I volenterosi carnefici di Gaza

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I volenterosi carnefici di Gaza

 

di Marcello Faletra

Bambini col cranio forato, intere famiglie cinicamente massacrate, ambulanze colpite da missili, un intero popolo ridotto alla fame fino a crepare, ospedali bombardati senza scrupolo, giornalisti deliberatamente uccisi (oltre 200), navi umanitarie sequestrate in acque internazionali...cos’altro ancora dopo quasi 60.000 morti accertati e 170.000 dispersi, di cui 21.000 bambini? Nonostante ciò, la mattanza continua con la volontaria complicità del civile Occidente, che invia armi e sostegno morale per concludere la mattanza (Stati Uniti, Germania e Italia in primis).

Nel 1996 lo storico Daniel J. Goldaghen pubblicò un corposo pamphlet il cui titolo provocò un forte dibattito tra gli storici: I volenterosi carnefici di Hitler. La tesi del libro consisteva nel fatto che per capire il passaggio all’atto dell’eliminazione degli ebrei non erano sufficienti teorie che si basavano sulla coercizione all’eccidio (i militari erano costretti ad uccidere), ne tanto meno che la responsabilità cadesse ai soli organizzatori dello sterminio, “meschini burocrati”. Ciò che restava ancora da indagare in modo approfondito, era la partecipazione individuale di intere masse popolari, di singoli intellettuali, di figure appartenenti agli apparati propagandistici di stampa, e indotti a promuovere la necessaria eliminazione degli ebrei. Il libro indagava il passaggio dall’astratto al concreto: dietro una struttura burocratica vi sono eserciti costituiti da singole persone, le quali interiorizzano gli ordini, vestono le idee, praticano i pregiudizi e li mettono in opera. Un intero sistema votato alla violenza fino allo sterminio, che non potrebbe esistere senza questi volenterosi carnefici.

Per fare un genocidio occorre una complessa macchina non solo burocratica (statale) e militare, ma si rende necessaria la partecipazione attiva di tutti i singoli individui, che chiamiamo astrattamente “pubblico” o “masse”, oppure “popolo”. A ciò, naturalmente, si aggiunge il lavoro della macchina astratta, incarnata dal politico, dal lobbista, dal propagandista, dal giornalista. Insomma si tratta di quelle singole persone intente a deviare e formare l’opinione, a rendere attivo il pregiudizio, a viralizzare la partecipazione o la passività di fronte all’immagine di un presunto “nemico”.  Questa struttura astratta, stabilisce la cornice entro la quale un genocidio può essere censurato, occultato, mistificato, e infine, se scoperto, come sta accedendo oggi con i palestinesi, giustificato: è colpa di Hamas.

Queste condizione costituiscono lo scenario dello sterminio di un popolo. Ora, da oltre un anno e mezzo assistiamo in diretta alla tragica eliminazione dei gazawi, con ogni mezzo, e con il contributo attivo dei paesi euro-atlantici con potenti armi d’ogni specie inviate a Israele. Per questa totale eliminazione di un popolo molti esponenti della stampa internazionale, partiti di destra e di “sinistra” (in Italia esiste una grottesca e patetica “sinistra per Israele”, cioé sinistra per gli attuali sterminatori), “opinionisti” d’ogni categoria, hanno generato un muro mediatico finalizzato a proteggere Israele dall’accusa di genocidio. La strage del 7 ottobre è diventata l’alibi portante di ogni giustificazione eliminazionista, obliando oltre un secolo di progressiva e violenta occupazione delle terre dei palestinesi, di cui non si sa nulla, al punto che il giornalista Michel Warschawski, testimone diretto della violenza delle espropriazioni dai parte dei coloni sionisti, ha affermato che “Il simbolo di Israele non è più la stella di Davide, ma il bulldozer”.

Evidentemente come nota Enzo Traverso nel suo Gaza davanti alla storia (che cita lo storico Omer Bartov) per meritare il titolo di genocidio questo “deve assomigliare all’Olocausto”. Diversamente, nessun popolo in procinto di essere eliminato o già definitivamente sterminato, può aspirare a questo termine, che ha il valore di un assoluto categorico. Un a-priori ontologico esclusivo del popolo ebraico.

Tuttavia, a dispetto del muro mediatico - un’autentica congiura del silenzio -, è un autorevole storico della Shoah a fornire gli elementi per classificare come genocidio ciò che l’amministrazione sionista israeliana sta mettendo in pratica contro i palestinesi. Léon Poliakov nel suo Bréviaire de la haine – Breviario dell’odio - (1951, trad. It. del 1955 col titolo Il nazismo e lo sterminio degli ebrei), primo ampio studio sul genocidio operato dai nazisti, nelle pagine finali indica alcune variazioni della concezione del genocidio fatta dal giurista polacco Raphael Lemkim nel 1944, e adottata dalle Nazioni Unite. Li riassumo brevemente: 1) genocidio mediante gli ostacoli alla fecondità dei popoli; 2) genocidio mediante il ratto dei bambini; 3) genocidio mediante la degradazione mentale dei popoli; 4) genocidio mediante la deportazione. Tutte queste condizioni – con alcune opportune variazioni – sono presenti a Gaza. Quando un popolo è deliberatamente affamato fino alla morte, sparandogli cinicamente pure addosso; quando gli ospedali sono fatti saltare in aria impedendo cure e nascite; quando centinaia di migliaia di persone sono sottoposte a condizioni di sopravvivenza al limite delle loro possibilità psicologiche; quando un popolo è destinato alla deportazione come vagheggiano i Netanyahu israeliani e nostrani (Trump).

Tutte queste condizioni, che sono presenti a Gaza, legittimano l’uso della parola genocidio, che fa storcere il naso a molti esponenti politici, giornalisti, intellettuali. Siamo davanti a un negazionismo di ciò che sta accadendo a Gaza, supportato dai volenterosi carnefici mediatici e politici. Franco Berardi Bifo nel suo recente libro Pensare dopo Gaza scrive: “Quel che gli israeliani stanno facendo a Gaza, quel che gli israeliani fanno da decenni in tutto il territorio della Palestina, ha la stessa qualità di crudeltà e di accuratezza scientifica che ebbe lo sterminio di Ottan’anni fa.”.

La ritardataria manifestazione del 7 giugno per la Palestina ha avuto una forte partecipazione popolare. Ma tra i vari interventi ha spiccato quello dell’autorevole giornalista Gad Lerner, che ha orgogliosamente difeso l’immagine di un sionismo buono. Le sue parole sono eloquenti: “chi vi parla è sionista, mettetevi nei miei panni... Sionista non equivale a fascista e non equivale a assassino”. Quindi occorre mettersi nei “suoi panni”, non in quelli dei sessantamila morti e di ciò che resta delle loro famiglie. Infine il discorso chiudeva proiettando l’ombra di Auschwitz davanti a coloro che si permettono di associare il sionismo al fascismo o al colonialismo. Ma non era una manifestazione di solidarietà per i palestinesi? Perché giustificare ancora il sionismo? Le sue parole avevano il sapore di un monito a dissuadere dal pensare associazioni del genere. In altre parole: Netanyahu sta tradendo le buone intenzioni del sionismo, mettendo in pessima luce lo stato di Israele. E’ ormai evidente come da oltre un anno serpeggiano forme di dissuasione dirette e indirette. Dirette: chi espone una bandiera palestinese è immediatamente identificato e perseguitato da solerti questori, ma non è così per chi espone la bandiera israeliana. Indirette: forme di dissuasione tramite talk show, stampa, ecc..

Sorge spontanea una domanda: lungo la storia della colonizzazione della Palestina da parte dei coloni sionisti chi sarebbero quelli buoni?  I successori di Herzl, cioé i Jabotinsky, rispetto al quale Hannah Arendt (sionista pentita) ebbe a dire che era un autentico fascista; i Begin, prima terrorista, responsabile del massacro di Deyr Yassin nel 1948, e poi divenuto capo del governo israeliano nel 1977; i Sharon che assecondarono la strage di Sabra e Chatila nel 1982? Per citarne solo qualcuno di questi sionisti. Chi sarebbero i buoni sionisti? E, soprattutto: perché insistere su un termine la cui provenienza storica, ideologica e politica è d’ordine colonialista, e che nel tempo si è trasformata anche in fenomeno razzista?  Forse è per questo nazionalismo revanscista che la destra italiana sposa da tempo la causa del sionismo israeliano?  Il problema è quello di scaricare su singoli individui – Netanyahu in questo caso – le colpe e le strategie di un progetto di colonizzazione radicale, che investe un modo d’essere e di pensare della destra israeliana che da decenni governa Israele e le cui radici sono da cercare più indietro. Inoltre, la presa di posizione di Lerner sinceramente indignata verso l’amministrazione Netanyahu, tendeva a separare il progetto sionista dal suo cattivo uso politico.

Insomma, la confusione su questo termine regna sovrana, al punto che coloro che vi si oppongono vengono manganellati non solo fisicamente, ma accusati appunto di “antisemitismo”. (L’abuso in termini semantici e storici di questa parola recentemente è stata indagata da Valentina Pisanty nel suo libro Antisemita, una parola in ostaggio). Ora, qual’è l’orizzonte dentro il quale vediamo ciò che sta accadendo in Palestina? Quando si sentono parole come quelle di Lerner,  si parla in nome di un nazionalismo, di uno stato o di un ebraismo revanscista, che rivendica la “terra dei padri”? Non è chiaro. Ma l’ambiguità è potente, se non fuorviante. A meno che Lerner non intendeva riferirsi ai “sionisti di sinistra” (Berit Shalom), cioè alleanza per la pace, che prospettava una soluzione “binazionale”: uno stato unitario arabo-ebraico. 

Seguendo il ragionamento di Lerner si cade nel paradosso che, in un altro contesto, vi sarebbe un capitalismo buono e uno malvagio. Se il capitalismo è rappresentato dall’ex presidente degli USA Biden sarebbe buono (secondo una surreale visione dei “neocons” supportati dalla maggior parte della stampa occidentale); quello invece rappresentato dall’attuale presidente sarebbe cattivo (va notato che Lerner questo non l’ha detto, ma applico le conseguenze retoriche del suo ragionamento in altri contesti). Questo tipo di ragionamento genera scenari fuorvianti della questione in gioco, e non contribuisce a sciogliere il vuoto di conoscenza storica, ideologica e religiosa del problema del sionismo: cioè il problema del fatto che dalla fine dell’Ottocento il progetto di creare insediamenti di coloni ebrei in Palestina rientra nella vulgata di “rinascite nazionaliste”, che hanno segnato l’Europa, ma che, occorre specificarlo, non hanno tutti la stessa fisionomia. Perché se il nazionalismo che ha segnato paesi come l’Italia o la Grecia, avevano la natura di un  grezzo liberalismo, quello sionista era messianico-rivendicativo alla luce dei pogrom russi, del caso Dreyfus in Francia e del costante aumento dell’antisemitismo tedesco, che avrà il suo culmine con il nazismo.  Tutte queste cose sono ben note. Di ciò si sono occupati tra gli altri – la lista è davvero lunga - ampiamente molti storici, fra gli altri Ilan Pappé, Benny Morris, Rashid Khalidi, il sociologo Ernest Gellner per il quale è il nazionalismo che genera le nazioni. A cui gli fa eco lo storico Eric Hobsbawm quando osserva che “Il sionismo e il nazionalismo israeliano si sono definiti in deliberata contrapposizione con il passato oggettivo del popolo ebraico, e perciò preferiscono sottolineare la propria continuità con gli ultimi combattenti abitanti ebrei della Palestina, sorvolando sull’intervallo di milleottocento anni che, per quanto sia ebraico a sufficienza, non è ‘nazionale’ in alcun senso moderno”.

Ed è con Theodor. Erzl che il sionismo si è ridefinito in termini nazionali, dove la componente mitico-religiosa ne è l’asse portante per giustificare il processo di colonizzazione; Tanto è vero che in una lettera inviata al colonialista inglese Cecil Rhodes (a cui l’impero britannico dedicò la colonia col suo nome Rodesia trascurando il nome che gli davano i suoi abitanti cioé Zimbabwe) scrive: “il mio programma è un programma coloniale”. E non va trascurato il fatto – come ha fatto osservare un altro storico, Shlomo Sand – che “il termine ‘nazione’ deriva dal latino ‘natio’. Il vocabolo trae la propria origine dal verbo ‘nasci’, il cui significato è ‘nascere’”.

In questo contesto il passaggio dall’ideologia – nazionalismo - al culto dell’identità è breve. E ogni culto dell’identità implica un culto della terra, una terra d’origine mitica, leggendaria, o in altre parole una “mito-storia” (la Bibbia), che ogni costrutto ideologico crea, per rivendicarne l’appartenenza originaria, la quale a sua volta significa far coincidere tale mito-storia con dei presunti confini geografici.

Ignorare ciò è fuorviante. E sono altrettanto autorevoli storici ebrei a smentire questa rappresentazione dei buoni e dei cattivi sionisti. Ne cito uno per tutti – Uri Avneri – il quale già militante nella formazione militare dell’haganah – dalla cui costola nacque l’Irgun fascista - e combattente per il sionismo nella guerra del 1948 -, scrisse queste parole dopo la “guerra dei sei giorni” (1967): “Come movimento colonizzatore, il sionismo è congenialmente espansionista, almeno entro i confini storici della Palestina”. E in un altro passo della sua testimonianza scrive: “Altri sostengono che dopo l’annessione non si dovrebbero concedere agli arabi i diritti civili, trasformando cosi Israele in un nuovo Sud Africa o una nuova Rhodesia, con cittadini ebrei che esercitano il potere politico su una popolazione indigena oggi minoritaria...”. Ma la testimonianza di Avneri continua con una osservazione oggi di profetica attualità, infatti prosegue: “In un modo o nell’altro, l’annessione sarebbe la fine di Israele come oggi la conosciamo, la fine di ogni speranza di integrazione pacifica (corsivo mio) della Regione, la trasformazione definitiva di Israele in uno stato crociato armato”.

Scritte nel 1968 queste parole sembrano già definire la metastasi del progetto sionista, del quale oggi siamo tutti testimoni diretti. 

Ed è un altro storico e sociologo, figlio di ebrei russo-polacchi e naturalizzato francese, il cui padre fu gasato ad Auschwitz – Maxime Rodinson – a sottolineare quanto il sionismo sia un progetto coloniale dei “bianchi” europei perpetrato sulla pelle delle popolazioni arabe della Palestina. Ecco un breve passaggio della sua testimonianza risalente al 1968, quando a proposito dei coloni ebrei osservava che: “Non solo erano stranieri, ma erano europei, ossia provenivano da un mondo, caratterizzato dappertutto come il mondo dei colonizzatori, dei popoli dominatori grazie alla loro potenza tecnica e militare e alla loro ricchezza”. E più avanti osservava che: “Il sionismo ha cominciato a formarsi nell’età dei nazionalismi, di cui esso stesso era una manifestazione, e ha proseguito la sua carriera nell’epoca della decolonizzazione.”

Ma come dissociare il sionismo dalle confische delle terre ai palestinesi, che è stato esercitato da quasi un secolo? In merito a ciò vale la pena citare anche ciò che scrisse Sabri Geries, cittadino arabo dello stato di Israele, il quale in una sua memoria ricorda una normativa emanata per la confisca delle terre ai palestinesi risalente al 1945, conosciuta come “Defence (Emergency) Regulations”. All’art. 125 si afferma che i capi militari hanno il potere di dichiarare “zona chiusa” alcune regioni della Palestina sotto la loro giurisdizione, e dove entrate  e uscite possono effettuarsi solo col consenso militare. Questa normativa del 1945 anticipava ciò che poi nel 1948 avvenne con la massiccia espulsione di 750.000 palestinesi dai loro villaggi. La pratiche delle confische delle terre, delle espulsioni e degli espropri lungo tutti questi decenni è diventata norma, di cui le “democrazie” occidentali, col loro silenzio sono state complici.

Ora, come è noto le mire colonizzatrici dei sionisti non sono nuove, risalgono già alla fine dell’Ottocento, nei primi due congressi che si sono tenuti a Basilea nel 1897 e nel 1898 dal suo fondatore Theodor Erzl. E nella prospettiva di Herzl, queste mire erano ben chiare. Un passo significativo del suo diario è esplicito in merito: “Dobbiamo espropriare la proprietà privata delle terre che ci sono state assegnate. Cercheremo di spingere chi è privo di mezzi oltre i confini, procurandogli un lavoro nei paesi di passaggio, mentre glielo negheremo nel nostro. Chi detiene la proprietà passerà dalla nostra parte. Sia il processo di esproprio che l’allontanamento dei poveri dovranno essere condotti con discrezione e cautela”. Che dire di queste confessioni?  Togliere le terre ai palestinesi e accompagnare con “discrezione” fuori dalla Palestina i loro legittimi abitanti, fa parte del programma sionista di ieri, che oggi, i discendenti di Herzl – Netanyahu & C. - si traduce in genocidio. Una spirale vertiginosa di violenza, senza limiti, col silenzio complice dei volenterosi carnefici europei, che non hanno smesso di inviare armi d’ogni specie per supportare la soluzione finale del progetto sionista: in fondo ripetono come un mantra la stessa giustificazione: è colpa di Hamas; tutto ciò che precede non conta. Chomsky a proposito non usa mezzi termini e chiama “patologia sionista” tutto il processo colonialista e razzista che dopo la Nabka del 1948 è in atto in Palestina.

La realtà storica – il fatto che la Palestina è stata popolata da secoli, appunto, dai palestinesi -, questo fatto è scavalcato dal presupposto mistico del “ritorno” alla “terra promessa”. L’irrealtà del mito è così tradotta in realtà politica, con ogni mezzo. La disparità ontologica è messa in atto. Ma, stranamente, questa disparità ontologica era quella del filosofo fascista Julius Evola, che non concepiva una parità tra popoli, ma che esistesse una gerarchia ontologica, di cui gli ariani e i fascisti suoi ammiratori contemporanei, sarebbero stati i depositari. Ma non è cos’i anche oggi, con l’islamofobia che governa l’Occidente? E la difficoltà di usare la parola “genocidio” è il sintomo del fatto che i palestinesi sono un popolo in cui non ci identifichiamo.

 Ora, che la politica sionista è di fatto l’ultimo residuo del colonialismo lo dimostra tutta la compagine europea, che anziché porre un freno alla catastrofe genocida in atto, preferisce voltarsi da un’altra parte. Questa Europa vive di una flagrante ipocrisia: da un lato blatera retoricamente “democrazia” e “libertà” dei popoli, ma poi promuove silenzi sulle guerre di cui è anche responsabile, e arma i sionisti, cioè i colonialisti sopravvissuti alla fine dei nazionalismi. Diciamolo chiaramente: sionismo ed ebraismo sono antitetici. Il culto della terra – tradotto politicamente: colonialismo – non ha nulla a che vedere con la prismatica cultura ebraica. Strumentalizzare questo aspetto, cioè strumentalizzare le persecuzioni millenarie degli ebrei fino alla Shoah, per legittimare, ciò che il criminale dell’ultradestra israeliana Netanyahu e i suoi sgherri sia interni che esterni (europei e yankee), stanno compiendo, è solo abominio.

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