ESTETICA DELL’IMPOTENZA: L’IPOCRISIA DELLE MOBILITAZIONI DI FACCIATA PER GAZA

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ESTETICA DELL’IMPOTENZA: L’IPOCRISIA DELLE MOBILITAZIONI DI FACCIATA PER GAZA


di Pasquale Liguori

Il 9 maggio, in coincidenza con la Giornata dell’Europa, un gruppo di intellettuali ha lanciato un appello alla mobilitazione online per Gaza, invitando a pubblicare messaggi sui social network con gli hashtag #ultimogiornodigaza e #gazalastday.

A prima vista, l'iniziativa appare generosa, persino necessaria. Ma a guardarla più da vicino si intravede il tratto comune di molte delle mobilitazioni “progressiste” contemporanee: una retorica compassionevole che, invece di rompere il silenzio, lo normalizza. Un’adunata del buonsenso che invece di combattere il genocidio, lo estetizza.

Chi promuove queste iniziative appartiene, nella maggior parte dei casi, a un circuito chiuso, riconoscibile. Una rete di amici degli amici che riproduce sé stessa sotto le spoglie di un impegno inclusivo e popolare. Ma popolare non è: un aggregato di pochi che si parlano tra loro, si citano a vicenda e si legittimano reciprocamente. Nessuna apertura reale, nessuna democratizzazione della parola.

Dietro l'invito a usare la rete, si cela un culto raffinato dell’impotenza. Postare un hashtag non costa nulla, non richiede rischi, non implica un'esposizione vera. Si produce così un grande rito collettivo di autoassoluzione: abbiamo fatto qualcosa, possiamo sentirci a posto con la nostra coscienza. Gaza, intanto, continua a morire. L'orrore non viene scosso, viene reso spettacolo, tema da trend topic. Si produce emozione, non azione. Si anestetizza l’urgenza politica sotto una coltre di estetica morale.

Benché desiderosa di assurgere a “resistente”, questa mobilitazione non mette in discussione alcun asse di potere reale. Non sfida i governi che sostengono Israele, non intacca gli interessi economici, non propone né organizza forme di boicottaggio, disobbedienza civile, pressione politica sistematica. Si limita a gesti simbolici che il sistema può tranquillamente assorbire senza scomporsi. Paradossalmente, contribuisce a garantire la tenuta di quello stesso ordine globale e giuridico internazionale che rende possibile la tragedia palestinese.

Chi resiste davvero è disposto a pagare un prezzo, a costruire alleanze radicali, a riconoscere la propria parzialità e a cedere il microfono a chi è oppresso. Qui, invece, si vede una dinamica paternalistica: Gaza diventa il simbolo della nostra purezza morale, non un soggetto con cui comporre una lotta comune. Non si tratta Gaza come interlocutore, ma come oggetto di pietà. Non si costruiscono strumenti di resistenza reale, si costruiscono narrazioni di innocenza.

In definitiva, questa modalità di mobilitazione deresponsabilizza chi vi partecipa. Permette di delegare la presa di parola a pochi, mentre il cittadino comune, confortato dal proprio post o dalla propria firma, può tornare alla propria quotidianità senza modificare alcuna struttura di potere. La colpa viene lenita, la rabbia incanalata in forme innocue e il genocidio può procedere indisturbato.

Queste iniziative non sono solo inefficaci: sono dannose. Perché perpetuano l’idea che il cambiamento sia una questione di sentimenti da condividere e non di potere da strappare. Trasformano la tragedia di Gaza in un pretesto per rinnovare l’immagine morale di un’élite culturale che non intende realmente abbandonare i suoi privilegi.

Contro il genocidio, non servono nuove estetiche della testimonianza. Servono pratiche di lotta, di resistenza concreta, di alleanza reale. Servono coraggio, conflitto, disobbedienza. E soprattutto, serve il rifiuto radicale di ogni ipocrisia.

 

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