occupazione totale, cui si aggiunge un 25% di impiegati a bassa o media qualificazione e un 8,5% di lavoratori autonomi a bassa o media qualificazione.
Quote enormi, che descrivono una composizione sociale molto divisa e polarizzata, in cui le professioni con redditi alti raccolgono solo un quarto dell’occupazione totale. Se a ciò aggiungiamo che i livelli retributivi per le occupazioni a bassa o media qualificazione sono rimasti stagnanti negli ultimi due decenni, mentre solo una parte minoritaria dei redditi alti sono cresciuti, possiamo concludere che in Italia esiste una grave questione sociale, di classe come si diceva qulache decennio fa, che origina da una condizione del lavoro diviso in tanti piccoli gruppi di lavoratori ognuno con il suo tipo contratto diverso anche da chi ha le medesime mansioni e fa l'identico lavoro.
In questo contesto la politica, o meglio i partiti che dovevano difendere i più deboli, che si allontana sempre più, dalle classi popolari.
In Italia i lavoratori rappresentano ancora una grande fetta del corpo sociale, in cui i ceti bassi e medio bassi del lavoro salariato e impiegatizio assommano ai due terzi del totale. In una situazione in cui la mobilità sociale si è ridotta, se non del tutto bloccata, l’economia langue e sono solo i settori a più basso valore aggiunto e a bassa produttività che vedono aumentare l’occupazione, come abbiamo scritto in condizioni di sempre maggiore precarietà, le classi sociali più popolari hanno trovato sempre meno rappresentanza anche tra le forze di sinistra, che hanno teso a privilegiare solo il ceto medio. La conseguenza è stata che il sostegno a quelle forze, di centrosinistra, che la stessa partecipazione elettorale da parte dei ceti bassi e medio-bassi siano andati man mano diminuendo negli ultimi anni.
Ai lavoratori negli ultimi trent’anni, sono stati tolti diritti importanti e fondamentali, in un paese che vuole essere definito democratico, anche con il fondamentale concorso della sinistra liberal che, accettando il credo neoliberista, la quale ha sostenuto che era l’impresa che andava messa al centro, perché «crea ricchezza». La sinistra liberal ha promosso politiche che, di fatto, hanno portato ad un grave impoverimento del lavoro, soprattutto, ma non solo, nelle sue fasce meno qualificate, basta vedere come sono trattati gli insegnanti, favorendo l’aumento della precarietà, spesso in nome della flessibilità, diventata un mantra per questa falsa sinistra. Nel contempo, il capitale, il capitalismo finanziario in primis, è stato favorito e i redditi alti, sempre per meno persone, hanno preso a crescere in modo esponenziale, soprattutto a svantaggio del ceto medio. Le disuguaglianze sono inevitabilmente aumentate, così come inesorabilmente è aumentata la povertà.
I referendum per cancellare il Jobs act e altri provvedimenti, per ridare al lavoro diritti e tutele, è stata quindi una decisione che ha risposto all’esigenza di «rimettere il lavoro al centro», ridandogli la dignità che ha perso anche per le gravi leggi promulgate dal centrosinistra quando era al governo. Questa decisione che la Cgil ha preso finalmente, anche troppo tardi, pone anche una importante questione politica, molto rilevante, quella di ridare voce alle fasce più deboli e meno rappresentate, ma che rappresentano la maggioranza della popolazione italiana. Una questione che dovrebbe riguardare tutto il centrosinistra.
La grande astensione che si è avuta di quasi il 70% dell’elettorato confermerebbe che vi sono larghe fasce di popolazione che si sentono assolutamente escluse, non rappresentate in nessun modo da nessun partito o sindacato.
Allevultime elezioni politiche del 2022, su 46,1 milioni di elettori i voti validi furono solo 28,2 milioni, il 61%. Alle elezioni europee di un anno fa su 51,2 milioni di elettori, i voti validi furono poco più di 23,4 milioni, il 45,7%. In questa tornata di referendum su 51,3 milioni di aventi diritto, in 14,1 milioni si sono espressi (in Italia), il 30,6%, mentre nelle circoscrizioni estere sono stati 1,1 milioni, il 21,3%. I Sì al primo referendum (quello con la percentuale più alta) sono stati 13.031.443. Ora, i tre partiti del centrosinistra Pd, AVS e M5S più UP o PTD totalizzarono 11,6 milioni di voti nel 2022 e 10,1 milioni nel 2024. Il che significa che i Sì sono stati 2,94 milioni in più dei voti di quei partiti nel 2024 e quasi un milione e mezzo in più del 2022.
Dalle analisi del flusso elettorale sembra che tre milioni di elettori sono stati catturati dal voto, fuori dal perimetro del campo “larghissimo” PD+AVS+M5S più Rifondazione comunista.
C’è quindi una grave crisi democratica, non c’è nessun dubbio, ma il «popolo», i cittadini e i lavoratori esistono, sono la maggioranza silenziosa della società contemporanea, eccome. Probabilmente è andato a votare sicuramente chi vota sempre, quella parte che è “inclusa” e “garantita”, e che vota per il centro-sinistra. Non a caso l’affluenza è maggiore nei centri delle grandi città, nelle zone ex rosse, e dove maggiori sono le quote di laureati, ovvero le zone abitate dai ceti medi, più colti, progressisti. Molto meno, questo è gravissimo per il tema del referendum: I diritti dei lavoratori, le zone operaie e del lavoro salariato, le periferie, le cinture urbane, le aree interne. Alta affluenza nei capoluoghi, bassa in provincia, più alta al Nord, bassissima in quasi tutto il Sud.
Si è ribadito che una parte del corpo sociale, sempre maggiore, non si sente più rappresentata e si sente esclusa. Il lavoro, che doveva essere un tema “coinvolgente”, non ha mobilitato le masse, soprattutto quelle che avrebbero dovuto essere più coinvolte, visto che riguardava loro in particolare.
Perché il ceto politico e sindacale ha perso indiscutibilmente credibilità agli occhi delle fasce del lavoro più deboli ed esposte, anche perché non ha difeso come doveva per decenni queste persone. Il referendum è stata un’occasione, purtroppo mancata, per invertire la rotta. Ma con due soli mesi di una campagna elettorale fatta di nascosto e in sordina, con il boicottaggio dei media il risultato non è stato di certo eccezionale.
Dai partiti sono arrivati messaggi poco convinti, come il «non può essere un’abiura», in luogo di un "abbiamo sbagliato, abbiamo cambiato idea perché quelle politiche hanno provocato solo danni e ingiustizie oltre che aumentare le disuguaglianze". Ma potrebbe essere un punto di partenza, che sarà sicuramente più credibile nel dare rappresentanza ai lavoratori se, finalmente, si vorrà davvero cambiare politiche sociali e ripudiare le assurde prescrizioni neoliberiste, come l’austerità a tutti i costi.
Naturalmente se è vero che quei 13 milioni di Sì sono stati più dei 12,3 milioni presi dalla coalizione di centro-destra nel 2022, è certamente anche vero che non sono tutti necessariamente voti che andrebbero al “campo larghissimo” alle prossime elezioni, anzi credo fermamente che molti lavoratori che votano per le destre hanno votato "Si"al referendum.
Oggi il voto resta una prerogativa di quell’elettorato che dal punto di vista del lavoro, dei contratti e dei diritti è il più “garantito”. Il vasto mondo dei non garantiti, dei lavoratori precari delle periferie e delle aree interne, degli esclusi e degli abbandonati non si è purtroppo recato alle urne.
Tuttavia, lavoratori, giovani, nei seggi dove votavano univesitari fuori sede le percentuali dei votanti sono state altissime, ed elettori più sensibilizzati, molti non aderenti al centro-sinistra, si sono sicuramente espressi, il che può essere un molto tenue elemento di speranza. Ma un insieme di forze progressiste vere che vogliono rimettere il lavoro al centro della politica e far ripartire la partecipazione democratica in Italia c’è dunque motivo di guardare al futuro con maggiore fiducia, soprattutto se la sinistra «tornerà a fare veramente la sinistra», reclamando giusti salari e stipendi, rispetto dei diritti dei lavoratori e dei precari e tutte quelle infinite cose che deve fare chi vuole rappresentare la maggioranza degli italiani i poveri e gli esclusi.