La guerra del Nilo

La Grande Diga della Rinascita riaccende l'infinita guerra dell'acqua tra Egitto e Etiopia

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La guerra del Nilo


di Simone Massi
Studente di Relazioni Internazionali all'Università di Torino


Dalla metà del secolo scorso si discute del possibile sfruttamento delle acque del Nilo, il fiume più lungo del mondo con un bacino idrografico che copre un decimo dell’Africa, ma solo due anni fa il governo etiope ha inaugurato i lavori della “Grande Diga della Rinascita" (Hidase Gedib in amarico). Il progetto intende deviare il corso del Nilo Azzurro per ricavare 6000 megawatt annui di energia idroelettrica. Il tutto ad un costo non indifferente di 4,8 miliardi di dollari, forniti in gran parte dal governo locale e da banche cinesi (1,8 miliardi): il totale corrisponde a poco più del 15% del prodotto interno lordo etiope. L’appalto è stato vinto dalla Salini Costruttori, l’azienda italiana che aveva già costruito altre tre dighe in Etiopia e che intende completare l’opera nel luglio 2017.  
 
La nuova diga mette in discussione gli accordi del 1929 e 1959 in cui vennero stabilite le percentuali di utilizzo delle risorse fluviali: poco più della metà all’Egitto, un quinto al Sudan e le parti restanti alle nazioni confinanti. Ma si tratta di un’epoca coloniale ormai lontana – e oggi malvista – e sono molti i paesi che intendono ridiscuterne i contenuti. Il governo etiope rivendica da tempo l'usurpazione delle proprie risorse idriche e promuove una nuova spartizione proporzionata agli abitanti. Al tempo stesso cerca di tranquillizzare gli egiziani affermando che il piano non avrà alcun impatto sull’approvvigionamento del paese dei Faraoni. Ma il presidente Morsi, insieme al ministro egiziano per le risorse idriche Mohammed Bahaa el-Din, in più occasioni si è dichiarato preoccupato per i danni che la diga potrebbe procurare al proprio paese. La sua costruzione viene indicata dall’Egitto come una minaccia diretta alla propria sopravvivenza.
 
Il rischio è che 12 miliardi di metri cubi d’acqua non raggiungano più gli egiziani: ragione per cui a gennaio del 2012 è stata istituita una commissione di esperti provenienti da Etiopia, Sudan ed Egitto per studiare gli effetti della nuova diga. Pochi giorni fa il presidente Morsi ha organizzato una riunione a porte chiuse per discutere i risultati della commissione ed eventuali provvedimenti: inavvertitamente l’audio è rimasto aperto e sono stati resti pubblici tutti i contenuti dell’incontro. L’Egitto non esclude ritorsioni anche molto pesanti contro l’Etiopia – tra cui il finanziamento delle frange eversive e dei ribelli locali – e la diplomazia potrebbe non bastare per risolvere un contenzioso che mostra attriti anche con l’alleato meridionale, il Sudan, il cui ministro Ahmed Bilal Osman ha espresso il proprio apprezzamento per il progetto. Ma entrambi i paesi nel 2010 non hanno firmato l’Accordo di Entebbe che annullava i trattati coloniali, a favore di un nuovo sistema di collaborazione sul bacino del Nilo.
 
Al momento restano possibili sviluppi anche molto diversi. Se da un lato la visita ad Addis Abeba del presidente Morsi nel luglio 2012 mostrava i segni di un’apertura politica insperata (era dal 1995 che un capo di Stato egiziano, in quel caso Hosni Mubarak, non visitava la capitale etiope), oggi i toni sono molto più aspri e i due governi si fronteggiano su temi delicati per entrambi. Ad un anno dal suo insediamento il presidente egiziano non riesce ancora ad affermarsi pienamente e deve affrontare un deficit economico di difficile portata, mentre il governo etiope non intende perdere la possibilità di un’autonomia energetica e finanziaria attesa da anni.

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