L'emotività delle masse: perché non è solo sport

L'emotività delle masse: perché non è solo sport

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Di Leandro Cossu

 

Due premesse:

  • Da quando ho memoria, ho sempre avuto in odio il calcio per come lo vedevo attraverso gli occhi dei miei coetanei. Palestrati ignoranti e pagati in modo sproporzionato rispetto alla loro effettiva utilità sociale lasciavano filtrare a conoscenti e amici un modello comportamentale in cui cooperazione e solidarietà dovevano lasciare spazio aggressive aristie in cui l’unico obbiettivo è l’autoaffermazione della propria volontà di potenza e la vittoria.
  • Esperisco con immensa pena i temi dell’identità e dell’appartenenza, che personalmente vivo come l’equilibrio precario di fasci di luce interdipendenti e irriducibili. Mi sento sardo perché sono legato in modo viscerale alla terra che mi ha dato i natali e in cui vivo, ma non mi sento sardo nella misura in cui riconosco che l’identità isolana è frutto di una unità fittizia prodotta da uno sguardo reificante esterno, e che in ogni caso non riguarda direttamente la mia formazione; mi sento italiano perché italiana è la lingua in cui parlo e la cultura che ho studiato a scuola, non mi sento pienamente italiano perché riconosco che a centosessant’anni dall’Unità d’Italia (in certi casi vera e propria annessione) certe contraddizioni tra settentrione e meridione permangono; mi sento europeo in quanto figlio del matrimonio tra cultura greco-romana e giudaico-cristiana, non sono europeo in quanto ripudio sia la necessità storica di una unificazione politico-economica del Vecchio Continente, sia perché aborro ogni reale tentativo di questa unità, ultimo dei quali l’UE. Per questo, nonostante non sia né indipendentista né eurounionista, guardo al tricolore italiano non senza un briciolo di disagio, in quanto simulacro ipocrita di un popolo mancato e di una questione nazionale ancora tutta da risolvere

Più per caso che per altro, ho seguito in piazza tutte le partite della nazionale dagli ottavi di finale dei Campionati Europei in poi, ritrovandomi in un mondo piacevole e sconosciuto, una dimensione nazional-popolare, carnale e passionale dei sentimenti della collettività, in cui a emozionarsi era un unico organismo simbionte che superava ogni distinzione tra locale e nazionale, un hic et nunc che era però anche totalità dell’ethos popolare. Non idealizzo questo movimento della massa, né tanto meno dimentico che dentro quella piazza potevano trovarsi contemporaneamente oppressore e oppresso. Semplicemente, per la prima volta nella mia vita, pur su un tema innocente e scardinato da ogni dimensione politica o etica, sospendendo quelle contraddizioni di cui sopra, io, semplice subalterno tifoso come tutti i tifosi subalterni là presenti, ho capito cosa significa la gioia e la sofferenza in comune.

È indubbio che lo sport professionistico costituisca, trasversalmente in tutto il mondo, una delle modalità con cui le classi popolari ribadiscono il loro esserci nella Storia. Nei miti e nelle vicende del calcio troviamo la proiezione e la sublimazione di conflitti sociali, tensioni e voglia di riscatto[1] di tutte le generazioni dell’ultimo secolo. I detrattori del calcio[2] possono essere distinti in due categorie:

a) coloro che deprecano il calcio perché distoglie l’attenzione da problemi che non coinvolgono il popolo

b) coloro che deprecano il calcio perché distoglie l’attenzione da problemi che coinvolgono il popolo

La prima categoria, che non mi stancherò mai di bistrattare, è la solita destra liberale (che per qualche strano motivo in Italia viene chiamata “centrosinistra”). La loro continua presa di posizione contro il calcio in quanto proiezione della subordinazione delle masse è da intendersi come presa di distanza dalla subordinazione stessa. L’effetto complessivo con la loro passione nella contemplazione dello iato culturale ed economico dalle masse produce quelle sgradevoli personæ sempre pronte a ricordarci che, al posto della partita, vedranno Satantango di Béla Tarr a testa in giù o parteciperanno a qualche apericena solidale in memoria del dissidente sovietico Pinko Pallinovi?. Una partita della nazionale è davvero un atto sovrano della volontà, un ricondurre la molteplicità del dibattito pubblico in un Uno. Prima, durante e dopo la competizione non esistono polemicucce sterili su pagliacciate yankee di inginocchiamenti o followers bot di autoproclamate economiste di Instagram. Essa è la contraddizione principale da risolvere mediante l’atto pratico. Questo è sicuramente il primo insegnamento strategico da apprendere su cosa significa vivere il calcio. È evidente che chi ha costruito la propria parvenza di soggettività sul nulla non può che avere in odio qualcosa che annichilisce quello stesso nulla.

Più interessante è il secondo caso, in cui una incomprensione paternalistica (e, nella grande maggioranza dei casi, autentica) davvero non riesce a spiegarsi il perché la nazionale di calcio susciti molta più partecipazione popolare di impellenti problemi sociali che davvero meriterebbero masse indignate e militanti. Questo distacco suscita vera e propria diffidenza nei confronti dello sport, come se si trattasse di una sorta di distrazione di massa imposta da qualche oscuro potere transnazionale per non permettere lo scatto di autocoscienza dei subalterni. Non nego che esistano veri e propri dispositivi atti a disinnescare il pensiero critico e il conflitto sociale (uno fra tutti il modello sociale propagato dagli influencer): semplicemente la classe intellettuale sensibile alle istanze degli ultimi, se riesce a sentire questo entusiasmo nazional-popolare non deve avere niente di cui vergognarsi, e se non lo sente non deve porsi in maniera altezzosa e superba rispetto a queste occasioni di gioia collettiva, ma porsi come lettore empatico. Anzi, questo lavoro sarà fondamentale, perché ogni conoscenza reale del sentimento popolare non potrà prescindere da una esperienza diretta di queste grandi manifestazioni pubbliche. Evidentemente, se a oggi non esiste neanche un partito di massa con al centro i temi del lavoro, la colpa non è di Mancini, Barella e Chiellini.

È famosa la citazione di Marx, tratta da “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel” secondo cui “La religione è l’oppio dei popoli”. L’interpretazione da illuminista d’accatto vorrebbe con questo imporre un ateismo di stato nell’illusione che abolendo il secondo mondo specchio dello sfruttamento reale, decada anche il primo. In realtà, come già detto sopra, esso è conseguenza e non causa della subordinazione, e anzi, abolendo lo stato di cose presenti uno dei tanti traguardi dovrebbe essere proprio il raggiungimento di una forma di spiritualità superiore. Lo stesso discorso vale per il calcio e lo sport in generale. Dobbiamo essere in grado di costruire questo sentimento di entusiasmo e di partecipazione-identificazione collettiva anche per i grandi temi sociali del XXI secolo senza porci come alternativa intellettualistica all’emotività delle masse[3].


[1] Non possiedo conoscenze approfondite né di antropologia culturale né di psicanalisi che mi permettano di indicare una bibliografia in merito. Per questo rimando genericamente a Ernesto de Martino e Franz Fanon

[2] Chiamo “calcio” le manifestazioni agonistiche del calcio stesso che coinvolgono unitamente la nazione intera senza frazionamenti in tifoserie locali. In generale

[3] Francesco Cundari, in Comunisti immaginari riporta un bellissimo aneddoto che riassume molto bene quello che dico: durante una riunione con dei tristi figgicciotti (il lupo perde il pelo ma non il vizio, mi verrebbe da dire) il segretario del PCI Luigi Longo comincia dal nulla, nell’orrore generale, a cantare Finché la barca va di Orietta Berti, con la morale togliattiana di non allontanarsi mai dalle masse

 

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