Russia-Turchia: con il “Turkish stream-2” la geopolitica non è solo energetica

Russia-Turchia: con il “Turkish stream-2” la geopolitica non è solo energetica

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di Fabrizio Poggi


Con una cerimonia che ha visto Vladimir Putin ospite di Recep Erdogan a Istanbul e i due, insieme, video-collegati col capo di “Gazprom” Aleksej Miller, è stata completata la posa dei 930 km del tratto subacqueo del “Turkish stream-2” che, sul fondo del mar Nero, collega Anapa, nella regione di Krasnodar, alla turca K?y?köy, a nord di Istanbul. Non appena ultimati i 180 km del segmento terrestre, il gas russo arriverà in Turchia e poi, realizzata la seconda tratta (i piani sono per fine 2019), da lì in Europa sud-orientale. Pare che “Gazprom” non abbia ancora deciso tra le due possibili opzioni di percorso: attraverso Bulgaria, Serbia e Ungheria, oppure attraverso Grecia e Italia meridionale. Non sembra esagerata l'esclamazione di Erdogan, che ha definito il fatto “di significato storico, dal punto di vista geopolitico”. Il gasdotto completo sarà costituito da due complessi di tubazioni, ognuna delle quali con una portata annua di 15,75 miliardi di mc di gas.


Già prima dell'inaugurazione, il capo dell'ucraina “Naftogaz”, Andrej Kobolev, si era premurato di mettere in guardia il mondo, affermando che il “Turkish stream” comporta a sud, per il sistema ucraino di transito del gas, la stessa minaccia del “North stream-2” a nord. Secondo Kobolev, lo scopo di tali gasdotti è quello di privare l'Ucraina del transito del gas, una delle principali voci d'entrata del suo bilancio.


In effetti, la via del mar Nero del “Turkish stream-2”, taglia fuori il percorso ucraino del “Turkish stream-1” e, come nota Stanislav Tarasov su iarex.ru, oltre a rafforzare i legami tra Mosca e Ankara, è potenzialmente in grado di trasformare la Turchia nel più aguerrito hub energetico mediorientale e nodo cruciale per l'Europa meridionale e sud-orientale. Aspetto ancor più importante, la Turchia ha risposto picche alle pressioni statunitensi per indurla a rinunciare al progetto, fiutando che l'Ucraina, “al pari di Moldavia, Romania e Bulgaria, verrà tagliata fuori del transito del gas naturale” e pur nella consapevolezza che, come ha scritto lo statunitense William Engdahl, Washington potrebbe tentare un colpo di mano ad Ankara. D'altronde, Ankara ha fatto lo gnorri anche sulla questione dell'acquisto dalla Russia del sistema missilistico S-400, nonostante le minacce americane di sanzioni: il contratto è stato firmato un anno fa, la consegna sarebbe prevista per maggio 2019 e sembra che le forze armate turche abbiano già messo mano alla realizzazione degli alloggiamenti per le batterie contraeree. Su questo, USA e NATO fanno finta di fare la voce grossa, ma Ankara è una pedina troppo importante nell'area del Mediterraneo orientale.


Della portata “storica” del gasdotto hanno parlato anche sia la polacca Nowe Panstwo, sia la tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung: la prima, associando il turkish-2 al “North stream-2”, come due bracci di una “stessa tenaglia” per prendere l'Europa dai fianchi; la seconda, per dire che ora la sicurezza energetica europea “è nelle mani di Berlino e Ankara”. Lo stesso, a detta di Bloomberg che però, ai due gasdotti europei, unisce anche l'orientale “Sila Sibiri”. Lo scorso anno, ricorda Bloomberg, Mosca ha soddisfatto un terzo del fabbisogno energetico europeo e, da qui al 2025, fornirà il 40% del gas necessario al vecchio continente, nonostante le sanzioni USA contro le imprese europee che partecipano al “North stream-2” e nonostante che la Polonia acquisti il gas dalla Norvegia e quello di scisto dall'America.


Pochi dubbi appaiono a proposito della strategia russa di disegnare quante più contromosse possibili all'accerchiamento militare e politico di USA e NATO. Oltre al fattore energetico, con cui Mosca stringe efficaci rapporti con paesi strategicamente vitali sul fronte occidentale, va nella stessa direzione anche la “guerra” del mar d'Azov, che contrappone il Cremlino ai nazigolpisti ucraini, al momento, “solo” per la navigazione di vascelli mercantili e da pesca, ma che rischia di assumere contorni più seri per l'intenzione ucraina di costruire a Berdjansk una base militare per motovedette corazzate. E' già tanto che alla fine Kiev abbia rinunciato alle previste manovre navali con la NATO nello stesso bacino d'Azov; ma la solita Federica Mogherini ha già minacciato “concrete misure” della UE, ovviamente contro Mosca e a sostegno delle regioni ucraine interessate alla questione del mar d'Azov.


D'altro canto, secondo l'americana Stratfor, nel 2019 Washington cercherà di incrementare ancora la propria influenza sui paesi confinanti con la Russia, dall'Europa orientale, al Caucaso, all'Asia centrale, coinvolgendoli in manovre militari e nell'acquisto di armi yankee. La Casa Bianca farà di tutto, tramite ”stimoli economici” e “garanzie di sicurezza”, per allontanare dall'orbita di Mosca anche quei paesi dell'ex Unione Sovietica oggi più vicini al Cremlino, come Kazakhstan, Bielorussia, Armenia, Tadzhikistan o Kirgizia.


Anello chiave in Europa è ovviamente l'Ucraina, cui Washington aumenterà le forniture militari e sosterrà nelle ambizioni per il mar d'Azov; inoltre, sullo sfondo del ritiro dall'accordo sui missili a media e corta gittata, gli USA incrementeranno presenza e manovre militari – già ora senza soluzione di continuità durante tutto l'anno - in Polonia, Romania e Paesi baltici, insieme all'accelerazione per l'apertura di una base permanente in Polonia. A questi passi, nota Stratfor, Mosca risponderà con il rafforzamento del potenziale militare nelle proprie regioni occidentali e a Kaliningrad e la possibile apertura di una base aerea in Bielorussia. Washington tenterà anche la carta armena, dopo la “rivoluzione di velluto” della primavera scorsa, nonostante la sua appartenenza all'Unione economica euroasiatica e all'Accordo di difesa collettiva, a fianco di Bielorussia, Kazakhstan, Russia, Tadzhikistan e Uzbekistan. Su Baku, tradizionale avversario di Erevan, Washington punta anche nella contrapposizione all'Iran. In Asia centrale, gli sforzi USA si indirizzano soprattutto verso Kazakhstan e Uzbekistan.


E, a fianco della carta energetica, delle misure di difesa militare, Mosca non dimentica nemmeno i passi finanziari, con il sempre più accentuato abbandono del dollaro, l'acquisto a ritmi sostenuti di oro e la vendita massiccia dei titoli di debito pubblico USA. Dai 96 miliardi di dollari di obbligazioni americane del marzo scorso, la Russia è scesa agli attuali 14 miliardi e, anche questi, quasi completamente trasformati in titoli a breve. Se nel 2010 gli investimenti della Russia nel debito americano superavano i 176 miliardi di dollari e la ponevano al 6° posto mondiale, oggi sono ridotti al minimo e la mettono al 54° posto, dietro al Kazakhstan. D'altronde, Mosca non è sola su questa strada: oltre alla Cina, anche tradizionali “amici” degli USA quali Giappone e Turchia hanno fatto e stanno seguendo lo stesso percorso.

 

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