NYT: Meglio Trump che Nikki Haley

NYT: Meglio Trump che Nikki Haley

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L’abbandono della corsa per la nomination repubblicana di Ron DeSantis ha gettato nello sconforto l’establishment Usa, anche se era nell’aria (vedi nota precedente). Scelta obbligata quella del governatore della Florida, dal momento che i sondaggi che circolavano lo davano tra il 6 e il 7 per cento, risultato che avrebbe incenerito anche le speranze di correre per le presidenziali del 2028 – che vuole conservare – quando Trump non sarà più eleggibile e spera di apparire come suo naturale successore.

DeSantis si ritira e fa votare Trump

D’altronde, nella sua campagna elettorale aveva provato a imitare il puzzone, pur con ovvie diversità e polemizzando con lo stesso, ma gli è andata male. Così è anche naturale che abbia accompagnato il su ritiro con un endorsement per Trump, verso il quale vireranno la maggior parte dei suoi elettori, come spiega un articolo di Aaron Blake sul Washington Post.

Haley gets her ‘two-person race’ with Trump. It doesn’t look promising.


Decidendosi in favore del Tycoon si è smarcato dalla presa neocon, ai quali si era legato per ascendere alla Casa Bianca. D’altronde, DeSantis non era un uomo “loro”, come segnalavano alcune sue battute sulla guerra ucraina, alla quale aveva chiesto di porre fine (dichiarazioni poi corrette), e certa vicinanza a Elon Musk, che aveva lanciato la sua candidatura, odiato dai neoconservatori.

Tanto è vero che i neocon avevano sostenuto anche la candidatura della Haley, molto più in linea con le loro direttive, offuscando in tal modo le speranze di DeSantis di vincere. Ma la decisione di sostenere Trump nasce anche da altro: la sfida della Haley non appare vincente, né tale prospettiva sarebbe stata ribaltata dal suo sostegno, da cui la decisione di puntare sul puzzone nella speranza di condividere gli utili della vittoria.

Speranza che sembra abbia certo fondamento, dal momento che Trump ha dichiarato che lo non chiamerà più DeSanctimonious, ammettendolo così implicitamente alla sua corte.

Le speranze vacillanti della Haley

Resta, dunque la sfida a due, con la Haley determinata a contrastare Trump a tutto campo. Ma nell’articolo citato Blake spiega che tale sfida non appare molto “promettente”. Le primarie del New Hampshire che si terranno mercoledì daranno un ulteriore verdetto, dopo quello desolante dello Iowa.

E qui alcuni sondaggi sono alterni, come annota Aaron Blake, spiegando che il sondaggio più favorevole alla Haley era stato realizzato dall’Americans for Prosperity che l’aveva “appena appoggiata”, mentre altri sondaggi la danno molto al di sotto del suo competitor.

Sarà poi la volta delle primarie in Carolina del Sud, che la donna ha governato per diversi anni, e quella potrebbe essere la tappa decisiva, nel caso di un’altra sconfitta secca.

Ma l’establishment sta prendendo le contromisure per fermare la corsa di Trump, tra l’altro spingendo degli elettori democratici a iscriversi alle primarie repubblicane del New Hampshire per votare la Haley, con Hella Ross, storica bandiera dem, che ha dato l’esempio (Dailymail).Meet the Democrat saboteurs who have registered as independents in New Hampshire to STOP Trump

NYT: meglio Trump che la Haley

In controtendenza un articolo del New York Times, il giornale faro dei democratici, scritto da Ross Douthat dal titolo più che interessante: “Perché Nikki Haley può rivelarsi il presidente più pericoloso”.

Il motivo sta tutto in un’annotazione: “in politica estera, la [sua] visione decisamente aggressiva è ancora più lontana dall’attuale panorama globale”, cioè è fuori dalla realtà, dal momento che le sue “promesse di risolutezza e di chiarezza morale non ci salveranno: non è possibile affrontare ogni minaccia con un’incondizionata fiducia [nelle proprie possibilità] e la potenza militare”.

Why Nikki Haley Could Be the Most Dangerous President

Ancora più interessante quanto scrive in precedenza: “Quando sarà scritta la storia del declino americano del 21° secolo, il capitolo cruciale non sarà su Trump, ma su uno dei suoi predecessori, George W. Bush: un uomo migliore di Trump, un politico capace con una storia politica solida alle spalle e degno di credito, ma anche l’architetto di una politica estera arrogante i cui effetti disastrosi continuano a diffondersi nel paese e nel mondo“.

“La guerra in Iraq e il fallimento più lento e prolungato in Afghanistan non hanno solo dato il via al disfacimento della Pax Americana”, ma anche a quello che si registra all’interno dell’Impero. Al di là dell’annotazione sulla migliore postura morale di Bush e sul maggior credito che gli si può attribuire rispetto a Trump, annotazioni sulle quali è meglio stendere un velo pietoso, l’annotazione appare di grande interesse.

Ci vorrebbe un Nixon o un Eisenhower

Se si tiene presente quel che evita di scrivere Douthat, cioè che la presidenza dell’imbelle e alcolista Bush fu gestita dai neocon, che dopo l’11 settembre presero in mano tutto il potere, la nota appare ancor più significativa, perché tale ambito ora punta decisamente sulla Haley (almeno per ora: se fallirà, virerà sul partito democratico).

Tale parallelismo è descritto in altro modo da Douthat: “La Haley non è esattamente un repubblicano alla George W. Bush. Piuttosto, condivide lo stato d’animo emerso nell’establishment dei repubblicani dopo il crollo del bushismo, che attribuiva i fallimenti della sua presidenza alle spese eccessive piuttosto che all’Iraq e immaginava un futuro repubblicano definito dall’austerità fiscale, dalla moderazione sulle questioni sociali e da un approccio aggressivo a tutto spettro in politica estera“.

Insomma, meglio Trump della Haley. Tanto è vero che Douthat scrive che ci vorrebbe un  presidente alla Nixon, al quale si rifà Trump, se non un nuovo Eisenhower, al quale si rifaceva, invece, Obama.

Con quest’ultima annotazione, Douthat segnala che nell’ambito democratico sarebbe preferibile una presidenza alla Obama – che fece la pace con l’Iran e cercò di frenare la guerra in Libia e Siria, anche se con tante tragiche ambiguità – a una presidenza democratica aggressiva in stile Clinton, la cui nefasta aura ancora domina l’establishment dem per quanto riguarda la politica estera.

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