Trump, Musk e lo scontro interno al capitalismo USA
di Alessandro Volpi*
Lo scontro tra Donald Trump e Elon Musk, tra il presidente degli Stati Uniti e l'uomo più ricco del mondo, che è stato il suo principale finanziatore in campagna elettorale, è iniziato in sordina ed è esploso in modo roboante, con le peggiori accuse reciproche. Musk è arrivato a chiamare in causa il coinvolgimento di Trump nello scabrosissimo "affaire Epstein" e a ipotizzare di dar vita ad un nuovo partito per battere l'attuale presidente. Le ragioni di questa deflagrazione sono molteplici e non facilmente sintetizzabili. Provo ad elencarne alcune. La prima, a mio parere decisamente rilevante, è costituita dal segnale che Trump ha voluto dare alle Big Three, a BlackRock, Vanguard e State Street, e in generale a quel tipo di finanza, di certo non in buoni rapporti con Musk. I tre fondi sono stati, e sono tuttora, grandi azionisti di Tesla ma hanno sempre manifestato una certa ostilità verso Musk che volevano sostituire alla guida di Tesla, nonostante il suo 13%, già nel 2018 e a cui hanno rimproverato la pessima operazione di acquisto di Twitter, causa di importanti perdite di valore per la società.
Gli stessi grandi fondi, poi, non hanno certo apprezzato il deciso posizionamento di Musk a sostegno di Trump e, paradossalmente, dopo l'elezione dello stesso Trump, quando i titoli Tesla si sono impennati, arrivando ad una capitalizzazione di mille miliardi di dollari, hanno cominciato a ridurre la loro presenza azionaria nella società. Trump, infatti, era agli occhi di BlackRock e c. un grande pericolo di instabilità dei listini quotati come dimostravano i dati dei primi mesi dopo l'insediamento e contro cui bisognava combattere, colpendo ovviamente anche il suo principale sostenitore. Peraltro, l'instabilità generata da Trump e l'ipervalutazione raggiunta da Tesla sulla scia del legame con il presidente degli Stati Uniti ha spaventato alcuni grandi clienti di BlackRock, come il fondo degli insegnanti americani, che hanno chiesto a Larry Fink una maggiore cautela nell'esposizione su tale titolo. Quindi, nel cuore dello scontro tra l'alta finanza dei grandi gestori e delle grandi banche, a partire da Jp Morgan di Jamie Dimon, e Trump, culminata con la partita cruciale dell'acquisto dei titoli del sempre più pericolante debito federale americano, di cui gli stessi fondi hanno minacciato la possibile vendita, con effetti devastanti sul costo degli interessi, la figura di Musk è diventata sempre più ingombrante.
Per essere ancora più chiari, nel conflitto interno al capitalismo finanziario Usa, le Big Three hanno capito di poter chiedere la testa di Musk ad un Trump sotto attacco anche dalla Federal Reserve. In questo senso ha pesato però un secondo elemento, parzialmente legato al primo. La cacciata di Musk, dopo le sue dimissioni dal Doge, significa il suo drastico ridimensionamento nel fondamentale campo dell'intelligenza artificiale, dove premono per avere un ruolo cruciale altre figure vicine a Trump e con cui Musk ha visto deteriorare i propri rapporti. Si tratta, tra gli altri, di Peter Thiel e Larry Ellision che ambiscono ad un peso decisivo nella prospettiva di ampi finanziamenti federali verso questo settore. L'ostilità di Thiel a Musk si inserisce poi - ed è questo un terzo fattore - nell'avversione da sempre maturata verso il sudafricano dalla destra americana, decisamente filo trumpiana; una destra radicale, guidata da Steve Bannon che ha sempre condannato la natura "tecno feudale" del capitalismo di Musk e le sue origini "immigrate".
A questa fattispecie di dure riserve verso il miliardario sono riconducibili anche gli attacchi dei ministri chiave dell'amministrazione Trump, a cominciare da Bessent e Lutnick, e dai vertici dei comunque influentissimi dipartimenti federali, colpiti dall'opera brutale del Doge, a partire da quello della Difesa, sicuramente ostile all'idea muskiana di accelerare il processo, già in atto da tempo, della sua privatizzazione. Bisogna considerare, infine, i tratti del potere personale di Trump che non ha gradito le eccessive esposizioni di Musk, le sue critiche, spesso non troppo mediate, nei confronti di vari atti presidenziali ed in particolare quelle al Big, Beutiful Bill; Trump non vuole, in alcun modo, essere considerato il capo di una squadra e ha costruito la sua fortuna elettorale sulla capacità di presentarsi come l'unico, vero interprete dello "spirito americano", senza mediazioni di sorta. In tal senso, l'adesione alla visione Maga ha, per Trump, tratti fideistici, i soli in grado di rendere meno evidente il distacco con la realtà in caso di fallimento. Musk era troppo invasivo persino nella figura del gran sacerdote del culto trumpiano e, inoltre, la solidità del suo rapporto con Trump avrebbe compromesso l'altro grande elemento della strategia trumpiana costituito dalla assoluta imprevedibilità: solo attraverso la possibilità di cambiare tutto in qualsiasi momento l'ex Tycoon pensa di potere essere interpretato come il facitore delle sorti collettive, politiche e in primis finanziarie.
Un'ultima considerazione coinvolge il futuro di Musk, assai nebuloso data proprio la marcata dipendenza dalla presidenza Trump. Con la vittoria trumpiana, Tesla è esplosa ed ora sta precipitando, mantenendo però ancora indicatori sopravvalutatissimi come un rapporto prezzo/utili del 161, che dovranno scontare la fine dei sussidi annunciata nel già ricordato Big, Beautiful Art, non a caso oggetto delle critiche di Musk, e l'aggressione delle agenzie di rating. L'uomo più ricco del mondo rischia seriamente il tracollo rapido ed anche questa è una testimonianza evidente della crisi abissale del capitalismo.
*Post Facebook del 6 giugno 2025