La questione cilena

La questione cilena

Il Cile protesta chiedendo un cambio di modello ed una Assemblea Costituente, nonostante la brutale repressione di polizia, esercito e gruppi parafascisti armati. A metà strada tra il sogno di un paese migliore ed il rischio di scivolare nuovamente in una dittatura

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Come probabilmente già saprete da reti sociali e TV da quasi un mese il Cile è in rivolta, tutti i giorni.


Si tratta della protesta di un popolo che - con trent’anni di ritardo – sta provando a fare i conti con il suo passato più triste, ovvero i diciassette anni di dittatura di Pinochet. Durante quel periodo, oltre alle numerose ed atroci violazioni di diritti umani, agli esili, ai morti ed alle torture viene introdotto in Cile anche un modello socioeconomico ed una costituzione “catenaccio” elaborata con il preciso scopo di consolidare quel modello e rendere difficili, se non impossibili, futuri cambi sostanziali dovuto agli elevati quorum richiesti (66%) per le modifiche alle parti più importanti della carta. Como immaginerete, essa fu scritta tra quattro pareti e con un processo di ratifica popolare (referendum) che definire farsa sarebbe riduttivo.


L’impostazione di fondo della costituzione privilegia il diritto alla scelta – in chiave liberista – rispetto, ad esempio, all’accesso universale alle cure, all’istruzione o ad un sistema pensionistico decente. Inoltre, lo Stato è ridotto a mero finanziatore o controllore delle imprese private e ad esso viene preclusa nei fatti la possibilità di interventi nell’economia che possano garantire i servizi essenziali, il benessere del popolo cileno ma anche di fare investimenti di lungo termine incompatibili con le logiche del profitto del grande capitale. Altri aspetti poco consueti per una Carta Fondamentale riguardano la negazione del diritto all’aborto, l’accesso negato alle risorse naturali e la privatizzazione dell’acqua che genera vere e proprie carestie tra i piccoli contadini privilegiando le grandi esportazioni e le idroelettriche.


Per chi fosse interessato ad approfondire, ne parlo in dettaglio qui.


Non sorprende dunque che - una volta esplosa la latente crisi sociale ed economica – la grande maggioranza dei cileni chieda a gran voce un’Assemblea Costituente. Il potere ha più volte modificato gattopardescamente la Costituzione senza intaccare il modello di fondo, ed anche in questi giorni prova a spaccare il fronte rivoluzionario con proposte di cambi per via parlamentaria o di Congresso Costituente - in cui la Carta viene elaborata dal parlamento e ratificata tramite referendum.


Memore delle fregature del passato, ed ormai disilluso da qualsiasi cambio che non implichi una partecipazione diretta, il movimento di massa non molla e continua la lotta. La Unidad Social, alleanza di più di 120 tra organizzazioni e movimenti, si preoccupa in questo contesto di dare una certa organicità alle proteste spontanee e di promuovere la auto-formazione e la presa di coscienza dei cittadini.


Ma qual è il prezzo? I numeri ufficiali dell’Istituto Nazionale per i Diritti Umani (INDH) parlano di più di cinquemila arresti, 2000 feriti (di cui 200 agli occhi, il quale rappresenta un record mondiale) da pallini di gomma, piombini o pallottole; ci sono anche più di 50 morti ed altrettante denunce per violenza sessuale, senza contare le 200 segnalazioni torture e crudeltà di vario tipo. Questi numeri, già di per sé impressionanti, vengono definiti perfino “ottimisti” dalla croce rossa cilena –costantemente in terreno – e non tengono ovviamente conto di casi non denunciati o difficili da provare, come ad esempio i desaparecidos, un fenomeno per il quale il Cile è tristemente famoso e che sperava di aver lasciato nel passato.


A chi come me partecipa pacificamente tutti i giorni e da quasi un mese a manifestazioni, Cabildos (assemblee auto-convocate per mettere nero su bianco le principali rivendicazioni ed i principi di una nuova Costituzione) o a blocchi stradali pacifici con famiglie e bambini, appare più che evidente che da settimane ormai non si può più parlare di democrazia in Cile. In molti abbiamo visto coi nostri occhi come i carabinieri perseguitino più che altro i manifestanti pacifici – quelli armati di pentole e mestolo o al massimo di una macchina fotografica – al solo scopo di disperdere o reprimere la protesta. Funzionari dello Stato che in teoria dovrebbero proteggere i propri cittadini ed i loro diritti - ivi compreso quello a manifestare pacificamente - e che invece rappresentano un pericolo per gli stessi, da cui fuggire a gambe levate.


Non vengono risparmiati neanche bambini, invalidi, croce rossa, incaricati dell’INDH o premi Nobel per la pace.


È importante capire che i mezzi d’informazione nazionali ed internazionali che parlano di “polarizzazione”, paragonando perfino il colpo di stato in atto in Bolivia con questa sollevazione popolare, mentono spudoratamente. Basti pensare che 1,2 milioni di persone (cifre ufficiali) sono scese in piazza nella manifestazione più grande, quella storica del 25 di ottobre. Oppure che i risultati dell’ultimo sondaggio Pulso Ciudadano parla mostra un appoggio dell’83,4% della popolazione alle manifestazioni e di un misero 9,1% al presidente Piñera.


Un altro pericolo è rappresentato dai gruppi di estrema destra i quali (con una certa confusione ideologica a mio parere) si sono appropriati del simbolo del “gilet giallo” ed attacano i manifestanti. Oltre a minacce e pedinamenti sulle reti sociali, essi organizzano vere e proprie ronde, armati di mazze da baseball (o peggio) ed avallati dalle autorità. I casi più famosi finora riguardano quello di una ragazza colpita alla testa a Reñaca di fronte ai carabinieri – i quali poco prima avevano loro assicurato protezione e dichiarato di essere con loro nonostante fossero armati – oppure quello di uno statunitense suprematista bianco che si è messo a sparare ai manifestanti. Per non parlare della sindaca del quartiere di Santiago di Providencia Evelyn Matthei la quale, vestita anch’essa con un gilet giallo ed in una scena ridicola in cui si è messa a dirigere il traffico, ha dichiarato che agli abitanti del suo quartiere non restava altro che armarsi dato che le azioni che potevano compiere i carabinieri erano inefficaci in quanto limitate dalle leggi esistenti.


Noi teniamo duro. Prima o poi alla casta dei super ricchi cileni toccherà “condividere i privilegi”, come ammesso candidamente dalla first lady Cecilia Morel in un audio WhatsApp inviato ad una sua amica, e posteriormente fatto filtrare e reso pubblico.


Ma siamo anche in pericolo, ed in questo momento è importantissimo che gli occhi del mondo non si distolgano da ciò che sta succedendo qui. Aiutateci.

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