Pensioni. Il governo Meloni si piega ai diktat del neoliberismo e dell’austerità

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Pensioni. Il governo Meloni si piega ai diktat del neoliberismo e dell’austerità

Coniare Rivolta

 

Nell’articolo precedente abbiamo visto come il Governo è ripartito all’attacco delle pensioni, attraverso la proposta di un semestre di silenzio-assenso per la devoluzione del TFR ai fondi pensioni, collegandolo di fatto alla promessa di una maggiore flessibilità (per pochi) per andare in pensione prima.

E proprio su quest’ultimo aspetto, cioè quando poter accedere alla pensione, è ripartita silente (ma non troppo) la campagna terroristica sull’imminente nuovo aumento dell’età pensionabile reso cogente dall’aumento della speranza di vita attesa certificato recentemente dall’INPS.

Come noto, per via delle leggi Sacconi (2010) e Fornero (2011) le pensioni di vecchiaia e anticipata sono agganciate in automatico all’andamento della speranza di vita. Al crescere di quest’ultima devono crescere le soglie anagrafiche e contributive di accesso alla pensione: basta un decreto ministeriale (un atto a metà fra la sfera politica e quella puramente amministrativa) che prende atto dei dati sull’aspettativa di vita comunicati da ISTAT, mentre serve un vero e proprio intervento legislativo per bloccare tale meccanismo.

La cadenza degli scatti inizialmente triennale dal 2019 è divenuta biennale. Ad un primo scatto nel 2013 è seguito un ulteriore nel 2016 e ancora nel 2019 per la sola pensione di vecchiaia (la soglia di quella anticipata è stata invece bloccata al 2016 con decreto politico) portando da quell’anno l’età pensionabile di vecchiaia a 67 anni e fermo restando quella anticipata a 42 anni e 10 mesi di contributi (1 anno in meno per le donne). Dal 2019 gli aumenti si sono interrotti poiché, anche a causa degli effetti della pandemia, la speranza di vita è rimasta stabile o addirittura è diminuita. Si noti il paradosso per cui in caso di diminuzione della speranza di vita attesa non vi è previsione di riduzione della soglia. Il governo ha sempre assicurato che la soglia dei 67 anni sarebbe rimasta inalterata negli anni a venire lasciando intendere che quand’anche vi fosse stato il prevedibile e auspicabile nuovo aumento della speranza di vita, quella soglia sarebbe stata mantenuta comunque.

Il pasticcio comunicativo è iniziato nei primi giorni del nuovo anno.

La CGIL il 9 gennaio con una comunicazione ha espresso profonda preoccupazione per una “recente modifica unilaterale dei requisiti pensionistici operata dall’Inps sui propri applicativi, senza alcuna comunicazione ufficiale da parte dei ministeri competenti e in totale assenza di trasparenza istituzionale”. L’INPS avrebbe aggiornato nei propri documenti contabili interni la soglia della pensione di vecchiaia al 2027 a 67 anni e 3 mesi e quella di anzianità a 43 anni e 1 mese (per le donne un anno in più) ipotizzando quindi uno scatto di aumento di 3 mesi mai annunciato dal governo. L’istituto previdenziale ha risposto con una pronta smentita che non ha però scongiurato l’imbarazzo politico del governo che ha rimarcato il fatto che l’eventuale decisione andrà assunta tramite iniziativa legislativa nei prossimi mesi.

Il 15 gennaio nel frattempo è stato pubblicato un aggiornamento al documento “Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio- sanitario” a cura della Ragioneria Generale dello Stato in cui, stanti gli aumenti calcolati dall’ISTAT sulla speranza di vita attesa, si preannuncia un quadro tendenziale di aumenti costanti delle soglie di età pensionabile con il raggiungimento dei 68 anni nel 2039 e dei 70 anni nel 2067 (e dei 46 anni per la pensione anticipata). Si tratta di una previsione particolarmente importante, se pensiamo che l’ultimo decreto ministeriale che ha fissato l’età per il pensionamento è stato firmato, nel 2023, direttamente dal Ragioniere Generale dello Stato.

Si riattivano, insomma, dopo qualche anno di sospensione della questione dovuta alla stagnazione della speranza di vita, le sirene che annunciano l’ineluttabilità di aumenti inesorabili dell’età pensionabile per vecchiaia e anticipata.

A fronte di queste previsioni il governo non ha assunto alcuna posizione chiara limitandosi a ribadire che la questione andrà demandata all’iniziativa legislativa una volta che verranno aggiornati i dati ISTAT a marzo e tirando le orecchie all’INPS per aver lasciato trapelare ciò che probabilmente è già evidente al governo stesso, ovvero che non esiste una volontà politica chiara e trasparente di sterilizzare gli aumenti automatici previsti dal meccanismo innescato dalle riforme Sacconi e Fornero 13 anni fa. E l’appuntamento è quindi solamente rimandato a questa primavera quando, in assenza di un intervento legislativo specifico per bloccare l’innalzamento dell’età pensionabile, basterà un ennesimo decreto ministeriale (magari spacciato come “atto dovuto”) per portare ancora più in là il miraggio della pensione per i lavoratori italiani a partire dal 2027 (le nuove età per la pensione devono infatti essere definite ufficialmente con almeno 1 anno di anticipo).

Si compie così in modo magistrale la giravolta acrobatica del governo Meloni sul tema pensionistico. Ne è passata di acqua sotto i ponti dal tempo dei proclami di Lega e Fratelli d’Italia sull’abolizione della Riforma Fornero.

Nel giro di soli due anni e mezzo di legislatura il governo in carica non solo è riuscito ad affossare, eliminandole o depotenziandole fino al ridicolo, tutte le flebili e già penalizzanti, forme di flessibilità in uscita esistenti: opzione donna, APE sociale, quota 100-102-103, pensione anticipata contributiva; non soltanto si è attivato per peggiorare in modo notevole i meccanismi di indicizzazione delle pensioni al caro vita; non solo si sta attivando per la difesa orgogliosa della previdenza complementare contro la previdenza pubblica; ma non contento si appresta con ogni probabilità ad assecondare quegli automatismi “tecnocratici” messi in piedi dalle ipocritamente vituperate leggi Sacconi e Fornero che rimettono ad un mero calcolo statistico ciò che dovrebbe invece essere il frutto di una riflessione politica ed economica di ampio respiro.

Insomma, non resta proprio nulla di nulla dei finti malumori di una destra che millantava ridicoli mal di pancia “sociali” e che oggi rivela compiutamente, al pari delle forze di “opposizione”, la sua adesione indiscussa ai diktat del neoliberismo e dell’austerità.

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