Calabria. L’ultima “tentazione” dei diseredati di San Ferdinando

Calabria. L’ultima “tentazione” dei diseredati di San Ferdinando

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di Eugenio Donnici

Il nome che è stato coniato, poche settimane fa, dalla Compagnia dei Carabinieri di Gioia Tauro, per passare al setaccio la tendopoli di San Ferdinando, allo scopo di scovare le irregolarità in merito alla fruizione dei benefici del reddito di cittadinanza, ha una precisa connotazione mitologica: “Tentazione”.

Non c’è bisogno di scomodare scene bibliche. Forse è sufficiente riportare un celebre aforisma di Oscar Wilde: «I can resist everything except temptation», per dire, spostando la questione dal cielo alla terra, che è difficilissimo resistere all’odore dei soldi, al tintinnio del denaro, inteso come simbolo che corrompe le anime pie, figuriamoci poi se i soggetti coinvolti sono socialmente ricattabili e afflitti dal bisogno.

Ed è ciò che è successo ai braccianti migranti delle campagne di San Ferdinando, i quali, nel seguire il corso del diritto consuetudinario dei lavoratori agricoli calabresi, hanno infranto, per altri sentieri, la “legge” che esclude gran parte di loro dai benefici del reddito di cittadinanza, in quanto non residenti in Italia da almeno dieci anni.

Sembra che il diavolo tentatore (il denaro) si annidi nelle sedi dei Caf e dei patronati della zona, in quanto alcuni impiegati intrallazzoni avrebbero avviato le istanze per ottenere i sussidi, senza verificare i requisiti di accesso dei migranti. Così come ci sono impiegati degli stessi uffici che, a fronte di un determinato ammontare di denaro, registrano “falsi braccianti italiani” in aziende inesistenti.

Una situazione davvero bizzarra!

Braccianti che si rompono la schiena e sono fradici di sudore, per l’intenso sforzo fisico a cui sono sottoposti, ma che non sono visibili, tranne quando vengono investiti, con le loro biciclette, sulle strade buie della Piana, prima dell’alba e dopo il tramonto, e “finti braccianti” che percepiscono indennità previdenziali quali disoccupazione, malattia, maternità e contributi.

Premesso che, in più occasioni, mi sono espresso criticamente nei confronti dei sostenitori del reddito di cittadinanza, in quanto continuo a portare avanti la tesi della riduzione e redistribuzione del lavoro necessario tra occupati, precari e disoccupati (italiani e stranieri), sono convinto, per un altro verso, che un simile attacco rappresenti un duro colpo a tutti quei lavoratori e lavoratrici con contratti di lavoro atipici, che vivono di espedienti o effettuano le loro prestazioni lavorative a nero, che si ribellano a orari di lavoro massacranti o che hanno perso il diritto ad altre forme di sostegno al reddito, ma nel contesto che stiamo esaminando, credo che possa essere inteso come un ennesimo affondo per criminalizzare i migranti e mantenerli in uno stato di semi-schiavitù

Il loro peculato, per l’appunto, consiste nell’aver abboccato all’esca del sistema delle tutele sociali, nell’aver osato prelevare pochi spiccioli dai rubinetti dei flussi finanziari, destinati ad alleviare l’immiserimento generalizzato in cui versano i lavoratori agricoli.

Si tratta di braccianti, senza fissa dimora, che si spostano da una regione all’altra e che raccolgono gran parte della frutta e degli ortaggi che finiscono sulle nostre tavole; molto spesso, non hanno un contratto regolare, ma lavorano a nero e quindi non possono accedere a tutte quelle forme di integrazione del reddito, di cui godono, tra l’altro, tutti coloro che ricevono le marchette, anche da titolari di aziende fantasma, per prestazioni lavorative mai effettuate.

Nel 1975, quando fu posata la prima pietra per la realizzazione del quinto centro siderurgico nei comuni di Eranova e San Ferdinando, la produzione dell’acciaio, a livello globale, era già in declino. Il miraggio della grande industria fu brevissimo, ma sconquassò gli equilibri preesistenti, trasformando ettari di agrumeti e uliveti in un deserto.

Svanito questo grande sogno, quest’area, a forte vocazione agricola e con un discreto tessuto commerciale, riaffermò la sua posizione nella divisione internazionale del lavoro, esportando prodotti agricoli di qualità e forza lavoro che via via veniva resa superflua.

Nonostante le speculazioni fondiarie poste in essere dalle organizzazioni mafiose locali e le dinamiche competitive messe in atto da altri produttori internazionali, i proprietari di piccoli appezzamenti di terreno denominati “giardini”, per circa un ventennio, riuscirono a ricavare un reddito, che gli permise di costruirsi una casa e mandare i propri figli all’università.

Man mano che la guerra commerciale si fece più cruenta, gli aiuti dell’UE, per riprodurre le condizioni di esistenza di queste piccole aziende, si resero sempre più indispensabili, con l’aggravante, però, che il sostegno dei PAC privilegiò i grandi estorsori - una specie di nuovi latifondisti - i quali, acquisirono la terra dei coltivatori diretti, nella prospettiva di gestire una fetta cospicua dei fondi destinati all’integrazione della produzione agricola.

Allo stesso tempo, se i margini, tra i prezzi di vendita e i costi di produzione di clementine e arance si ridussero all’osso, attestandosi rispettivamente nell’ordine di 8 e 3 centesimi per Kg, il differenziale, per quanto riguarda le arance destinate alla trasformazione, divenne addirittura negativo, nel senso che, in alcune annate, le oscillazioni del mercato determinarono un prezzo di vendita pari a 6 centesimi per Kg, un prezzo troppo basso per ripagare i costi di raccolta.

A far precipitare il prezzo così in basso contribuirono le scelte manageriali di molte industrie di trasformazione, di rifornirsi del succo concentrato proveniente dal Brasile, il cui rendimento era molto più conveniente della materia prima della Piana.

L’arrivo della forza lavoro schiavizzata, com’è noto, non sollevò quest’area dal suo lento degrado, anzi tutte le complicazioni e le tensioni vennero a galla con le rivolta di Rosarno nel 2010.

Insomma, se il quadro, oltre che ad essere desolante, è privo di soggetti collettivi in grado di trovare una sintesi ai conflitti sociali che sono emersi, in seguito alla sostituzione della manodopera locale con i migranti della baraccopoli, su quali basi si regge la ristrutturazione dei 7.000 ettari di terra destinati alla produzione degli agrumi?

L’architrave di questo sistema poggia sul depauperamento del territorio, strozzamento degli agricoltori, connivenza e complicità dei “finti braccianti” locali, nel mungere la mucca delle sovvenzioni pubbliche e ricattabilità sociale dei lavoratori migranti.

A trarne consistenti vantaggi, invece, troviamo una rampante classe di capitalisti agrari, costituita dai gestori degli OP (Organizzazione dei produttori) e dai proprietari dei grandi capannoni di lavorazione degli agrumi, i quali, nella maggior parte dei casi, hanno concentrato la proprietà fondiaria, in vista del fatto che i finanziamenti dell’UE sono commisurati all’ampiezza dei fondi agricoli.

Sono costoro che si accaparrano gli agrumi delle campagne della Piana e impongono i prezzi stracciati, anche perché operano in nome e per conto della Distribuzione Organizzata, Coop e Conad, e della GDO, in cui domina Esselunga, seguita da altri marchi - Auchan, Despar, eccetera.

Ed è proprio nei circuiti parassitari dell’intermediazione commerciale che avviene il prosciugamento del valore, derivante dalla coltivazione di prodotti agricoli di qualità, che si ottengono in questo fazzoletto di terra, alla punta dello stivale.

Un valore che non verrebbe alla luce, senza i finanziamenti pubblici dell’UE ai capitalisti agrari, da un lato, e senza lo sfruttamento selvaggio della manodopera migrante, priva dei diritti basilari, dall’altro lato. L’intera filiera produttiva si bloccherebbe, se, da un giorno all’altro, l’esercito dei disperati si dileguasse, poiché i “nuovi latifondisti“ non potrebbero avallare la loro richiesta delle indennità agricole. E di conseguenza, questi ultimi collasserebbero, trainando nella loro orbita i braccianti, finti e reali, a cui dichiarano 51 o 101 giornate, al fine di fargli ottenere le indennità che eroga l’INPS.

Ecco, dunque, l’accesso ai benefici del reddito di cittadinanza da parte dei diseredati di San Ferdinando potrebbe mettere in discussione proprio l’assetto socioeconomico che si è venuto a formare negli ultimi anni, il quale si mantiene, come ho cercato di delineare, sul torbido legame tra la proprietà fondiaria e le politiche di sostegno alla produzione agricola e sulla spremitura della forza lavoro migrante, sino all’ultima goccia di sudore.

Ma in realtà, il loro tentativo di emancipazione è stato neutralizzato dalla legge reale, quella stessa legge che consente ai proprietari dei grandi fondi d’incassare il denaro pubblico indispensabile per la continuazione della produzione di agrumi, mentre ignora il caporalato, il lavoro nero, i salari da fame, i finti braccianti, le condizioni di vita miserevoli nel ghetto di San Ferdinando e soprattutto eclissa lo sfruttamento brutale dei lavoratori agricoli extra-comunitari.

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