La resa (incondizionata) di Trump

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La resa (incondizionata) di Trump



di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico

A sorpresa il presidente Trump entra in scena nel conflitto tra Israele e l’Iran e bombarda i siti nucleari di Fordow, Natanz e Esfahan. Lanciato l’attacco si presenta alla nazione ed al mondo con una dichiarazione lapidaria, piena di significati.

L’uomo anticonvenzionale che ha promesso al suo popolo una politica improntata allo slogan ‘America first’, lontana dal ruolo di poliziotto mondiale che questa nazione ha svolto per quasi un secolo, finisce impantanato nell’ennesima guerra medio-orientale. Significativo il tono emozionato del presidente, un uomo che mai lascia cadere la guardia, un veterano intrattenitore, un negoziatore navigato di prima classe come si è definito nel suo libro The Art of the Deal. Si ha l’impressione, ascoltandone le poche frasi, che Trump abbia preso questa strada perche’ non aveva scelta, e che lo abbia fatto a malincuore. Come ha spiegato Steve Bannon nel suo podcast War Room, Israele ha manovrato abilmente affinché Washington entrasse in guerra al suo fianco. Bannon aggiunge anche quello che molti hanno scritto e detto, che Israele da sola non sarebbe stata in grado di vincere questa guerra e che aveva bisogno dell’alleato statunitense.

Una fetta consistente dei sostenitori del Maga era contraria all’intervento armato in Iran ed aveva fatto pressione sulla Casa Bianca per non entrare nel conflitto, una guerra che non appartiene alla filosofia politica della dottrina American First. E sicuramente il Trump della campagna elettorale avrebbe condiviso questa visione. Quel Trump era convinto che chiudersi al mondo era l’unica strategia vincente per una nazione ricca e potente nel contesto attuale: il progressivo spappolamento dell’ordine globale post Seconda guerra mondiale. E non facciamoci confondere dalla retorica elettorale, Trump non era affatto sicuro che sotto la sua guida e nel giro di pochi mesi gli Stati Uniti avrebbero pacificato il Medio Oriente e risolto la spinosissima questione ucraina. Sperava, molto probabilmente, in una tregua di lungo periodo in Ucraina e pensava che Israele si sarebbe fermato, come è successo tante volte prima, una volta rasa al suolo Gaza. Ma non è stato cosi’. Gli ostacoli sono stati tanti, dall’ostilità alla sua politica pacifista da parte dei paesi dell’Unione Europea alla cocciutaggine di Zelensky, dall’abilità del negoziatore Putin alla guerra ad oltranza di Netanyahu.

L’elemento imprevedibile, pero’, è stato l’attacco in Iran. Trump poteva tenere a bada gran parte di questi individui, la dottrina American First poteva convivere con un coinvolgimento minimo in Ucraina attraverso la Nato, poteva anche sopravvivere al prolungamento del conflitto in Palestina, i.e. in Cisgiordania, ma non poteva perdurare se gli Stati Uniti venivano trascinati in uno scontro frontale con una nazione sovrana. Questa azione ne è l’antitesi.

Donald Trump come George W Bush, altro presidente eletto su una campagna elettorale costruita su una piattaforma di rafforzamento interno, i.e. di non-intervento – come dimenticare la sua antipatia per le politiche di cambio di regime nei paesi esteri – è finito nel tritacarne della politica egemonica americana in quanto presidente della nazione poliziotto del mondo. È la carica, il sistema che le sta dietro, il complesso meccanismo degli equilibri geopolitici che questa gestisce, dove l’atomica gioca un ruolo chiave, che ha costretto Bush prima e Trump adesso ad entrare nell’ennesimo conflitto in un sistema in disfacimento. Un conflitto che nessuno puo’ veramente vincere. Certo, come dicono i sostenitori del MAGA contrari all’intervento armato in Iran, Bush lo ha fatto in risposta all’11 settembre, un attentato contro la sua nazione ed il suo popolo, Trump lo fa per aiutare un alleato vittima di un simile attentato, dove le vittime non sono americane. Tuttavia, cio’ che davvero conta non sono le motivazioni ma i risultati.

L’Iran è una nazione con circa 95 mila abitanti, con una popolazione molto giovane, con un regime impopolare ed un esercito pronto alla guerra. Vi ricorda qualcosa? A differenza di Saddam Hussein, il regime degli Ayatollah ha anche alleati importanti, si pensi solo alla Russia ed alla Cina. Ma anche se questi rimarranno a guardare, la guerra dal cielo non basterà e quella dei boots on the ground non è piu’ praticabile, l’opinione pubblica statunitense non l’appoggerebbe mai.

Il crollo degli imperi comporta sempre scelte dettate dal ruolo delle istituzioni che non sono al passo con i cambiamenti e raramente dalle visioni di lungo periodo dei politici. Le istituzioni dell’impero britannico in India hanno continuato a tenere alta la bandiera della colonizzazione, anche quando era palese che il Raj si stava dissolvendo, e gli uomini che le ricoprivano hanno fatto dei gravissimi errori in funzione di ruoli che appartenevano al passato.  L’implosione dell’Unione Sovietica è stata accelerata da un premierato, quello di Gorbaciov, che credeva di possedere capacità di controllo e negoziazione appartenenti all’URSS, errori che hanno ridotto la Russia in macerie. Perche’ oggi dovrebbe essere diverso?

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