MAI PIU’ - Sono uno studioso del genocidio. Lo riconosco quando lo vedo

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MAI PIU’ - Sono uno studioso del genocidio. Lo riconosco quando lo vedo



di Omer Bartov*, 15 luglio 2025

The New York Times

 

Un mese dopo l’attacco di Hamas ad Israele del 7 ottobre 2023, credevo che ci fossero evidenze sul fatto che i militari israeliani avessero commesso crimini di guerra e, potenzialmente, crimini contro l’umanità, con il loro contrattacco su Gaza. Ma al contrario delle urla dei più feroci critici verso Israele, non mi sembrava che tali evidenze arrivassero fino al crimine di genocidio.

A partire dal 24 maggio, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) avevano ordinato ad almeno un milione di palestinesi rifugiati a Rafah – la città più a sud e l’ultima rimanente con relativamente pochi danni di tutta la Striscia di Gaza – di spostarsi verso l’area costiera di Mawasi, dove c’era poca o nessuna copertura. Quindi l’esercito procedette alla distruzione della maggior parte di Rafah, una missione per la maggior parte compiuta entro agosto.

A quel punto non sembrava più possibile negare che la tipologia delle operazioni condotte dall’IDF era coerente con le affermazioni di chi denotava un intento genocidario da parte dei leaders israeliani nei giorni seguenti all’attacco di Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso che il nemico avrebbe pagato “un prezzo enorme” per l’attacco e che l’IDF avrebbe trasformato parti di Gaza, in cui Hamas era operativo, in “macerie”, invitando “i residenti di Gaza” ad “andarsene adesso perché opereremo con forza dappertutto”.

Netanyahu aveva sollecitato i suoi cittadini a ricordare “ciò che Amalek fece a voi”, una frase che molti interpretarono come un riferimento ad una richiesta in un passaggio biblico in cui si chiamavano gli israeliti a “uccidere allo stesso modo uomini e donne, bambini e lattanti” tra i loro antichi nemici. Il governo e gli ufficiali militari dissero che stavano combattendo contro “animali umani” e, in seguito, invocarono “il totale annichilimento”. Nissim Vaturi, il deputato speaker del parlamento, disse su X che il compito di Israele doveva essere quello di “cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della Terra”. Le azioni di Israele potrebbero essere comprese solo come implementazione del manifesto intento di rendere la Striscia di Gaza inabitabile per la sua popolazione palestinese. Io credo che l’obiettivo fosse – e rimane tutt’oggi – di obbligare la popolazione a lasciare la Striscia interamente ovvero, considerando che non aveva dove andare, di debilitare l’enclave tramite i bombardamenti e la grave deprivazione di cibo, acqua pulita, sanità e accesso alle cure per un tempo tale da rendere impossibile per i palestinesi di Gaza il mantenimento o la ricostruzione della loro esistenza come gruppo sociale.

La mia ineluttabile conclusione è diventata che Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese. Essendo cresciuto in una casa sionista, vissuto la prima metà della mia vita in Israele, servito nell’IDF come soldato e ufficiale e speso la maggior parte della mia carriera ricercando e pubblicando sui crimini di guerra e sull’Olocausto, questa è stata una conclusione assai dolorosa da raggiungere, e una su cui ho resistito finché sono stato in grado di farlo. Ma ho tenuto lezioni accademiche sul genocidio per un quarto di secolo. Lo riconosco quando ne vedo uno.

Questa non è una conclusione soltanto mia. Un numero crescente di esperti in studi sul genocidio e sulle leggi internazionali è arrivato a concludere che le azioni di Israele a Gaza possano essere definite solamente come genocidio. In questo modo si è espressa Francesca Albanese, relatore speciale per le Nazioni Unite su Gaza e cis-Giordania, e così anche Amnesty International. Il Sudafrica ha intentato una causa di contro Israele per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia.

La continua negazione di questa parola da parte di stati, organizzazioni internazionali ed esperti legali ed accademici provocherà danni assoluti non solo alle popolazioni di Gaza e di Israele ma anche al sistema del diritto internazionale messo in piedi al risveglio dagli orrori dell’Olocausto e progettato per prevenire che tali atrocità si potessero ripetere nuovamente. E’ una minaccia nei confronti delle fondamenta stesse dell’ordine etico da cui tutti noi dipendiamo.

 

Il crimine di genocidio fu definito nel 1948 dalle Nazioni Unite come “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale”. Nel determinare che cosa costituisca genocidio, perciò, dobbiamo sia stabilire un intento che mostrare come tale intento venga portato avanti. Nel caso di Israele, quell’intento è stato espresso pubblicamente da parte di numerosi ufficiali e leaders. Ma l’intento può anche essere dedotto dalla tipologia di operazioni sul campo, e questa tipologia è diventata chiara dal maggio 2024 – e da quel momento in poi è stata sempre più chiara – da quando l’IDF ha sistematicamente distrutto la Striscia di Gaza.

La maggior parte degli studiosi del genocidio sono cauti ad applicare questo termine agli eventi contemporanei, precisamente perché c’è la tendenza, da quando fu coniata dal giurista ebraico-polacco Raphael Lemkin nel 1944, ad attribuirlo a qualunque caso di massacro o di disumanità. Invero alcuni suggeriscono che questa attribuzione dovrebbe essere completamente scartata, perché spesso serve più ad esprimere indignazione piuttosto che ad identificare un particolare crimine.

Tuttavia, come riconobbe mr. Lemkin, e le Nazioni Unite in seguito concordarono, è cruciale essere in grado di distinguere il tentativo di distruggere un particolare gruppo di persone dagli altri crimini che ricadono nel diritto internazionale, come i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità. Questo perché, mentre gli altri crimini implicano l’uccisione deliberata o indiscriminata di civili come individui, il genocidio descrive l’uccisione di persone quali membri di un gruppo, uccisione concatenata al distruggere irreparabilmente il gruppo stesso in modo che non sia più in grado di ricostituirsi come entità politica, sociale o culturale. E, come la comunità internazionale ha dato a intendere adottando la convenzione, ricade su tutti gli stati firmatari la responsabilità di prevenire tali tentativi, di fare tutto il possibile per fermarli mentre si manifestano e successivamente di punire coloro che si adoperano in questo crimine dei crimini – anche se si verifica entro i confini di uno stato sovrano.

 La definizione ha importanti ramificazioni politiche, legali e morali. Nazioni, politici e personale militare sospettati di, accusati di, o trovati colpevoli di genocidio, sono visti come oltre i confini dell’umanità e possono compromettere o perdere il loro diritto a rimanere membri della comunità internazionale. Una decisione della Corte Internazionale di Giustizia che accerti che uno Stato specifico è coinvolto in genocidio, soprattutto se applicata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, può portare a sanzioni severe.

Politici o generali accusati o dichiarati colpevoli di genocidio o di altre violazioni della legislazione internazionale sui diritti umani dalla Corte Penale Internazionale possono essere arrestati anche al di fuori del proprio paese. E una società che lasci correre e che si renda complice in genocidio, qualunque sia la posizione dei propri cittadini, porterà questo marchio di Caino molto a lungo dopo che i fuochi dell’odio e della violenza si saranno spenti.

 

Israele ha negato tutte le accuse di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. L’IDF afferma di investigare sulle segnalazioni di crimini, ma raramente ha reso pubbliche le sue scoperte, e quando vengono accertate violazioni della disciplina o dei protocolli, di solito ha inflitto punizioni leggere al proprio personale. I capi politici e militari israeliani descrivono continuamente l’IDF come un’entità che opera secondo la legalità, dicono che essi avvertono le popolazioni civili di evacuare dalle zone oggetto di attacco e incolpano Hamas di utilizzare i civili come scudi umani.

Nei fatti, la sistematica distruzione di Gaza non solo degli edifici abitativi ma anche delle altre infrastrutture – edifici governativi, ospedali, università, scuole, moschee, siti di interesse culturale, impianti di trattamento acque, aree agricole e parchi – riflette una politica indirizzata al rendere altamente improbabile il ritorno della vita palestinese nel territorio.

Secondo una recente indagine condotta da Haaretz, sono stati stimati 174.000 edifici distrutti o danneggiati, che contano per il 70% del totale delle strutture nella Striscia. Fino ad ora, più di 58.000 persone sono state uccise, secondo le autorità sanitarie di Gaza, inclusi più di 17.000 bambini, che contano per quasi un terzo delle vittime totali. Più di 870 di questi bambini avevano meno di un anno di vita.

Più di 2.000 famiglie sono state spazzate via, secondo le autorità sanitarie. In più, 5.600 famiglie oggi contano solo un membro superstite. Almeno 10.000 persone si ritiene siano ancora sepolte sotto le macerie delle proprie abitazioni. Più di 138.000 persone sono state ferite o mutilate.

Gaza oggi ha il triste primato di avere il più alto numero pro capite di bambini mutilati al mondo. Un’intera generazione di bambini soggetti a continui attacchi militari, perdita dei genitori e protratta malnutrizione, che soffriranno gravi ripercussioni fisiche e mentali per il resto della loro vita. Ulteriori sconosciute migliaia di persone malate croniche hanno avuto scarso accesso alle cure ospedaliere.

L’orrore di ciò che sta avvenendo a Gaza viene ancora descritto dalla maggior parte degli osservatori come una “guerra”. Ma questa è una definizione impropria. Durante l’ultimo anno, l’IDF non ha combattuto contro un corpo militare organizzato. La versione di Hamas che ha pianificato ed eseguito gli attacchi del 7 ottobre è stata distrutta, sebbene il gruppo indebolito continui a combattere le forze israeliane e mantenga il controllo sulla popolazione nelle aree non presidiate dall’esercito israeliano.

Oggi l’IDF è impegnato principalmente in una operazione di demolizione e pulizia etnica. Questo è il modo in cui il precedente capo di stato maggiore nonché ministro della difesa di Netanyahu, il falco Moshe Yaalon, a novembre sul canale israeliano Democrat TV ed in successivi articoli e interviste, descrisse il tentativo di ripulire la parte nord di Gaza dalla propria popolazione.

Il 19 gennaio, sotto la pressione di Donald Trump, che era ad un giorno dal riprendersi la presidenza, entrò in vigore un cessate il fuoco, che facilitò lo scambio di ostaggi a Gaza con i prigionieri palestinesi in Israele. Ma dopo la rottura del cessate il fuoco da parte di Israele il 18 marzo, l’IDF ha eseguito un piano ben pubblicizzato per concentrare l’intera popolazione di Gaza in un quarto del territorio originario, in tre zone: Gaza City, i campi profughi centrali e la zona costiera di Mawasi nell’estremità sud-occidentale della Striscia.

Utilizzando un gran numero di bulldozers ed enormi bombe da aviazione fornite dagli Stati Uniti, sembra che i militari stiano tentando di demolire ogni struttura rimanente e di stabilire il controllo sugli altri tre quarti del territorio.

Tutto ciò viene facilitato anche da un piano che fornisce, in modo intermittente, limitate forniture di aiuti presso un ristretto numero di punti di distribuzione sorvegliati dai militari israeliani, trascinando la popolazione verso sud. Molti abitanti di Gaza vengono uccisi nel tentativo disperato di ottenere del cibo, e la crisi della fame si aggrava. Il 7 luglio, il ministro della difesa Israel Katz ha detto che l’IDF avrebbe costruito una “città umanitaria” sopra le rovine di Rafah per sistemare inizialmente 600.000 palestinesi dall’area di Mawasi, che saranno assistiti da organismi internazionali e a cui non sarà permesso di andarsene.

 

Qualcuno potrebbe descrivere questa campagna come pulizia etnica e non come genocidio. Ma c’è un legame tra questi crimini. Quando un gruppo etnico non ha più dove andare ed è costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura ad un’altra, incessantemente bombardato ed affamato, la pulizia etnica si può trasformare in genocidio.

Questo è stato il caso in diversi genocidi ben noti del ventesimo secolo, come quello dei Herero e Nama nella Africa sudoccidentale tedesca, oggi Namibia, che iniziò nel 1904; gli Armeni durante la Prima guerra mondiale; e, invero, perfino con l’Olocausto, che iniziò col tentativo tedesco di espellere gli ebrei e finì con il loro assassinio.

Fino ad oggi, solo un piccolo numero di studiosi dell’Olocausto, e nessuna delle istituzioni dedicate alla ricerca e alla commemorazione di esso, hanno espresso un avvertimento sul fatto che Israele possa essere accusato di portare avanti crimini di guerra, crimini contro l’umanità, pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha reso lo slogan “mai più” una presa in giro, trasformandone il significato da una asserzione di resistenza alla disumanità ovunque venisse perpetrata ad una scusa, una apologia, invero perfino a una carta bianca verso la distruzione degli altri invocando la propria storia passata di vittime.

 Questo è un altro dei molti incalcolabili costi della catastrofe attuale. Mentre Israele sta letteralmente cercando di spazzare via l’esistenza dei palestinesi a Gaza e sta esercitando violenze crescenti nei confronti dei palestinesi in cis-Giordania, il credito storico e morale che lo stato ebraico si è portato dietro finora si sta esaurendo.

Israele, creato al risveglio dall’Olocausto come risposta al genocidio nazista degli ebrei, ha sempre insistito che qualunque minaccia alla propria sicurezza deve essere vista come qualcosa che potenzialmente può portare ad un’altra Auschwitz. Questo dà ad Israele la licenza di ritrarre coloro che percepisce come suoi nemici come nazisti – un termine usato ripetutamente dai personaggi mediatici israeliani per descrivere Hamas e, per estensione, tutti gli abitanti di Gaza, basandosi sulla asserzione popolare che nessuno di loro sia “non coinvolto”, nemmeno i neonati che sarebbero cresciuti per diventare dei militanti.

Questo non è un fenomeno nuovo. Già dal tempo dell’invasione israeliana del Libano nel 1982, il primo ministro Menachem Begin paragonò Yasir Arafat, allora asserragliato a Beirut, ad Adolf Hitler nel suo bunker di Berlino. Questa volta, l’analogia viene usata in relazione a una politica volta a sradicare e rimuovere l’intera popolazione di Gaza.

Le quotidiane scene di orrore a Gaza, dalle quali il pubblico israeliano è schermato dall’ auto-censura dei suoi stessi media, mostra le bugie della propaganda israeliana che questa è una guerra di difesa dal nemico pseudo-nazista. Vengono i brividi quando i portavoce israeliani pronunciano senza vergogna il vuoto slogan che l’IDF è “l’esercito più morale al mondo”.

Alcune nazioni europee come Francia, Inghilterra e Germania, così come il Canada, hanno debolmente protestato contro le azioni israeliane, specie da quando ha rotto il cessate il fuoco a marzo. Ma esse non hanno né interrotto la fornitura di armi né intrapreso azioni concrete e significative economiche o politiche che facessero da deterrente per il governo di Netanyahu.

Per un po’ il governo degli Stati Uniti sembrava aver perso interesse in Gaza, col presidente Trump che inizialmente annunciava a febbraio che gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo di Gaza, promettendo di trasformarla nella “riviera del Medio Oriente”, ed in seguito lasciando che Israele andasse avanti con la distruzione della Striscia e voltando la sua attenzione verso l’Iran. Al momento, si può solo sperare che Trump farà nuovamente pressione su un riluttante Netanyahu quantomeno per raggiungere un nuovo cessate il fuoco e mettere fine alle interminabili uccisioni.

 

Come sarà influenzato il futuro di Israele dalla inevitabile demolizione della sua incontestabile moralità. Derivante dalla sua nascita dalle ceneri dell’Olocausto?

La leadership politica israeliana e la sua cittadinanza dovranno decidere. Sembra esserci scarsa pressione interna nei confronti del cambio di paradigma urgentemente necessario: il riconoscere che non c’è altra soluzione a questo conflitto tranne che un accordo israeliano-palestinese per condividere il territorio, con qualunque parametro le due parti concordino di adottare, sia la soluzione dei due stati, o di uno stato o di una confederazione. Pure una robusta pressione dall’esterno da parte degli alleati sembra poco probabile. Sono profondamente preoccupato che Israele persisterà nel suo percorso disastroso, trasformando sé stesso, forse irreversibilmente, in uno stato apertamente autoritario e di apartheid. Stati di questo tipo, come la storia ci ha insegnato, non durano.

Un’altra domanda sorge: quali conseguenze avrà l’inversione morale di Israele sulla cultura della commemorazione dell’Olocausto e sulle politiche della memoria, l’educazione e la dottrina, quando così tanti dei suoi intellettuali e leader amministrativi hanno finora rifiutato di affrontare le proprie responsabilità nel denunciare la disumanità e il genocidio ovunque essi avvengano?

I soggetti coinvolti nella cultura globale della commemorazione e del ricordo costruiti attorno all’Olocausto dovranno affrontare un esame di coscienza. La più ampia comunità di studiosi sul genocidio – quelli impegnati nello studio comparativo di genocidi o di uno qualunque dei molti altri genocidi che hanno afflitto la storia umana – adesso sta avvicinandosi sempre più ad un consenso nel descrivere gli eventi di Gaza come un genocidio.

A novembre, a poco meno di un anno dall’inizio della guerra, lo studioso israeliano sul genocidio Shmuel Lederman si è unito al coro crescente di opinioni che considerano Israele coinvolto in azioni genocidarie. Il giurista internazionale canadese William Schabas è arrivato alla stessa conclusione lo scorso anno ed ha recentemente descritto la campagna militare israeliana a Gaza come “assolutamente” un genocidio.

Altri esperti di genocidio, come Melanie O’Brien, presidente della International Association of Genocide Scholars, e lo specialista britannico Martin Shaw (che aveva anche detto che l’attacco di Hamas fosse genocidario), hanno raggiunto le stesse conclusioni, mentre lo studioso australiano A. Dirk Moses della City University di New York ha descritto questi eventi nella pubblicazione olandese NRC come “un mix di logica militare e genocidaria”. Nello stesso articolo, U?ur Ümit Üngör, un professore del NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies con base ad Amsterdam, diceva che c’erano probabilmente accademici che pensavano ancora non fosse genocidio ma “io non li conosco”.

La maggior parte degli studiosi del genocidio che io conosco non tengono, o per lo meno non esprimono pubblicamente, questa visione. Con poche eccezioni degne di nota, come l’israeliano Raz Segal, direttore del programma di studi sull’Olocausto e genocidio alla Stockton University in New Jersey, e gli storici della Hebrew University di Gerusalemme Amos Goldberg e Daniel Blatman, la maggioranza degli accademici impegnati nella storia del genocidio nazista degli ebrei è rimasta notevolmente silente, mentre alcuni di loro hanno apertamente negato i crimini di Israele a Gaza, o accusato i propri colleghi più critici di incitamento all’odio, di esagerazione, di inquinare il dibattito o di antisemitismo.

A dicembre lo studioso dell’Olocausto Norman J.W. Goda opinò che “le accuse di genocidio come questa sono state usate a lungo come foglia di fico per sfide più ampie alla legittimazione di Israele”, esprimendo così la sua preoccupazione che “esse abbiano diminuito la gravità della parola genocidio stessa”. La “calunnia di genocidio”, come il dr. Goda la chiamò in un articolo, “utilizza una serie di stereotipi antisemiti”, tra cui “affiancare l’accusa di genocidio con la deliberata uccisione di bambini, immagini dei quali sono ubiquitarie tra organizzazioni non governative, social media e altre piattaforme che puntano il dito contro Israele con l’accusa di genocidio”.

In altre parole, mostrare immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi da bombe fatte dagli Stati Uniti e lanciate da piloti israeliani è, in questa interpretazione, un atto antisemita.

Più recentemente, il dr. Goda ed un rispettato storico dell’Europa, Jeffrey Herf, hanno scritto sul Washington Post che “l’accusa di genocidio lanciata contro Israele si abbevera da profondi pozzi di paura e odio”, trovati in “interpretazioni radicali sia nel cristianesimo che nell’islam”. Tale accusa “ha spostato il biasimo dagli ebrei, intesi come gruppo etnico/religioso, verso lo Stato di Israele, dipinto come entità intrinsecamente malvagia”.

 

Quali sono le ramificazioni di questa spaccatura tra studiosi del genocidio e storici dell’Olocausto? Questa non è semplicemente una disputa tra accademici. La cultura della memoria creata nei recenti decenni attorno all’Olocausto ricomprende ben più del genocidio degli ebrei. E’ arrivata a giocare un ruolo cruciale nella politica, nell’educazione e nell’identità.

I musei dedicati all’Olocausto sono serviti da modello per le rappresentazioni di altri genocidi nel mondo. Insistere sul fatto che le lezioni dell’Olocausto richiedano la promozione di tolleranza, diversità, antirazzismo, supporto a migranti e rifugiati, per non menzionare i diritti umani e la legislazione umanitaria internazionale, è radicato nella comprensione delle implicazioni universali di questo crimine, nel cuore della civiltà occidentale all’apice della modernità.

Screditare gli studiosi del genocidio che accusano Israele di genocidio a Gaza accusandoli di antisemitismo, minaccia di erodere le fondamenta degli studi sul genocidio: il bisogno continuo di definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio. Suggerire che questo sforzo è motivato invece da interessi maligni e sentimenti – cioè che è guidato dal puro odio e pregiudizio che è stato alla radice dell’Olocausto – è non solo moralmente scandaloso, ma fornisce un’apertura per politiche di negazionismo e di impunità.

Allo stesso modo, quando coloro che hanno dedicato la propria carriera all’insegnamento e alla commemorazione dell’Olocausto insistono nell’ignorare o negare le azioni genocidarie di Israele a Gaza, essi minacciano di sabotare tutto quello che la dottrina dell’Olocausto e la commemorazione hanno rappresentato nei decenni passati. Ovvero, la dignità di ogni essere umano, il rispetto per il ruolo della legge e il bisogno urgente di non lasciare mai che la disumanità si impadronisca del cuore degli uomini e distorca le azioni degli stati nel nome della sicurezza, dell’interesse nazionale e della pura vendetta.

 

Quel che temo è che in conseguenza del genocidio di Gaza, non sarà più possibile continuare ad insegnare e a fare ricerca sull’Olocausto nello stesso modo di prima. Dal momento che l’Olocausto è stato così incessantemente invocato dallo Stato di Israele e dai suoi difensori come copertura per i crimini dell’IDF, lo studio e il ricordo dell’Olocausto potrebbero perdere il loro diritto di essere trattati  con giustizia universale e doversi ritirare nello stesso ghetto etnico in cui iniziò la loro esistenza alla fine della seconda guerra mondiale – questione marginale, sostenuta dai resti di un popolo emarginato, vista come un evento etnicamente circoscritto, prima di riuscire — decenni dopo — a ottenere il riconoscimento che le spettava come lezione e monito per tutta l’umanità.

Altrettanto preoccupante è il prospetto che lo studio del genocidio nell’insieme non sopravvivrà alle accuse di antisemitismo, lasciandoci senza la cruciale comunità di studiosi e giuristi internazionali a fare da prima linea in un tempo in cui il risorgere dell’intolleranza, dell’odio razziale, del populismo e dell’autoritarismo sta minando i valori che erano al cuore di questi sforzi accademici, culturali e politici nel ventesimo secolo.

Forse l’unica luce alla fine di questo tunnel davvero oscuro è la possibilità che una nuova generazione di israeliani affronterà il proprio futuro senza nascondersi nell’ombra dell’Olocausto, anche se dovranno portare su di sé la macchia del genocidio a Gaza perpetrato in loro nome. Israele dovrà imparare a vivere senza ricadere nell’Olocausto come giustificazione per la disumanità. Quello, nonostante tutte le orribili sofferenze che stiamo osservando oggi, sarà una cosa di valore, e potrà, nel lungo termine, aiutare Israele ad affrontare il futuro in un modo più sano, più razionale e meno intriso di paura e di violenza.

Questo non potrà niente per compensare la sconvolgente quantità di morte e sofferenza inflitta ai palestinesi. Ma un Israele liberato dal soverchiante fardello dell’Olocausto potrà finalmente fare i conti con l’ineluttabile necessità dei suoi sette milioni di cittadini ebrei di condividere la terra con i sette milioni di palestinesi che vivono in Israele, a Gaza e in cis-Giordania, in pace, uguaglianza e dignità. Questa sarà l’unica vera resa dei conti.


*Professore di studi sull’Olocausto e genocidio alla Brown University

(Traduzione di Chiara R. e Andrea A. che ringraziamo sentitamente)

 

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