Un metodo chiamato civiltà. Gaza, Iran e l’architettura coloniale dell’Occidente

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Un metodo chiamato civiltà. Gaza, Iran e l’architettura coloniale dell’Occidente


di Pasquale Liguori

 

L’ordine occidentale contemporaneo si regge sulla capacità di neutralizzare il conflitto attraverso il discorso, di convertire la realtà storica in narrazione funzionale, di trasformare la guerra in umanitarismo. Giorgio Agamben ci ha mostrato come “lo stato d’eccezione tenda a imporsi come forma legale di ciò che, per definizione, non può avere forma legale”. Sicché è dentro questa logica che si inscrive la gestione occidentale della crisi mediorientale, in particolare dopo il 7 ottobre 2023: un evento che ha segnato il punto di emersione - ovviamente, non l’inizio - di un processo coloniale lungo un secolo. Ma ciò che conta per l’Occidente non è la storia reale, bensì la sua manipolazione selettiva, volta a legittimare ogni intervento, ogni silenzio, ogni alleanza.

La reazione immediata delle classi dirigenti euro-atlantiche all’attacco del 7 ottobre ha rivelato il riflesso condizionato di un dispositivo ideologico profondamente radicato. Si è parlato di pogrom, di ritorno dell’antisemitismo, di barbarie antioccidentale. Nessun riferimento alla resistenza, al contesto coloniale, alla storia consolidata di oppressione, occupazione, apartheid. La Palestina, come entità storica e politica, è stata rimossa dal discorso. L’Occidente ha identificato il nemico assoluto - il “terrorista” palestinese - delegittimandone qualsiasi azione in quanto eccezione umana e giuridica.

In linea con la genealogia foucaultiana del potere, che non reprime ma produce i discorsi legittimi, la cancellazione della Palestina come soggetto politico rientra pienamente nella strategia biopolitica dell’Occidente. Non a caso, il diritto alla resistenza - sancito persino da un diritto internazionale pur funzionale al bisogno imperiale - è stato completamente espunto dal dibattito pubblico occidentale, perché incompatibile con l’architettura coloniale su cui Israele si fonda.

Con il protrarsi del genocidio a Gaza, e davanti a immagini divenute troppo difficili da contenere o giustificare, la narrativa occidentale ha cominciato a incrinarsi. Ma questa incrinatura non ha prodotto un cambio di paradigma: ha solo spostato il bersaglio. Israele è diventato materia problematica, ma incarnandolo nella figura patologica del suo primo ministro: Benjamin Netanyahu. Il problema non è più l’ideologia sionista, il colonialismo di insediamento, l’apartheid strutturale, ma la deviazione personale di un leader oltranzista.

Si tratta di un classico meccanismo di neutralizzazione dove il dissenso viene inglobato nel sistema come correzione interna. Israele resta lo Stato democratico solo temporaneamente traviato da un personaggio divenuto all’improvviso ingombrante, indesiderabile. E così la parola genocidio ha fatto il suo gracile ingresso nel consesso della comunicazione accettata ma, perlopiù, continua a essere modulata, calmierata in “uso sproporzionato della forza”. Innocenti e bambini uccisi, invece, persistono nella disumana catalogazione di “effetti collaterali”. E la colonizzazione, ancora una volta, è la non pervenuta.

Eppure, lo schema dell’Occidente non è mai statico. Appena il nemico strategico cambia, la morale recupera la sua arroganza selettiva e si adatta prontamente al nuovo nemico utile. E così quando Israele decide di attaccare l’Iran - accusato da anni di essere la mefistofelica minaccia alla “civiltà liberale” - il sistema si ricompatta. Questa volta, pur nella configurazione di un’ennesima violazione del quadro legale internazionale, le tanto amate categorie di “aggredito” e “aggressore” adottate per il confronto Russia-Ucraina, subiscono la censura repressiva del doppio standard à la carte. La demonizzazione dell’Iran, costruita da decenni attraverso stereotipi coloniali (patriarcato, oscurantismo, teocrazia punitiva), serve a restaurare l’immagine di Israele come avamposto avanzato della modernità con l’eterno ritorno della bianca alleanza strutturale.

Non importa che Israele abbia aggredito per primo. Non importa che sia in flagrante violazione di ogni presunta norma. Come si sono subito premurati a dichiarare i leader di Francia e Germania, zelanti servitori del loro viscido padrone a stelle e strisce, Israele “ha il diritto di difendersi” a prescindere, persino nel momento in cui aggredisce. Il paradosso è totale: l’aggressore coloniale viene immediatamente riabilitato nel quadro di una subordinata legalità internazionale, a condizione che il nemico sia utile agli interessi geopolitici occidentali.

Emerge la coesione interna di un sistema razzista, che considera la vita palestinese - e dell’Asia occidentale in senso più ampio - come fondamentalmente sacrificabile. Edward Said ben chiarì come l’orientalismo non fosse solo una matrice culturale, ma un impianto politico destinato a costruire un soggetto coloniale inferiore, compatibile con la governance imperiale, mai emancipabile. La selettività morale dell’Occidente è razionale nella sua funzione imperiale, persino scontata, banale nella gestione del suo male: garantire il controllo delle rotte energetiche, la stabilità degli alleati regionali, l’egemonia simbolica del mondo euroamericano.

In questo quadro, la Palestina non è mai un fine. È solo una variabile tattica. Il suo martirio prolungato è il prezzo accettabile da pagare per la preservazione di un ordine globale basato sulla disuguaglianza, sull’eccezione e sulla gerarchia delle vite. Il dominio globale, che sempre più a fatica gli Usa cercano di mantenere, richiede un controllo costante dell’Asia centro-occidentale. Israele, in questo disegno, resta la pedina strategica e i suoi crimini possono essere condannati (a parole, chiaramente) solo quando smettono di essere utili.

Il vero scandalo è la coerenza sistemica dell’Occidente nell’adattare ogni principio alla logica imperiale. Le sue fluttuazioni morali, le retoriche contraddittorie, i riconoscimenti diplomatici privi di sostanza non sono il sintomo di un fallimento etico, bensì strumenti di governo: meccanismi volti a disattivare ogni rottura reale, a convertire il dissenso in gestione, la resistenza in eccezione patologica.

In questo schema operativo - che non è una deriva ma un metodo - il genocidio a Gaza non rappresenta un’anomalia ma una continuità, l’estensione estrema della razionalità coloniale. La Palestina è il punto cieco strutturale dell’ordine globale, il nome di ciò che non può essere detto senza compromettere l’impalcatura dell’Occidente stesso. La resistenza palestinese non è negata per errore, ma perché la sua sola esistenza rompe il frame: sovverte la narrazione umanitaria, disarticola il diritto selettivo, spezza la finzione della civiltà. Finché questa resistenza sarà in piedi, sarà anche inaccettabile per l’ordine occidentale. Per questo, Gaza può essere rasa al suolo senza che il sistema vacilli. E l’architettura dell’Occidente, nella sua razionalità necropolitica, continuerà a funzionare. Non come spettatore inerte, ma come co-autore lucido, ingegnere delle sue geometrie di morte.

Eppure, ciò che questo stesso ordine non riesce a comprendere - e dunque a spezzare - è la forza che scaturisce dall’intreccio secolare tra memoria, giustizia e terra. La resistenza, anche massacrata, anche isolata, non si estingue. Rinasce nei solchi della distruzione, nel sangue che irrigua il suolo, nella parola che sopravvive al silenzio. A Teheran come a Gaza, a Jenin come a Beirut, la volontà di non cedere continua a germogliare.

Come ha scritto il poeta afghano Najib Barwar, all’indomani dell’aggressione sionista a Tehran:

«Che può il temporale contro questo antico salice? Oggi è il giorno dei martiri - ogni ramo abbraccia il suo sudario Non solo l’Iran, ma tutto l’Oriente sanguina da questa ferita O Ummah, dov’è il tuo amore per la patria?»

A questa domanda, la storia risponde senza ambiguità: le potenze coloniali possono abbattere città, umiliare corpi e cancellare nomi dalle mappe, ma non possono estirpare la radice. La resistenza non è un’eccezione, è l’eredità profonda dei popoli che non accettano di piegarsi.

 

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