LE SUPERDONNE CHE PIACCIONO AL CAPITALISMO

LE SUPERDONNE CHE PIACCIONO AL CAPITALISMO

La svolta reazionaria del femminismo mainstream

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Pubblichiamo due importanti contributi del Prof. Carlo Formenti sulla svolta "post-socialista e reazionaria" delle correnti maggioritarie del femminismo che tanto piace al mainstream dal suo blog "PER UN SOCIALISMO DEL SECOLO XXI"
 
 
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PIU' DONNE AL POTERE = UN MONDO MIGLIORE? FALSO!

20 dicembre 2020

 
La leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si è azzardata a recitare, nel programma Rai Voice Anatomy, un monologo https://www.youtube.com/watch?v=noglabz5fvs della regina dei draghi Daenerys Targaryen, la protagonista del serial televisivo Games of Thrones che ha affascinato milioni di telespettatori di tutto il mondo. Il monologo recita così: <<Sono Daenerys, nata dalla Tempesta. I vostri padroni vi hanno mentito su di me o forse non vi hanno detto niente. Non importa. Non ho niente da dire a loro. Parlo solo a voi...>>. Per chi non abbia visto il serial, o letto la saga di George Martin da cui è tratto, il voi cui si rivolge Daenerys con queste parole si riferisce agli schiavi della città che si appresta a liberare, oppressi da una casta di crudeli padroni cui la regina dei draghi infliggerà una durissima punizione. 
Una volta steso un velo di pietoso silenzio sulla pretesa della leader di destra di incarnare un'eroina della lotta contro l'oppressione, tocca riconoscerle di avere rivelato, con quel tentativo di sfruttare un'icona dell'industria culturale, una certa astuzia in materia di comunicazione politica. Almeno nelle intenzioni, perché, a detta del critico tv del Corsera, Aldo Grasso, la performance si è trasformata in un boomerang a causa dell'effetto esilarante dell'accento romanesco e dello scarso talento recitativo dell'improvvisata attrice, che Grasso descrive impietosamente: <<la classica emulazione fallita di un modello altop che inevitabilmente si traduce in trash>>. 
 
Se fo deciso di occuparmi di questo episodio di non eccelso interesse, è a causa del "succo" politico che Grasso tenta di estrarne, ricordando che, nella saga, Daenerys viene descritta come <<una leader rivoluzionaria che lotta per abbattere il sistema di sfruttamento a favore dei diseredati, ma che finisce per assumere i tratti della dittatura totalitaria>>. La Meloni, in quanto leader di una formazione post fascista, non avrebbe la necessità di "gettare la maschera", ove riuscisse a mettere le mani su un trono, ma Grasso non si riferisce a questo: il nostro, esponente di una cultura non meno reazionaria, ancorché appartenente a un'altra parrocchia ideologica, vuol dire che qualunque tentativo di abbattere il sistema approda necessariamente a una dittatura. A meno che non si tratti di provocare (questo non lo dice ma non dubito che lo pensi) un regime change in uno di quei Paesi che l'Occidente considera totalitari, anche se guidati da governi legittimati dal voto popolare, come il venezuela e la Bolivia (la Cina è un osso troppo duro per sperarci). Come a dire: le lotte contro il sistema non sono mai "neutre", sono buone o cattive a seconda del punto di vista da cui le si considera.
 
C’è però un’altra riflessione interessante che Game of Thrones può stimolare. Proviamo a mettere a confronto la saga in questione con un’altra storia che vede un’eroina femminile impegnata a lottare contro un potere crudele.  Mi riferisco alla serie cinematografica di Hunger Games. Qui non ci sono ambiguità: i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e i buoni sono ancora più buoni in quanto a guidarli è una giovane donna, la quale, a differenza di Daenerys, non vuole conquistare il potere ma lo vuole distruggere. Insomma, secondo i miei amici “libertari”, quel film incarna un sano spirito anarchico, consapevole del fatto che il potere è di per sé malvagio, ed evoca una santa alleanza trasversale fra tutte le sue vittime, benedetta da una leadership femminile che ne certifica la correttezza politica. 
 
Nei miei ultimi libri ho dedicato molto spazio alla critica degli effetti devastanti di questa visione politica, figlia delle derive post sessantottine, per cui non ritengo necessario occuparmene qui ulteriormente. Mi preme piuttosto ragionare su una “morale” di tutt’altro segno che emerge dalla saga di George Martin.
 
Il drammatico finale in cui Daenerys si rivela non meno crudele dell’antagonista che ha appena annientato, è iscritto nella logica della narrazione, nella quale:
 
1) nessuna delle parti in causa può essere definita “buona”, tutti i potenti sono feroci, cinici, spietati e dimostrano una certa dose di umanità solo nei confronti dei membri della propria famiglia e del proprio clan (e a volte nemmeno di quelli);
2) le differenze di genere non implicano alcuna eccezione a questa regola: le donne potenti sono altrettanto malvagie dei maschi e il voltafaccia di Daenerys gela definitivamente ogni illusione in merito.
 
Da tutto ciò possono essere fatti derivare tre corollari:
 
1) la malvagità è iscritta nella logica stessa del potere, per cui i buoni dovrebbero tenersene accuratamente alla larga (il che ci ricondurrebbe alla morale di Hunger Games che viene qui però radicalizzata in senso pessimista: non c’è eroina che tenga, dal male del potere non esiste riscatto alcuno); oppure (e qui le cose si fanno più interessanti):
2) il potere è costitutivamente ambiguo, non è uno “strumento” neutro (non si ha potere, il potere è una posizione relazionale che sovradetermina le azioni di chi ne occupa il centro); e
3): non se ne può invertire il segno se non attraverso l’agire collettivo, ma non si può definire un soggetto a priori di tale azione. Altrove mi sono occupato di quest’ultimo corollario criticando la pretesa di un certo marxismo dogmatico di dare una definizione "sostanzialista" del Soggetto sociale della rivoluzione, qui intendo avviare una riflessione (riservandomi di approfondirla in seguito) in merito alla pretesa femminista di rivendicare un fondamento di genere a tale soggetto. Per avviare il ragionamento userò gli argomenti di due donne che criticano il femminismo “dall’interno”:  Jessa Crispin e Nancy Fraser. 
 
La Crispin demolisce il mito della presunta superiorità ontologica del genere femminile. Le sue critiche mirano a decostruire l’ideologia – maggioritaria nelle correnti mainstream del movimento – che attribuisce un valore di per sé positivo al moltiplicarsi delle figure femminili che occupano posizioni di potere in politica, in economia, nella cultura, nella società e nei media, “a prescindere” da ogni considerazione in merito al loro orientamento ideologico, alla loro appartenenza di classe, etnica o razziale, e al ruolo svolto nell’ambito dei processi di riproduzione sistemica, all’idea, cioè, secondo cui più donne di potere = un cambiamento radicale della logica del potere. Cito qui di seguito alcune sue frasi in ordine sparso: "Non mi riconosco in un femminismo che si concentra sul self empowerment, i cui obiettivi non includono la distruzione della cultura corporate ma una più alta percentuale di donne CEO"; "Se il femminismo non è niente più che interesse personale travestito da progresso politico non fa per me>>; oggi il femminismo è diventato "narcisistico pensiero autoriflessivo; lotta per consentire alle donne di partecipare equamente all’oppressione dei più deboli e più poveri; un sistema autoprotettivo fondato sul linguaggio politicamente corretto e sul linciaggio di chi non vi si adegua"; "politica identitaria, focalizzata su storie e successi individuali"; "I più comuni marcatori del successo femminista sono i medesimi di quelli propri del capitalismo patriarcale"; "la pratica dell’autocoscienza ha alimentato l’idea che il personale è politico (ma molte) lo hanno inteso come il fatto che i loro successi personali sono successi politici"; "L’idea che le donne cambieranno la cultura è una pia illusione"; "non c’è nessun fondamento all’idea che le donne siano naturalmente più portate all’empatia"; "Combattiamo per il diritto di fare le soldatesse e stare in prima linea e giustifichiamo il diritto di imbracciare fucili per invadere altri paesi e ucciderne gli abitanti>>. Insomma potremmo chiamarlo il paradigma Games of Thrones in opposizione al paradigma Hunger Games: le donne non sono migliori degli uomini e se non si sovvertono le logiche sistemiche fanno e faranno come e peggio di loro (a meno che, aggiungo, non si ritenga che l’ascesa di donne come Clinton, Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris e tutte le altre arruolate dal neo presidente Biden, assieme a vari esponenti Lgbt - e a spese della rappresentanza della sinistra di Sanders! -, rappresenti di per sé un passo verso un mondo migliore).  
 
Tuttavia, e qui vengo a Nancy Fraser, che è a sua volta alquanto dura nei confronti del femminismo mainstream e della sua alleanza con il regime neoliberista, a queste critiche si può contrapporre l’idea – ed è appunto ciò che fa Fraser – che il femminismo, ove riuscisse a recuperare l’originaria vocazione socialista, in quanto lotta per il riconoscimento – politico, economico, culturale - del ruolo delle donne nel processo riproduttivo sociale, rappresenterebbe comunque la punta di lancia per rovesciare il modo di produzione capitalista, nella misura in cui questo non può sopravvivere se non sfruttando la subordinazione femminile. In pratica Fraser, pur portando un importante contributo all’analisi del rapporto fra produzione e riproduzione nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico, resta ancorata all’idea secondo cui capitalismo e patriarcato sarebbero un’unità inscindibile per cui, se cade il secondo, cade anche il primo. Ma questa tesi non è più sostenibile per ragioni che sono state ben spiegate da vari autori, fra cui Michéa, il quale ricorda giustamente che: "Gary Becker, futuro consigliere di Reagan, già nel 1987 sosteneva che tutte le discriminazioni verso una minoranza – che sia etnica, sessuale, di genere o altro – si rivelerà sempre più improduttiva ed economicamente  costosa nella misura in cui il sistema capitalista arriverà a liberarsi dei suoi limiti storici originari e a fondarsi finalmente sulle sue vere basi ideologiche e culturali" (personalmente non nutro dubbi in merito al fatto che il capitalismo abbia oggi definitivamente compiuto questa emancipazione da ogni residuo “patriarcale”, e che riconosca nel femminismo, nella cultura Lgbt e nell’ideologia politicamente corretta affidabili alleati per dividere e indebolire le classi subalterne stroncandone le velleità di resistenza). Il capitale non ha – se mai ne ha avute - connotazioni di genere. Per farla breve: delle teorie di Fraser sul rapporto fra produzione riproduzione si può e si deve discutere seriamente, ma accettare l’idea dell’inscindibilità fra capitalismo e patriarcato vuol dire far rientrare dalla finestra quelle ideologie liberal femministe che la stessa Fraser considera deleterie e che, sia detto una volta per tutte, non sono semplicemente sbagliate: sono attivamente reazionarie.      
 
 
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La svolta reazionaria del femminismo mainstream 
 
22 dicembre 2020
 
 
Che la svolta "post socialista" delle correnti maggioritarie del femminismo - quelle, per intenderci, che dedicano il proprio impegno esclusivamente al conseguimento della parità di genere in tutti i campi dell'attività economica, sociale e politica e al riconoscimento identitario, avendo abbandonato ogni pretesa di superamento del capitalismo - abbia trasformato un movimento originariamente anti sistemico in un'ideologia reazionaria, in quanto funzionale alla conservazione dello stato di cose esistente, dovrebbe essere ormai scontato per chiunque insista a considerare attuale lo slogan "socialismo o barbarie". Ma, a quanto pare, non è così. Ricevo infatti da Cristiana Fischer una mail in cui riversa il testo di un suo commento alla pagina di un'amica che aveva rilanciato il mio precedente post su questo blog. Non riporto tutto il testo ma solo alcuni passaggi della seconda parte (le frasi evidenziate in corsivo sono sottolineature mie).
 
Fischer dice che io non ho colto cosa significhi <<sempre di più e più ampiamente>> il femminismo, come dimostrerebbe il fatto che mi interrogo sul perché l'ascesa al potere di figure femminili come Clinton Merkel, Von der Leyen, Kamala Harris dovrebbe rappresentare di per sé un passo verso un mondo migliore. Ecco come la Fischer cerca di farmi vedere la luce: "Qui la prospettiva politica gli rende impossibile vedere che quelle donne potenti mostrano a tutte noi una cosa semplicissima: che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri. (...)
Il potere che le donne vogliono ottenere, sostenendosi tra loro, imparando a conoscersi in relazione tra loro e confrontandosi tra loro, è la padronanza sulle proprie vite. Quelle "donne potenti" lo hanno fatto, quindi manifestano che è possibile. Poi verranno valutate - soprattutto dalle altre donne! - per quello che hanno fatto, e come. Il femminismo vuole dare forza a tutte: anche alle schiave sessuali sulla Domiziana, alle badanti che abbandonano i loro figli e genitori vecchi per badare a nostri, in sostanza a tutte le donne che temono di credere in loro stesse e nell'aiuto delle loro simili".
 
Tutto questo discorso, ma in particolare i passaggi evidenziati, sono il motivo per cui, sul mio profilo Facebook, le ho replicato dicendo che le sue parole sono la migliore conferma di quanto affermo in apertura, cioè del fatto che un certo femminismo - ahimé maggioritario - è oggi uno dei più formidabili pilastri della conservazione del mondo esistente. Le ho anche promesso che avrei argomentato in modo meno apodittico il mio secco giudizio su questa pagina. Lo farò sia riprendendo le argomentazioni critiche di intellettuali femministe che non fanno parte della corrente mainstream del femminismo (quella che nei miei libri definisco femminismo di regime) sia evidenziando come le frasi incriminate confermino l'adesione di fatto della Fischer a questa corrente. 
 
Parte delle femministe latino americane avevano preso le distanze dal mito della sorellanza universale ("il femminismo vuole dare forza a tutte"?) già alla fine degli anni Ottanta, in un documento discusso al IV incontro delle donne latino americane (ne parla l'argentina Iris D'Atri in un libro che cito ne La variante populista), in cui si contestavano assunti quali tutte le femministe sono uguali, esiste un'unità "naturale" per il solo fatto di essere donne, ecc. Qualche anno dopo la boliviana Marta Cabeza Fernandez denuncerà la vergognosa opposizione delle parlamentari femministe (bianche della classe media) del suo Paese nei confronti delle richieste delle lavoratrici domestiche (indie di estrazione contadina) che lottavano per un salario minimo garantito ("perché dovremmo pagarle, le trattiamo come fossero nostre figlie, hanno vitto e alloggio e imparano lo spagnolo..."). Immagino siano le stesse femministe che l'anno scorso, dopo il golpe fascista che ha rovesciato il governo socialista di  Evo Morales, hanno detto che lo scontro fra generali e militanti socialisti era un gioco di potere fra maschi che non le riguardava (forse le migliaia di donne indie che sono scese in piazza finendo uccise o stuprate non erano dello stesso avviso). Anche la "donna potente" che è stata messa a capo dello Stato dal golpe (e per fortuna cacciata dalle ultime elezioni che hanno restituito il potere al MAS di Morales) è un esempio del fatto che "si può fare"?
Se fossi coerente dovresti rispondere affermativamente: conta solo che siano donne, dopodiché, dici, verranno valutate per quello che hanno fatto e come, "ma soprattutto dalle altre donne!". Questa è una chicca: il fatto che la Clinton, la più guerrafondaia esponente dell'establishment Usa, abbia giustificato le guerre "per esportare la democrazia" e liberare le donne dall'oppressione islamica, guerre che hanno fatto centinaia di migliaia di vittime (donne, uomini, vecchi e bambini) va giudicato soprattutto dalle donne? Le altre vittime contano meno? Non hanno facoltà e diritto di giudizio sull'operato della "donna potente"? Qui aleggia puzza di eurocentrismo, sessismo alla rovescia e razzismo. Così Jessa Crispin (che ho citato nel precedente post) denuncia il paternalismo (pardon: maternalismo) occidentale nei confronti delle povere donne islamiche da "liberare" (lo vogliano o no) a suon di bombe. Ma anche Judith Butler, polemizzando con il modo in cui alcune femministe tedesche hanno reagito alla famosa "notte di Colonia" (quella in cui migliaia di immigrati islamici hanno importunato le donne che festeggiavano il capodanno), ha sottolineato le connotazioni razziste di certi loro discorsi, guadagnandosi insulti feroci. Già perché, in barba alla "sorellanza", non c'è peggior furia di quella che le critiche delle femministe "eretiche" scatenano nelle vestali del femminismo mainstream (ricordate il linciaggio di cui venne fatta oggetto Luisa Muraro dalla santa alleanza Lgbt, per avere espresso il proprio disgusto nei confronti di Vendola e consorte che erano ricorsi alla pratica dell'utero in affitto?).
 
Ma veniamo agli aspetti più aberranti: le donne potenti dimostrerebbero "una cosa semplicissima", e cioè "che ogni donna può cercare di ottenere quello che vuole, può dirigere la propria vita e migliorare quella di altri".  Evidentemente Fischer ha rimosso ogni residuo di marxismo - che pure rivendica spesso di avere frequentato - altrimenti non si sognerebbe di affermare che chiunque (donna o uomo) può ottenere quello che vuole solo perché lo desidera. I differenziali di reddito, status, cultura, razza non contano? Non sarà che quelle donne potenti sono divenute tali perché hanno potuto usufruire di robusti vantaggi competitivi? Anche l'immigrata che fa la badante potrà un domani seguire il loro esempio? Basta solo che impari a "credere in sé stessa" e "nutra fiducia nelle proprie simili"? resto letteralmente senza parole. A parte la bubbola del poter contare sulla sorellanza (abbiamo visto quanto valga), questa scemenza equivale ad affermare che viviamo in un mondo che offre a tutti, senza distinzione, la possibilità di diventare quello che vogliano. Ma ci sei o ci fai viene d chiedere.
 
Mi pare già di sentire la replica.  I maschi possono (?!) le donne non ancora, perché sono oppresse, escluse, discriminate quindi per loro servono esempi che dimostrino che anche loro possono farcela (!?). Ma accantoniamo queste affermazioni deliranti e veniamo al punto. Quello che cercavo di dire nel precedente post era che la svolta post socialista delle correnti femministe euroamericane (con le debite esclusioni) ha determinato una mutazione genetica del movimento tale da renderlo del tutto funzionale alla conservazione/riproduzione del sistema. E' anche la tesi di Nancy Fraser, laddove afferma che il femminismo della seconda ondata, dopo aver reciso i legami con le radici marxiste, si è "culturalizzato", rinunciando alla critica sociale, invertendo le gerarchie fra lotte sociali e lotte per i diritti individuali e fra politica della ridistribuzione e politica del riconoscimento, per cui si è progressivamente allineato con gli obiettivi, i valori e le idee del "neoliberalismo progressista", ponendosi in una relazione antagonista con la cultura, gli interessi e i bisogni della classi subalterne (classi che, come emerge dalla neolingua politicamente corretta che ha adottato, disprezza profondamente). Ed è, anche, la tesi di un'altra storica intellettuale femminista come Silvia Federici, che scrive: "il femminismo ha sempre più operato in un'ottica per cui il sistema non è stato messo in discussione e la discriminazione sessuale poteva apparire come il malfunzionamento di istituzioni altrimenti perfettibili".
 

Carlo Formenti

Carlo Formenti

Giornalista, professore e ricercatore in pensione. Autore di "Il socialismo è morto. Viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista" (Meltemi, 2019)

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